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Risvegli Che cos’è cambiato per cui anche i ministri degli esteri dell’Unione europea – non tutti, naturalmente non il nostro Tajani – adesso pensano che Israele stia esagerando nella sua mattanza […]

Benjamin Netanyahu - Ap Benjamin Netanyahu - Ap

Che cos’è cambiato per cui anche i ministri degli esteri dell’Unione europea – non tutti, naturalmente non il nostro Tajani – adesso pensano che Israele stia esagerando nella sua mattanza a Gaza, quando fino a qualche giorno fa si sarebbero affrettati a definire antisemita chi avesse formulato un pensiero del genere? Niente, nella sostanza. Il gabinetto di guerra Netanyahu porta avanti lo sterminio da quasi venti mesi, da due ha chiuso ogni varco per gli aiuti (riaperto appena ieri e inutilmente) e scatenato la fame. Non c’è nulla che possa chiamarsi novità, c’è un orrore che si accumula, come le macerie della Striscia e come i cadaveri dei gazawi.

Quella montagna è diventata troppo alta anche per chi si è voltato dall’altra parte per non vedere Gaza? Vorremmo sperarlo, ma le prime timide prese di posizione – che non sono fatti ma annunci di fatti – non interrompono la cooperazione degli Stati europei (non parliamo degli Usa) con l’esercito distruttore di Israele. E certo potrebbero, come dichiarano sfacciatamente ministri e parlamentari di Tel Aviv, soddisfatti che «il mondo non ci ha ancora fermato». Dunque questi segnali di cambiamento sono poca cosa al cospetto dell’enormità del crimine, ma vanno colti. Così come li abbiamo colti sui media internazionali e persino nazionali; la parola «genocidio» è comparsa laddove era stata processata, a dimostrazione che chi ha voluto usarla non lo ha fatto per chiudere con superficialità il discorso ma al contrario per cercare di tenerlo aperto all’altezza della gravità dei fatti.

Questo aprire un po’ gli occhi sull’orrore, tardivo e scarso – ancora una volta con l’indegna eccezione del governo italiano – dunque non può consegnarci una fiducia nei governanti né nelle istituzioni sovranazionali che non hanno fermato Israele. Ma deve spingerci a gridare più forte l’atroce verità della pulizia etnica, raddoppiare l’impegno per incalzare chi al potere e nei media avrà sempre meno alibi per non vederla. Lo fanno con forza milioni di persone nelle piazze di tutto il mondo sfilando con la bandiera della Palestina. Ormai incontestabilmente dalla parte giusta della storia.

 

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Il colloquio Siamo subito chiari: non è con una telefonata che si raggiunge la pace dopo tre anni di guerra sanguinosa. Ci vuole ben altro, nonostante che a parlarsi per telefono siano […]

Matrioske russe raffiguranti Putin e Trump Matrioske russe raffiguranti Putin e Trump

Siamo subito chiari: non è con una telefonata che si raggiunge la pace dopo tre anni di guerra sanguinosa. Ci vuole ben altro, nonostante che a parlarsi per telefono siano da una parte Trump, tradizionale portavoce degli interessi occidentali che stavolta con la sua leadership corrispondono molto più agli interessi degli Stati uniti, e dall’altra Putin che continua il conflitto, dopo la criminale invasione del febbraio 2022 e la sequenza di avvenimenti che l’hanno preceduta, dall’oscura rivolta di Majdan, alla «riacquisizione» della Crimea, dall’allargamento della Nato fino ai confini russi alla guerra civile tra esercito di Kiev e minoranza russa autoproclamatasi indipendente in Donbass e Lugansk. Eppure ci troviamo di fronte, dopo la ripresa di negoziati di Istanbul, probabilmente al secondo «momento», durato ben due ore, di un negoziato di pace.

