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OpinionData la direzione che le classi dirigenti hanno preso - non solo nel nostro paese - di sancire la rottura del rapporto fra capitalismo e democrazia con rovesciamenti istituzionali che la codifichino, è decisivo difendere e ampliare la possibilità che i cittadini con un Sì o con un No producano un effettivo ed immediato cambiamento

Referendum, addio «compagno quorum»

 

Il netto insuccesso della prova referendaria su tematiche della massima importanza come il lavoro e la cittadinanza ci costringe – ed è indispensabile che ciò avvenga – a considerazioni di fondo sullo stato dell’orientamento democratico della società civile, dove è evidente l’azione corrosiva portata dalle destre. Non è sufficiente sostenere che l’avere spostato il focus dal merito dei quesiti alle sue possibili conseguenze politiche (addirittura evocando lo sfratto al governo Meloni) ha più che altro nuociuto all’esito referendario. La Cgil, per bocca del suo segretario generale, ha giustamente ribadito di essere stata estranea a questo scivolamento dell’asse tematico.

MA LA STRADA referendaria è risultata insufficiente per la rivitalizzazione dell’organizzazione fino a trasformarla in un sindacato di strada, per la quale è ineludibile l’essere sindacato nel senso più pieno della parola nelle nuove condizioni e rapporti di lavoro. Ma la sconfitta va persino al di là di questi ambiti, riguarda l’istituto stesso del referendum abrogativo, cioè dell’unica forma nella quale si esprime pienamente la democrazia diretta come previsto dalla Costituzione. Data la direzione che le classi dirigenti hanno preso – non solo nel nostro paese – di sancire la rottura del rapporto fra capitalismo e democrazia con rovesciamenti istituzionali che la codifichino, è decisivo difendere e ampliare la possibilità che i cittadini con un Sì o con un No producano un effettivo ed immediato cambiamento. È dal 2011, dai referendum vincenti sull’acqua e sul nucleare (i cui esiti sono stati a lungo boicottati e che ora le destre cercano di capovolgere) che il quorum non viene raggiunto. Entro un quadro di astensionismo crescente anche nelle consultazioni politiche: nelle ultime europee ha votato la minoranza degli aventi diritto.

IL REFERENDUM di giugno ha cozzato contro un muro di silenzio elevato in nome dell’astensione che è stata contrabbandata come un diritto al pari di quello del voto. Non lo è. Perché il secondo è un dovere civico, in particolar modo per chi ricopre cariche pubbliche (ed è anche sanzionato da leggi vigenti che si è fatto finta di non conoscere). E non si può dire che la denuncia di questi comportamenti sia stata all’altezza della loro gravità, perché anche esponenti autorevoli del centrosinistra vi avevano fatto ricorso nel passato e addirittura un capo di Stato come Giorgio Napolitano aveva concesso all’astensione l’imprimatur della legittimità.

La Consulta ci ha messo del suo, cancellando, con motivazioni che sfidano prima la logica più che il diritto, la richiesta di abrogazione totale della legge Calderoli, un traino ideale alle urne anche per gli altri quesiti referendari per la sua capacità di penetrazione anche in ambiti legati alle destre. In ogni caso la verifica di costituzionalità dei quesiti sarebbe meglio che avvenisse prima e non dopo la raccolta delle firme. La recente prova ribadisce che il principale nemico del referendum abrogativo è l’astensione. Ovvero il referendum abrogativo è costretto in una gara impari in partenza.

LO RICONOSCEVA anche un organo consultivo del Consiglio d’Europa, la Commissione di Venezia, fin dal 2006, quando scriveva che il rifugiarsi nell’astensione «non è sensato per la democrazia». Una riforma – necessariamente costituzionale trattandosi di modificare il 4° comma dell’art. 75 Cost. – dell’istituto referendario non può che prendere di mira il ricorso all’astensione. Non attraverso la cancellazione totale di ogni quorum, che indebolirebbe la sua forza di espressione della sovranità popolare; non inventandosi parziali riduzioni della soglia quorum; neppure con il cosiddetto “quorum mobile” per cui gli aventi diritto al voto coinciderebbero con i votanti nelle ultime elezioni politiche, perché stabilirebbe un nesso assai poco virtuoso fra voto sulla rappresentanza politica e quello su specifiche questioni dotate di una potenziale trasversalità, oltre a dare per strutturale l’aumento dell’astensione nelle votazioni politiche.

Ma più semplicemente ricorrendo ad una soglia di voti positivi a favore della proposta referendaria. Attualmente il voto è valido se si recano alle urne il 50% più uno degli aventi diritto, il limite al di sopra del quale la proposta è comunque vincente è dunque il 25% più uno. Il quorum sui votanti sparirebbe e resterebbe quest’ultima soglia l’unica da superare. In questo modo sarebbe suicida ricorrere alla astensione e il Sì e il No si fronteggerebbero in aperta contesa.R

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Con la scusa del quorum impossibile, tutti contro lo strumento di democrazia diretta per eccellenza. Che andrebbe incentivato, invece che torturato e vilipeso

IMAGOECONOMICA

C’è un’aria stanca che aleggia intorno alla parola “referendum”. Un tempo era sinonimo di riscatto popolare, di chiamata solenne alla coscienza collettiva. Oggi, invece, viene evocato come un rito svuotato, il cui esito – a prescindere – sembra già scritto da un silenzio assordante: l’astensione. E chi canta vittoria di fronte all’apatia di milioni di cittadini, come se il mancato quorum fosse un trionfo, non celebra la democrazia, ma la sua sconfitta. Una vittoria piuttosto amara, miope, autocelebrativa.

In un Paese dove più della metà degli aventi diritto diserta le urne, la classe dirigente dovrebbe interrogarsi, non brindare. Il referendum, lo strumento più diretto e più nobile della sovranità democratica, è stato nei fatti svuotato del suo potere trasformativo, rimosso dal dibattito pubblico, delegittimato dai vertici istituzionali, quando non silenziato da media distratti o compiacenti.

La celebrazione del disagio

Il disegno è stato accurato. Prima la delegittimazione tecnica, con l’inammissibilità di quesiti considerati “non condivisibili”. Poi la rimozione politica, con l’assenza di qualsiasi spazio di confronto. Infine, la celebrazione della sconfitta della partecipazione come se fosse una vittoria del governo. Non è stato solo un sabotaggio di uno strumento, ma di un principio: quello per cui la sovranità appartiene al popolo, anche quando non conviene.

Eppure l’istituto referendario non è un reperto museale della Prima Repubblica. È ancora, potenzialmente, la leva per correggere gli squilibri del sistema, per riequilibrare i poteri, per dar voce a istanze che non trovano ascolto nella politica rappresentativa. Ma perché possa funzionare, dev’essere credibile, accessibile, visibile. Oggi non lo è.

L’astensione come strategia

Il vero problema non è solo che la gente non vota. È che l’astensione viene favorita, normalizzata, quasi desiderata. È il sintomo di un regime che, pur democratico nella forma, non ama essere disturbato nella sostanza. Un sistema che teme il giudizio diretto dei cittadini, perché non sa come governare il conflitto se non neutralizzandolo. Chi governa con la forza della disattenzione sa che l’apatia è l’alleata perfetta. Un elettorato stanco, disilluso, cinico, è più facile da contenere di un popolo mobilitato. Ecco allora il vero nemico: non l’opposizione parlamentare, ma la partecipazione popolare. Non chi vota “no”, ma chi osa votare “sì”.

 

L’astensione strutturale non è frutto del caso. È il risultato di una sfiducia alimentata ad arte, che si nutre di ogni rinvio, di ogni bocciatura, di ogni occasione perduta. E nel frattempo, si riscrive la Costituzione a colpi di riforme sbilanciate, si concentrano i poteri, si sfilaccia il principio di eguaglianza. La “distrazione delle masse” è il vero capolavoro dell’attuale assetto politico.