Per il quale, secondo i resoconti sia del leader russo che dell’inquilino della Casa bianca, sembrano delinearsi già, insieme, un itinerario e una contraddizione di contenuti. E alcune sorprese che non definire positive sarebbe a dir poco miope. Quali le ambiguità e le positività? Intanto che le due versioni non siano contraddittorie, anzi, anche se più trattenuto appare Putin e più entusiasta Trump ringraziato, tra l’altro, per aver facilitato la ripresa delle trattative dirette. «La cosa più importante per la Russia – avrebbe detto Putin a Trump – è eliminare le cause di fondo del conflitto ucraino, per aggiungere che «la Russia e l’Ucraina devono dimostrare la massima volontà di arrivare alla pace e trovare quei compromessi che vadano bene a entrambe le parti».

Parlare di compromessi che vadano bene ad entrambe le parti non è cosa da poco, non è cosa da poco che la parola «compromesso» compaia nella versione russa della telefonata: per la prima volta Mosca ammette che anche lei dovrà fare compromessi e ne chiede altrettanti. Certo Putin ha fatto capire che la Russia non è interessata a un cessate il fuoco immediato, concordando però con il presidente americano che Mosca proporrà ed è pronta a lavorare a un «memorandum» per un «possibile trattato di pace futuro» che stabilisca anche «un possibile cessate il fuoco per un certo periodo se i relativi accordi saranno raggiunti».

«Penso sia andata molto bene», ha commentato Trump per parte sua, per aggiungere: «La Russia e l’Ucraina inizieranno immediatamente le trattative verso un cessate il fuoco e, ancora più importante, per la fine della guerra». Un annuncio che può apparire frettoloso e superficiale degno del protagonismo imperiale del tycoon, ma, fatto singolare, non è rimasto sui social e in questi termini è stato riferito a Zelensky, con cui Trump aveva parlato prima della lunga conversazione con Putin, alla presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, al presidente della Francia, Emmanuel Macron, alla premier italiana Giorgia Meloni, al cancelliere tedesco Friedrich Merz, e al presidente della Finlandia Alexander Stubb.

I Volenterosi non possono che prenderne atto, ma la nota di Berlino secondo la quale si preparerebbero invece ad «alzare la pressione su Mosca» con nuove sanzioni, in questo momento, va in direzione opposta allo spiraglio, il «filo», che si è visto ieri. Mentre la disponibilità già annunciata da Leone XIV di ospitare in Vaticano le trattative è anch’essa una traccia, un secondo momento.

 

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La fossa del Leone «Sono un figlio di Sant’Agostino, un agostiniano» – così il nuovo papa si è presentato al mondo. E in quel «figlio» c’è una nota di intimità maggiore che nella semplice […]

Il neoeletto Papa Leone XIV, il cardinale Robert Francis Prevost, saluta dalla loggia centrale della Basilica di San Pietro Il neoeletto Papa Leone XIV, il cardinale Robert Francis Prevost, saluta dalla loggia centrale della Basilica di San Pietro

«Sono un figlio di Sant’Agostino, un agostiniano» – così il nuovo papa si è presentato al mondo. E in quel «figlio» c’è una nota di intimità maggiore che nella semplice indicazione di appartenenza a un ordine. Una filiazione è certo qualcosa di più intimo per un religioso, eppure è anche qualcosa di più universale e laico, in questo caso. Si può essere frati agostiniani, come lo fu Lutero, ma si può essere filosofi agostiniani, come lo furono con diversa profondità Cartesio e Pascal, Arnauld e Leibniz, Husserl e Edith Stein.

Perché i libri di Agostino hanno forgiato la lingua della filosofia, in Europa, per mille anni ancora dopo la sua scomparsa. Le sue opere – Dialoghi, Soliloqui, Commentari, scritti esegetici, polemici, mistici – hanno forgiato la lingua universale della ricerca umanistica, il latino, fin nell’intima logica e grammatica delle lingue moderne che ne sono eredi. Ma i suoi tre capolavori – le Confessioni, La trinità, La città di Dio – hanno anche definito le materie della metafisica: l’anima, Dio, e il mondo. Ne hanno disegnato i pilastri, tracciando i domini delle “metafisiche speciali”: la psicologia e la morale, la teologia, la filosofia della storia. Il loro latino ha plasmato il nostro pensiero filosofico molto più che la nostra teologia biblica: ma la parola biblica, in compenso, Agostino l’ha fatta esplodere in una foresta di simboli, facendoci comprendere, nel XIII libro delle sue Confessioni, che la sola lettura proibita è quella priva d’ispirazione.

E che se ne fa, un papa, della filosofia e dell’ispirazione? Molto, credo. In primo luogo ha un antidoto formidabile contro il letteralismo di tutti i fondamentalisti, miscredenti e cinici compresi. Dove lo spirito vivifica, la lettera uccide: e non si dice per metafora, in un momento in cui Netanyahu e i suoi ministri perpetrano un genocidio delirando sulla Bibbia. Da sempre i nomi di dio, scritti sulle bandiere, diventano parole assassine. Ma anche senza arrivare a questo estremo, pensate alle teorie del “creazionismo” che circolano in misura sorprendente fra i connazionali di Leone XIV, se è vero che quasi la metà degli americani crede che le pagine della Genesi siano un trattato di paleoantropologia, e se ci sono scuole sciagurate che insegnano la teoria del Disegno Intelligente invece che la biologia standard e l’evoluzione. E se è vero che fu un gesuita (Teilhard de Chardin) a sdoganare l’evoluzionismo nel mondo cattolico, fu Agostino un millennio e mezzo prima a ridere della stoltezza di chi si chiede cosa facesse Iddio “prima” di creare il mondo – come se potesse esserci un tempo senza mondo, e il tempo non fosse, come lo spazio, una dimensione del mondo. Che è un bell’anticipo sulla relatività leibniziana, e poi einsteiniana…. Ma veniamo a esempi più cruciali! I goti di Alarico mettono a sacco Roma nel 410: poco dopo, Agostino comincia a scrivere La città di Dio.

E mentre il mondo antico rovina in se stesso, lui all’angoscia risponde con un faro di luce e nuova intelligenza della parola “creazione”. Vuol dire che il mondo è generazione continua del nuovo, da che vi appare l’uomo, questo essere inquieto che vi introduce tutto ciò che prima non c’era, nel bene e nel male: le città e le guerre, la legge e il crimine, il lusso e la miseria, la Divina Commedia e l’intelligenza artificiale. Insomma, la storia. Altro che immagine mobile dell’eternità, il tempo, con l’orologio circolare del cielo. Altro che pallide copie dei loro modelli e dei, le nostre vite. Il tempo fa di ogni evento qualcosa di irreversibile, di ogni vita qualcosa di irripetibile, di ognuno un unicum. Fa dell’esistenza una cosa piuttosto seria, come la responsabilità che ne portiamo, del nostro stesso morire e dar morte. Essere o non essere. In ogni punto e momento, decidere chi siamo. Ciò che facciamo di noi stessi, degli altri, del creato. Noi, cause di tutto il male, ma cause deficienti, perché intrise di nulla, abituate a prender l’io per Dio.

Un papa agostiniano andrà al fondo di ogni parola. Non gli dorrà il “consumismo”, ma l’inconsistenza, l’incoerenza, la dispersione delle nostre vite, l’imperdonabile distrazione con cui le gettiamo, sordi al richiamo di una vocazione. Non distoglierà lo sguardo dalla nostra aiuola feroce per rivolgerlo al cielo, perché le due città sono rimescolate, e quella di Dio è «peregrina in terra» – una delle prime frasi di questo papa. E veniamo a quella pace “disarmata e disarmante” che a molti è parsa la sua, la nostra terra promessa. “Credere per capire”, il motto per eccellenza agostiniano, fa della fede una ricerca di intelligenza, e della morale una spietata indagine sui doppifondi dell’anima e sul più diabolico dei suoi poteri, quello di mentire a se stessa e di rimuovere il vero. Si mente anche armando le parole, arruolandole. La verità è disarmante, quando è intera. Un papa agostiniano non dovrebbe mai dire mezze verità. Perché sono le più vili di tutte le menzogne. Una conferma cogente, proprio in questi giorni di vertici e stragi, che viene anche dal suo appello di ieri al corpo diplomatico accreditato alla Santa Sede: «Basta produzione di armi» per «sradicare le premesse di ogni conflitto e di ogni distruttiva volontà di conquista».