Nessuno ha vinto davvero

L’illusione che la partita sia chiusa — e chiusa a favore di chi governa — è una tentazione pericolosa anche per la destra. Non solo perché i numeri dell’astensione raccontano un vuoto più che una vittoria, ma perché persino quei 13-14 milioni di voti raccolti dai promotori, pur non bastando, rappresentano una base politica e culturale reale. Non automaticamente trasferibile sul piano elettorale, certo, ma nemmeno trascurabile o neutralizzabile con leggerezza.

Anche chi oggi esulta rischia domani di sbattere contro lo stesso muro di sfiducia, se non capisce che la domanda di partecipazione, di rappresentanza e di voce dal basso è ancora viva, anche se non si manifesta nei modi attesi. Le urne non hanno decretato un vincitore assoluto, ma hanno suggerito che nessuno, oggi, può permettersi di giocare da solo. E che ignorare ciò che si muove fuori dal palazzo è il modo più sicuro per perdere davvero.

La sinistra al bivio: presenza o lamento

Ma non tutto è maceria. I milioni di voti favorevoli ai quesiti referendari sul lavoro — raccolti pancia a terra e contro il silenzio generale — sono un patrimonio reale. Non solo numerico, ma simbolico. Un termometro di partecipazione che mostra come, laddove si sono mantenuti legami con i territori, con i movimenti, con i corpi sociali, la risposta è arrivata. In alcune città e regioni, l’affluenza ha superato abbondantemente la media nazionale. Segno che una sinistra ancora viva, benché frastagliata, può parlare un linguaggio comprensibile e credibile.

Ma è necessario fare una scelta di campo. Non si può più oscillare tra l’autocompiacimento della minoranza rumorosa e la ricerca ansiosa di legittimazione al centro. La sinistra, se vuole davvero tornare a essere popolare, deve smettere di delegare la propria identità alle sintesi dei gruppi dirigenti e tornare a misurarsi con le piazze, i luoghi di lavoro, le periferie, i giovani, i nuovi italiani. Perché è lì che si vota davvero.

Quorum di carta

C’è però chi legge nel mancato quorum non una sconfitta della democrazia, ma la sua difesa. Secondo questa visione, l’astensione rappresenterebbe una forma di maturità elettorale: non solo disinteresse, ma anche discernimento, un giudizio consapevole e negativo sul merito dei quesiti proposti, oppure una critica implicita all’abuso strumentale dell’istituto referendario da parte di forze politiche in cerca di visibilità. In quest’ottica, il quorum non sarebbe un limite castrante, ma una clausola di garanzia, un presidio costituzionale a tutela dell’equilibrio tra democrazia diretta e rappresentanza parlamentare. È una lettura che ha una sua logica formale, che richiama la necessità di selezionare con rigore i contenuti referendari, evitando derive demagogiche o tentazioni plebiscitarie. Ma è una visione che, se presa come assoluta, rischia di confondere l’eccezione con la regola, la difesa del sistema con la sua cristallizzazione, la prudenza con l’immobilismo.

Perché se l’astensione diventa la modalità dominante di rapporto con le urne, se la partecipazione popolare viene svuotata nel nome della stabilità, se la sfiducia verso il voto si fa sistema, allora non si preserva nulla: né la vitalità del Parlamento, né la legittimità delle decisioni pubbliche, né il tessuto vivo della cittadinanza. Una democrazia che si abitua all’assenza dei suoi cittadini, che considera la non partecipazione come fisiologica, che derubrica il dissenso a disturbo, è una democrazia che ha smarrito il coraggio di ascoltare e la capacità di rigenerarsi. Il vero nodo non è il quorum in sé, ma ciò che esso oggi segnala: un patto civile indebolito, una distanza crescente tra chi decide e chi dovrebbe contare, una cultura politica che preferisce il controllo al conflitto, la delega alla deliberazione.

Non basta dire che il popolo ha sempre ragione quando tace. Bisogna domandarsi perché tace, chi ha interesse a mantenerlo in silenzio, e come si può restituire forza, dignità e fiducia alla sua voce. Perché una società che smette di votare non è per forza una società matura. Può essere, molto più semplicemente, una società rassegnata. E la rassegnazione, in politica, è il preludio di ogni deriva.