 

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Opinioni Oggi la “questione sociale” va ben oltre lo sfruttamento, perché coinvolge gruppi che nel mondo del lavoro non hanno alcun ruolo, o se lo hanno, lo hanno in modalità che ne impediscono l’organizzazione stabile

Tornare davanti alle fabbriche non basta Illustrazione – Ikon

La presa di posizione netta di Elly Schlein sui quesiti referendari è senza dubbio un segnale importante, da salutare con favore. Una rottura con le scelte fatte dallo stesso Pd nel periodo in cui la direzione del partito, guidata da Matteo Renzi, si era allineata completamente all’indirizzo neoliberale che si era già affermato in buona parte dei partiti socialisti europei e nel partito Democratico statunitense.

L’idea di fondo era di venire incontro alle richieste di flessibilità del lavoro subordinato che arrivavano dalle imprese, nella speranza che questo avrebbe rilanciato un’economia in affanno. Oggi, alcuni promotori di quelle politiche fanno una parziale autocritica, dicendo che gli effetti benefici attesi non si sono ottenuti.

Perché non è stata realizzata «l’altra gamba» della riforma, ovvero le «politiche attive» in difesa dei posti di lavoro. Una scusa che ignora consapevolmente il fatto che la responsabilità di questa mancanza cade in gran parte proprio su chi ha voluto e realizzato gli interventi per aumentare la flessibilità, ovvero il gruppo dirigente del Pd di quegli anni (che oggi si è disperso in parte, dando vita a diverse formazioni centriste, ma mantenendo una presenza significativa nel partito di origine).

Se le politiche in difesa dei posti di lavoro fossero state sostenute con la stessa energia con cui si condusse l’attacco all’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, forse il risultato sarebbe stato meno iniquo. In ogni caso, la situazione odierna è molto diversa da quella di dieci anni fa, e riportare il Pd su una linea di vigorosa difesa dei diritti dei lavoratori è una scelta necessaria e coraggiosa. Necessaria perché in linea con la letteratura economica recente, che ha ridimensionato l’efficacia della flessibilità come stimolo della produttività, e coraggiosa perché la resistenza (all’interno e all’esterno del partito) alla linea indicata da Schlein sarà senza dubbio aggressiva, come mostrano le polemiche di questi giorni.

Chiarito questo punto, credo sia opportuno allargare lo sguardo pensando al futuro indipendentemente dal risultato dei referendum. L’idea che il Pd deve tornare a essere il partito del lavoro, condivisibile, sul piano tattico, deve essere articolata per diventare una strategia politica di lungo periodo, e questo richiede una riflessione su cosa sia oggi il lavoro, e in che misura esso sia una categoria sufficiente a fare da perno al rilancio dell’iniziativa della sinistra.

La questione non è nuova. Se la poneva già Eric Hobsbawm nel 1978, quando si chiedeva se la spinta del Labour (la parola in inglese non indica solo un partito, ma il movimento dei lavoratori nel suo complesso) non si fosse arrestata in seguito alle profonde trasformazioni sociali ed economiche del secondo dopoguerra. Hobsbawm partiva dalla situazione britannica, e dalla sfida lanciata dai Conservatori guidati da Margaret Thatcher, ma le sue osservazioni si potevano già allora estendere a altri paesi, e sono ancora degne di attenzione. La spinta in avanti del Labour era infatti figlia di condizioni storiche che stavano mutando negli anni Settanta, e che è improbabile si possano ripristinare.