Il prezzo della democrazia

Tra le reazioni più insidiose al fallimento del quorum, si fa largo – neanche troppo velatamente – l’idea che l’istituto referendario andrebbe “riformato” o, nei fatti, archiviato. Troppo costoso, troppo inutile, troppo faticoso. È l’argomento contabile travestito da efficienza, che misura la democrazia col metro dei bilanci, non dei diritti. Ma è un ragionamento pericoloso, perché ci porta a pensare che la sovranità popolare sia un lusso, un esercizio da concedere solo quando conviene o quando i numeri promettono successo.

Come se la cittadinanza attiva fosse un optional, non un pilastro costituzionale. Abituarsi all’idea che si vota solo quando costa poco – e quando si è sicuri del risultato – è il primo passo verso una società in cui il voto perde valore e senso. Dove si partecipa solo se si può, se si ha tempo, se si ha un tornaconto. Ma la democrazia non si misura con l’euro: si misura con la libertà. E non c’è libertà senza la possibilità reale, concreta, effettiva di decidere. Anche, e soprattutto, quando costa.

Riprendersi il voto

Il referendum non è dunque morto. È stato volutamente messo da parte, chiuso in un cassetto, disinnescato. Ma può rinascere. A patto che lo si liberi dalle sabbie mobili dell’ipocrisia istituzionale, dell’opportunismo politico, dell’autolesionismo culturale. Serve un’operazione di verità, di riconquista, di ricostruzione del legame tra cittadini e istituzioni. Serve coraggio, serve visione, serve presenza.

Riprendersi il voto significa ridare senso alla democrazia. Non per farne una liturgia stanca, ma per rianimarla nel cuore stesso della società. L’alternativa non è tra referendum sì o referendum no. L’alternativa è tra partecipazione o rassegnazione. Tra una società che pensa, lotta e vota, e una che abdica, si distrae, e applaude chi ha già deciso per lei.

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Pistole puntate Sono i missili americani, oltre a quelli israeliani, che tengono sotto tiro la Repubblica islamica con le basi Usa in Turchia, Qatar e Bahrain

Foto Ikon Images/Ap

 

La pistola puntata contro l’Iran è israeliana ma l’impugnatura è in mano a Trump. Lui può arrivare a un accordo con l’Iran, lui può fermare Israele visto che è anche il suo maggiore fornitore di armi: sono i missili americani, oltre a quelli israeliani, che tengono sotto tiro la Repubblica islamica con le basi Usa in Turchia, Qatar e Bahrain.

Basi militari americane che con la flotta Usa in Bahrain e le truppe schierate in Qatar danno la dimensione di un conflitto che in realtà, con le sue conseguenze, potrebbe diventare più ampio: Russia e Cina sono alleati di Teheran ed è stata proprio Pechino a mediare il riavvicinamento storico tra Iran e Arabia saudita.

Una guerra all’Iran vedrebbe coinvolti più o meno direttamente i Paesi del Golfo, l’Iraq e il Libano degli Hezbollah e lo Yemen. Mentre il prezzo del petrolio sale, segnale di chiaro nervosismo sui mercati, gli Usa hanno già ridotto il personale diplomatico in Iraq e nel Golfo dove passa oltre il 40% di rifornimenti energetici mondiali.

Inoltre anche gli apparati Nato sarebbero messi in allarme, con la Gran Bretagna schierata al fianco di Israele. Non dimentichiamo che l’aviazione britannica e quella americana hanno condotto il 70% dei voli di ricognizione per individuare i bersagli a Gaza e in Libano. Quando l’Iran ha attaccato Israele, Usa e Gran Bretagna, e altri stati della regione, sono intervenuti a vari livelli per sostenere Israele.

Da tempo però l’Arabia saudita, che ha fatto stringere la mano di Trump e quella dell’ex jihadista siriano Al Jolani, chiede al presidente americano di frenare Tel Aviv. Un conflitto alle porte di casa per il Golfo rappresenta un pericolo: hanno già perso il conflitto con un altro alleato di Teheran, gli Houthi al potere in Yemen, dove Israele ha appena bombardato il porto di Hodeida. Una reazione degli Houthi contro Israele non è da escludere – è già accaduto durante le stragi di civili a Gaza – tenendo presente i rapporti stretti con l’Iran.

Tutto questo mentre si sta per avviare in Oman il sesto round dei negoziati Iran-Stati uniti, forse una delle ultime speranze per evitare che Israele bombardi i siti nucleari iraniani. Non che Trump sia particolarmente incline a usare la diplomazia con Teheran, tanto è vero che nel 2018 fu lui, al primo mandato, ad annullare l’accordo del 2015 firmato da Obama.

Quell’intesa non funzionò non perché fosse «pessima», come ripete Trump imbrogliando le carte per l’ennesima volta, ma semplicemente perché non venne attuata: gli americani non tolsero mai le sanzioni bancarie e finanziarie a Teheran come sa benissimo qualunque banchiere europeo. Non è un dettaglio da poco: gli iraniani potrebbero arrivare a un compromesso sull’arricchimento dell’uranio solo se avessero garanzie concrete di un alleggerimento vero delle sanzioni.

La questione iraniana è più globale di quel che si pensi. Le conseguenze del fallimento dell’accordo del 2015 sono state evidenti: l’Iran è stato spinto sempre di più nelle braccia di Mosca e Pechino. La Russia è il primo destinatario dell’industria dei droni iraniana, la Cina è il primo cliente del petrolio di Teheran. Non si contano poi le manovre militari congiunte iraniane con Mosca e Pechino e gli scambi di visite militari e diplomatiche. L’Iran è dentro al fronte bollente dei conflitti e degli interessi strategici che stanno a cavallo tra Medio Oriente e Asia centrale e fa parte dell’organizzazione dei Brics, un blocco economico che rappresenta oltre il 30% del Pil mondiale.

Trump si è vantato di poter mettere fine «in un giorno» al conflitto tra Russia e Ucraina e ora deve dimostrare, dopo tante boutade, di essere un leader credibile: se fa fare quel che vuole a Netanyahu, il suo più stretto alleato, come sta accadendo a Gaza con un carneficina disumana, ben pochi saranno disposti a dargli credito. Non solo Putin e Xi Jinping, ma anche gli stati del Golfo come Riyadh che lui vorrebbe convincere a entrare nel Patto di Abramo con Israele.

Ma come si fa ad accettarlo se Trump, il principale sponsor dell’accordo sin dal suo primo mandato, lascia mano libera a Netanyahu? Per gli arabi del Golfo un eventuale attacco di Israele potrebbe rivelarsi un mezzo disastro. Se è vero che per anni hanno temuto la potenza e l’influenza iraniana nella regione, ora stanno dando una dimostrazione di assoluta impotenza. Hanno lasciato che a Gaza si attuasse il genocidio dei palestinesi, hanno corso dietro alle deliranti proposte di Trump per «Gaza Riviera» e alle prospettive di deportazione senza muovere un dito. Ma soprattutto rischiano di mettere in mano la loro sopravvivenza a Israele. I sauditi sono i custodi dei luoghi sacri dell’islam e il loro prestigio come paese guida potrebbe venire seriamente intaccato.

In Medio Oriente si vive un paradosso lacerante: da un lato la strage a oltranza a Gaza, dall’altro un’aria di prosperità e ricchezza nel Golfo, sul versante opposto di un mondo arabo che però non ha mai niente da dire e subisce le decisioni israeliane e americane.

Come può reagire l’Iran a un attacco? Può provare a colpire Tel Aviv con missili balistici. Ma loro efficacia è tutta da provare. Il complesso militar-industriale israelo-americano è troppo superiore. Gli israeliani hanno già testato le difese della repubblica islamica e sono pronti a farlo di nuovo. Con l’attacco del 26 ottobre scorso Israele, in replica a quello di Teheran, avrebbe eliminato oltre l’80% delle difese aeree iraniane: Netanyahu ritiene la Repubblica islamica una minaccia esistenziale ed è sempre pronto a intervenire.