Oggi il mondo del lavoro è diviso e frammentato sia sul piano del ruolo che i diversi lavori hanno nelle economie capitaliste, sia sul piano – essenziale dal punto di vista politico – della coscienza di classe. La fabbrica fordista era l’ambiente privilegiato in cui si formava l’identità dei militanti del movimento operaio. La prospettiva temporale su cui si proiettava normalmente la produzione industriale (pensiamo agli stabilimenti torinesi e milanesi) agevolava processi di apprendimento che favorivano la consapevolezza di un interesse comune dei lavoratori, in grado di sopravvivere alle crisi e al ricambio generazionale nella composizione della forza lavoro.

La localizzazione della produzione, infine, offriva al movimento uno sfondo di socialità (circoli ricreativi, associazioni, sezioni di partito) che saldava le lotte operaie a quelle sociali e politiche. Se pensiamo alla relativa solitudine in cui si trovano oggi i lavoratori di Gkn in difesa del proprio posto di lavoro, ci rendiamo immediatamente conto che non basta dire «torniamo davanti alle fabbriche» se le fabbriche stesse sono diventate delle isole con collegamenti sempre meno efficaci con la terra ferma. La globalizzazione dell’economia non ha condotto a una globalizzazione della lotta di classe, ma ha invece risvegliato il nazionalismo.

C’è poi una questione di fondo, con cui è essenziale fare i conti. La centralità del lavoro per il movimento operaio e socialista non era solo un fatto, era anche una premessa morale, legata all’idea che il lavoro è una fonte del valore, e che la motivazione di fondo delle lotte non fosse semplicemente portare avanti rivendicazioni salariali, ma combattere lo sfruttamento inteso come appropriazione da parte del capitale di una parte dei frutti del lavoro.

Oggi la “questione sociale” va ben oltre lo sfruttamento, perché coinvolge gruppi che nel mondo del lavoro non hanno alcun ruolo, o se lo hanno, lo hanno in modalità che ne impediscono l’organizzazione stabile e l’inserimento all’interno delle dinamiche note del conflitto di classe. Le nostre società sono profondamente ingiuste, ma lo sfruttamento del lavoro rende conto solo in parte di queste ingiustizie. Tornare davanti alle fabbriche è un passo nella giusta direzione, ma non facciamoci illusioni, è solo il primo passo.

 

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Crisi Ucraina Per l’Ucraina restano inaccettabili le richieste territoriali russe e insiste sul cessate il fuoco prima

In un locale a Kyiv le notizie sulle trattative a Istanbul foto Ap In un locale a Kyiv le notizie sulle trattative a Istanbul – foto Ap

Nei colloqui di Istanbul le delegazioni russa e ucraina hanno concordato che ciascuna delle parti «presenti la propria visione di un possibile cessate il fuoco» e hanno ritenuto «opportuno continuare i negoziati», inoltre Mosca «valuta la richiesta di negoziati diretti Putin-Zelensky». Lo ha detto il capo delegazione russo Vladimir Medinsky – che, va sottolineato, prima aveva incontrato la delegazione Usa; e il ministro della Difesa ucraino Rustem Umerov ha affermato che le delegazioni ucraina e russa hanno discusso la possibilità di uno scambio di mille prigionieri ciascuno e «lavorando ad altre modalità di questo scambio». Trump – nonostante la pronta telefonata dei leader europei da Tirana perché considerasse il negoziato fallito per responsabilità dell’assente Putin, dall’alto del suo protagonismo d’affari imperiale ma al centro del mondo ormai, ha ammonito rassicurando.

Tutto si risolverà, ha dichiarato, «con un colloquio diretto tra me e il leader del Cremlino».

L’informazione retorica darà per falliti i colloqui di Istanbul, ci vuole poco. Invece è un momento, solo un momento prezioso che fotografa un cambio di attitudine decisivo: dopo tre anni di conflitto le parti tornano a parlarsi, certo con parole non ancora disarmate e disarmanti, e non a caso nel luogo del primo negoziato a Istanbul nell’aprile 2022 – quello fatto fallire dall’intervento del leader britannico Johnson, centinaia di migliaia di morti dopo, distruzioni e odio seminato sul quale abbiamo riversato solo armi su armi. Certo il “risultato” non c’è e si può parlare legittimamente di stallo, visto che per l’Ucraina restano inaccettabili le richieste territoriali russe e insiste sul cessate il fuoco prima, mentre i mediatori russi, provocatoriamente, citano la “storia”, insomma senza accordo niente tregua.

Ma il «momento» resta importante. Almeno per chi ha seguito questa crisi dalle cosiddette rivoluzioni colorate a Kiev e poi dall’oscura Majdan per arrivare alla presa della Crimea da parte russa e a otto anni, dimenticati, di guerra civile nel Donbass – quando il presidente Poroshenko si vantava che «noi siamo tranquilli nelle nostre case e i loro bambini stanno invece sotto le bombe»; poi l’iscrizione nella Costituzione ucraina dell’ineludibile ingresso nella Nato – del resto presente in Ucraina fin dal 2014 per ammissione dell’ex segretario atlantico Stoltenberg; per arrivare alla tragedia dell’invasione russa decisa da Zar Putin che ha aperto il vaso di Pandora di una guerra sanguinosa, di trincea, nel cuore d’Europa con centinaia di miglia di vittime.

A contraddire però questa aspettativa positiva per un cambio almeno di atteggiamento dopo tanto sangue versato ecco l’ennesima scesa in campo della coalizione dei Volenterosi, stavolta da Tirana: sul cessate il fuoco prima e sul possibile intervento militare diretto «per le garanzie di sicurezza». Putin, lo ricordiamo, ha per primo invitato Zelensky a Istanbul, lui ha risposto recalcitrando che sarebbe andato ma a condizione del cessate il fuoco, e Trump lo ha corretto e impegnato invece ad andare «immediatamente». I Volenterosi, praticamente l’Europa rimasta fuorigioco dopo tanti invii di armi, hanno rialzato la velleitaria testa sul cessate il fuoco come condizione, quasi un ultimatum con nuova minaccia di sanzioni, aggiungendo alcune minacce pesanti davvero inedite: appunto, la missione militare per “monitorare” la sicurezza di una tregua con truppe europee per le quali ieri il ministro britannico della Difesa è stato più preciso e preoccupante, dichiarando che Londra è ormai «disponibile a inviare truppe» e non dando dettagli ulteriori su tempi e modi «per non informare Putin» ha detto; e il giorno prima Macron ha tranquillamente annunciato la pronta disponibilità della Francia a dare le sue armi atomiche a Polonia, Lituania e non solo, per la prima volta aprendo l’ombrello nucleare della force de frappe ad altri paesi.
Siamo dunque all’invio di truppe, «per la sicurezza» di una tregua che non c’è, anzi c’è ancora la guerra, e che questi termini insidiosi rischiano di impedire, con una nuova minaccia nucleare ai confini russi. Ritorniamo all’obiettivo della “vittoria” con l’aggiunta di ultimatum da terza guerra mondiale. Ma non è stato Zelensky a riconoscere dopo tre anni di guerra che «non abbiamo la possibilità di riconquistare i territori occupati» come del resto il Pentagono diceva da due anni?

«Portarlo (Putin ndr) al limite – ha scritto nel suo editoriale Marco Imarisio sul Corriere della Sera di eri – come sembra voler fare l’Europa con i suoi ultimatum che dimostrano soprattutto una scarsa comprensione della mentalità e della percezione che i russi hanno di sé, può essere controproducente», e concludeva nella speranza su Istanbul: «Anche perché l’alternativa non esiste. A meno di voler accettare altri anni di questa macelleria senza alcun senso». Siamo sul baratro perché non solo la guerra non finisca ma si allarghi: che ci riarmiamo a fare? Meloni, che si chiama fuori dai Volenterosi, strabica tra difesa armata dell’Ucraina-riarmo Ue e/o il sodale Trump, per ora non vuole mandare truppe sul terreno, inizio di una deflagrazione a dir poco incontrollabile del conflitto. Attenzione perché lei è proto-fascista ma non per questo stupida e i sondaggi li vede. E certo ora l’opposizione non può limitarsi ad accusarla di «non partecipare» a questa avventura.