Forse l’unica reazione efficace di Teheran potrebbe essere una sorta di guerra asimmetrica muovendo le ultime pedine nella regione sopravvissute ai raid israeliani. Ma non è una prospettiva che salva il Medio Oriente da altre tragedie.

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Giornalisti Diversi quotidiani pubblicano oggi il testo di un appello al governo italiano, chiedono che si adoperi per far entrare i giornalisti internazionali nella Striscia di Gaza. Il manifesto non aderisce all’iniziativa. Spieghiamo ai lettori la nostra scelta

Un appello che non sottoscriviamo

Diversi quotidiani pubblicano oggi il testo di un appello al governo italiano, chiedono che si adoperi per far entrare i giornalisti internazionali nella Striscia di Gaza. Il manifesto non aderisce all’iniziativa, malgrado abbia partecipato alla riunione organizzata dall’Ordine dei giornalisti tra i direttori per preparare l’appello. Spieghiamo ai lettori la nostra scelta. Consideriamo l’appello tardivo – il che è un difetto ma superabile (meglio tardi che mai) – e lo consideriamo reticente, il che è un male insuperabile. In quel testo si dice che a Gaza si sta consumando un’immane tragedia, chi e come la stia causando bombardando e affamando centinaia di migliaia di persone non è scritto.

Abbiamo proposto che, come minimo, le responsabilità del governo di Israele fossero chiaramente indicate. Ci è stato risposto che la condizione per avere l’adesione di tutti i giornali era non modificare la formulazione impersonale del testo. E che ragioni di tempo non consentivano di approfondire il confronto, come pure chiedevamo. Questa fretta, che arriva dopo venti mesi di assedio ai civili, non è un argomento valido, tanto più che appelli del genere sono stati già proposti dai media internazionali a partire dal novembre 2023. Appelli rivolti a Israele per chiedere che smetta di uccidere deliberatamente i giornalisti nella Striscia – nell’appello italiano non c’è neanche questo.

ùLo consideriamo dunque un passo indietro, persino rispetto ai timidi segnali di informazione meno reticente sulle responsabilità di Israele che avevamo colto nelle ultime settimane. Naturalmente il manifesto condivide la speranza che gli inviati internazionali possano entrare presto nella striscia, in condizione di poter lavorare fuori dal controllo israeliano. Aggiungendo così i loro racconti a quelli che hanno fatto in questi mesi i giornalisti palestinesi da Gaza, ammazzati per questo a centinaia. E testimoniando, più di quanto non sia possibile già oggi, la condotta disumana e criminale del governo Netanyahu.

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Referendum Diciamoci la verità, almeno qui. L’esito dei referendum sul lavoro e sulla cittadinanza è stato un disastro, sotto ogni profilo. Il centrosinistra esce malconcio da questa prova di forza referendaria […]

Manifesti in favore del Referendum dell'8 e 9 giurgno esposti in una strada di Milano, 29 maggio 2025. ANSA/DANIEL DAL ZENNARO

Diciamoci la verità, almeno qui. L’esito dei referendum sul lavoro e sulla cittadinanza è stato un disastro, sotto ogni profilo. Il centrosinistra esce malconcio da questa prova di forza referendaria e il governo, al contrario, ulteriormente rafforzato. È un dato oggettivo e non ci sono soglie, psicologiche o politiche, che possano giustificare diverse, e diversamente fantasiose, interpretazioni.

A questo punto, ragionare sugli errori commessi è un’operazione quasi oziosa ma che, se ben condotta, può servire a rimettere la discussione sui giusti binari. Quindi, quali sono stati questi errori? Il primo è strategico. Su temi così rilevanti, come quelli del lavoro e della cittadinanza, entrambi pilastri della nostra Costituzione, non si può giocare la carta del voto anti-governativo.

L’immagine della “spallata” al governo Meloni o l’asticella del “quorum psicologico” (sic) fissata ai circa 12,5 milioni di elettori di centrodestra hanno contribuito a snaturare il significato del referendum: doveva essere un voto di rango costituzionale per la rilevanza dei temi messi al centro del dibattito pubblco ed è diventato invece un fallito avviso di sfratto anticipato del governo in carica.