 

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Intervista L'ex ministro: «Con i referendum può arrivare una scossa per rimettere al centro il lavoro. Il quorum è difficile ma possibile. La condizione dei lavoratori deve essere il cuore dell’alternativa alle destre. Schlein l’ha capito, con 5S e Avs si diano una mossa». «Con Renzi e Calenda in futuro si può discutere, ma il nucleo della coalizione deve essere solido. Meloni? Con lei al governo hanno guadagnato solo banche e assicurazioni»

Bersani: «Abbiamo fatto cose disdicevoli. Ora ripartiamo» Pier Luigi Bersani – Ansa

Pierluigi Bersani ha appena pubblicato un libro, Chiedimi chi erano i Beatles (Rizzoli), in cui racconta gli ultimi tre anni in giro per l’Italia, a incontrare giovani e ragionar di politica. Più che un memoir è un’analisi della storia della sinistra in Italia, piena di idee per il futuro.

Nel libro lei ricorda spesso la necessità di tenere «l’orecchio a terra». Cosa dice il suo orecchio rispetto ai referendum di giugno?

Può essere una buona occasione, l’inizio di un risveglio. La questione del quorum è molto seria ma non la drammatizzo: come sinistra davanti abbiamo davanti un percorso lungo. Con i referendum si mettono a tema due questioni che riguardano il futuro dell’Italia: lavoro e cittadinanza. Il problema è come risvegliare le energie che ci sono, ma non trovano canali. Non siamo ancora riusciti ad accendere il fuoco, siamo ancora ai fuocherelli. In questo percorso i referendum sono una tappa cruciale: mi aspetto che una reazione nelle urne ci sarà.

Mondo del lavoro e sinistra, un rapporto complicato.

La parte del libro a cui sono più affezionato è quella sul lavoro. Dobbiamo far capire alle persone questo nesso: non può esserci in Italia una democrazia sana se il lavoro è malato. Il lavoro, come soggetto, è stato protagonista nell’impedire che la Costituzione rimanesse una carta astratta, nel difenderla dagli attacchi fascisti, la chiave per estendere tutti i diritti. Io spero che dalle urne esca l’energia per riprendere la strada di una legislazione positiva su questo tema: una legge sulla rappresentanza, il disboscamento di tutte le forme di precarietà, il salario minimo, la parità salariale, la sicurezza. Dobbiamo riunificare un mondo che oggi è disperso e frantumato: è un punto centrale della futura piattaforma dell’alternativa.

Questi quesiti sono adeguati per un progetto così ambizioso?

In Italia tutti i referendum vincenti hanno spinto ad approvare leggi che hanno portato a dei passi avanti, al di là del tecnicismo dei quesiti. Hanno messo in moto un processo.

Pensa che il quorum ci sarà?

Una sfida difficile ma possibile. Ma già mettere al centro della discussione questi due temi sarà un grande passo avanti.

Il Pd chiede di abrogare riforme volute dal Pd come il Jobs Act.

In tutti gli anni Novanta e nei primi Duemila tutta la sinistra nel mondo si è attardata su parole d’ordine vincenti nella fase ascendente della globalizzazione: si pensava che la marea sollevasse tutte le barche, anche quelle piccole. Poi è arrivata la smentita: e con questa il bisogno di protezione e la vittoria delle destre. Le sinistre di allora non sono impazzite, sono state catturate da un fenomeno globale. A volte abbiamo fatto cose disdicevoli, ma è il passato. Ora dobbiamo capire come ripartire. Il Pd ha capito meglio di altre forze la nuova fase e ha cambiato posizione: ha deciso di ripartire dalle costituency fondamentali della sinistra, come il l lavoro. Oggi molti lavoratori stanno perdendo il segnale radar dei partiti, dei sindacati, della partecipazione al voto. Non possiamo permetterlo. Ma non dobbiamo cedere allo scoramento: bisogna guardare in faccia questa fase storica.

Schlein è accusata, anche dentro il partito, di avere schiacciato il Pd sulle posizioni della Cgil.

Se a queste discussioni partecipassero iscritti e militanti tutto filerebbe più liscio. La nostra gente ha capito che oggi la responsabilità nazionale del Pd non è essere il punto di garanzia del sistema, ma organizzare il campo dell’alternativa. Schlein questa cosa l’ha capita e deve andare avanti, insistere fino a far sparire l’antico riflesso che vede il Pd come forza che deve garantire la tenuta del sistema. La percezione reale del nostro mondo è molto più avanti di quella si vede nei battibecchi dentro il ceto politico.

Nel libro lei racconta l’incontro in streaming del 2013 con i capigruppo 5S Crimi e Lombardi per cui fu molto criticato. Oggi che l’alleanza col Pd appare quasi scontata come si sente? Il cambiamento dei 5 stelle deriva dal fatto che hanno trovato un avvocato che ha archiviato le follie antipolitiche di Grillo?

(Sorride) Conte ha ben interpretato il fatto che nella cultura diffusa del M5S, dopo mille curve, si è arrivati a ritenersi stabilmente nel campo progressista. Scherzando dico spesso che si definisce progressista uno che non ha il coraggio di dirsi di sinistra. Ma, come si è visto, ho pazienza. Per loro, che sono una forza recente, è indispensabile avere 2-3 temi che facciano da bandiera, che consentano di distinguersi: è stato così col reddito di cittadinanza e col salario minimo, che per primi hanno portato avanti. Ora c’è la pace. Per questo penso che occorra mettere in piedi un programma con 2-3 punti in cui loro si possano riconoscere pienamente. Mi preoccupa invece l’idea del «marciare divisi per colpire uniti: è una sciocchezza pericolosa. Il nostro elettorato non va sottovalutato ed è diverso da quello delle destre: ha bisogno di percepire una unità della coalizione su alcuni valori di fondo e se non la vede può disamorarsi. Per questo è utile che Pd, M5S e Avs dicano delle cose insieme: lo hanno fatto su Gaza, sul salario minimo, sulla separazione dei poteri. Bisogna andare avanti così.

Da qualche settimana Renzi spinge per entrare nel centrosinistra: è diventato accomodante.

Per l’alternativa non si butta via niente, ma si deve partire dal solido, e cioè da chi più coerentemente sta facendo l’opposizione: Pd, M5S e Avs. Strada facendo si possono allargare gli orizzonti, con disponibilità, discutendo anche con chi mostra dei ripensamenti.

Vale anche per Calenda?

Lui è un mistero della politica. Dice di avere le radici nel social liberalismo di Rosselli, ma quelli hanno combattuto in Spagna contro i fascisti! C’è bisogno di una coerente componente liberale, per saldare il tema sociale alla difesa delle istituzioni. In passato abbiamo avuto figure come Ciampi e Andreatta che rassicuravano il mondo produttivo, le elite con uno sguardo democratico. Uno come Calenda, in teoria, potrebbe seguire questi esempi. Ma non si decide a fare una scelta di campo.

Meloni in Parlamento ha detto che i salari crescono, l’occupazione pure e l’Italia sta reagendo meglio di altri alle crisi internazionali.

Pura propaganda. Basta farsi una domanda: da quando ci sono loro dove sono andati i soldi? Non nei consumi e nei salari, non negli investimenti e neppure nella produzione industriale in calo da 26 mesi. Sono andati alle rendite finanziarie, con un record assoluto di profitti per banche, assicurazioni e grandi società di servizi. I consumi calano perché devi pagarti la sanità e il lavoro è sottopagato. Come ha detto Draghi, ora l’Europa deve puntare di più sul mercato interno. Per risvegliare l’economia bisogna mettere i soldi nella tasche delle persone. Le ricette delle destre non sono più così apprezzate: il loro elettorato c’è ma è ammaccato. Per questo è ora di accendere il fuoco, lanciare un progetto nel paese con 4-5 proposte precise: far capire che questo dialogo tra le forze di opposizione può diventare un’alleanza vincente. Non c’ tempo da perdere.

 

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