Il secondo errore è stato politico. O si è certi, in partenza, della compattezza del fronte promotore dei referendum, oppure è meglio affrontare questi temi in altra sede, dove le diverse posizioni possono trovare punti di compromesso che la logica binaria del referendum non consente. Questa compattezza mancava non solo perché erano diversi gli (iniziali) promotori delle due tematiche referendarie (lavoro e cittadinanza), ma soprattutto perché erano divisi i principali partiti che hanno deciso di investire le loro risorse di mobilitazione in questa sfida elettorale: i centristi favorevoli al quesito della cittadinanza ma contrari a quelli sul lavoro; i pentastellati sostenitori dei quesiti sui temi laburisti ma agnostici (anzi, pilateschi) sul quesito della cittadinanza; e infine il PD che era la summa di tutte queste contraddizioni e al cui interno convivevano astensionisti attivi (Meloni-style), astensionisti passivi (La Russa-style) e un vasto gruppetto di convinti referendari. Date queste condizioni strutturali di partenza, era illusorio sperare in una ondata di partecipazione elettorale.

Infine, l’ultimo errore di tipo programmatico. La Babele delle posizioni esistenti dentro e fra i partiti di centrosinistra ha avuto la sua Epifania nel voto referendario. Ma il danno maggiore è il risvolto elettorale di queste divisioni programmatiche su due temi cruciali nella costruzione di qualsiasi piattaforma politica alternativa al centrodestra. L’esito complessivo dei referendum ha mostrato l’esistenza di (almeno) due gruppi sociali nell’elettorato di centrosinistra: un primo gruppo tradizionalmente socialdemocratico sensibile a riforme “protezioniste” sul mercato del lavoro e un secondo gruppo che, in tema di riforme economiche, si oppone a interventi redistributivi mentre è favorevole a politiche di apertura sui “nuovi” diritti civili e sulla cittadinanza. Questo referendum ha reso ancora più evidente quanto sia difficile, non solo nel contesto italiano, far convivere nello stesso campo, Mélenchon e Macron.

Compilata la lista (incompleta) degli errori, come se ne esce? Le opzioni sono solo due: o si resta perdenti all’angolo leccandosi le ferite, a tutto beneficio del governo in carica e sempre più “scarico” di opposizione, o si rilancia la sfida fin da subito, offrendo ai 15 milioni di elettori che si sono recati alle urne una proposta chiara fatta di pochi, importanti punti programmatici: salario minimo, investimenti in istruzione e sanità pubblica, politiche di welfare per abbattere le disparità di genere, ius scholae e costruzione di un’Europa politica che sappia diventare una “forza di pace” nel nuovo scenario internazionale. Una proposta unitaria da costruire assieme a tutte le componenti del centrosinistra e che sappia rispondere alle esigenze non solo di quei 15 milioni di persone che, meritoriamente, si recano ancora alle urne, ma anche a quei 20 milioni di elettori in letargo che aspettano proposte politiche alternative e credibili.

 

 

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Referendum La sinistra deve attrezzarsi a un conflitto che potrebbe diventare molto duro, dove le regole del gioco non più come la garanzia della correttezza del confronto democratico, ma come la posta in gioco

Cittadini al voto per il referendum a Milano foto Claudio Furlan/LaPresse Cittadini al voto per il referendum a Milano – foto Claudio Furlan/LaPresse

Una sconfitta, perché di questo si tratta, può diventare un’opportunità per fare una riflessione che vada oltre le cause immediate della disfatta. Che non fosse facile raggiungere il quorum era chiaro a tutti, tanto che negli ultimi giorni qualcuno aveva già indicato una soglia intorno al trenta per cento dei votanti come obiettivo minimale per “salvare la faccia”.

In retrospettiva forse non proprio un’idea brillante per motivare gli indecisi. Un conto è andare votare se si pensa di poter dare un contributo alla vittoria, un altro è farlo per una sconfitta onorevole. Anche perché questa motivazione partigiana era meno efficace proprio per gli elettori di destra sensibili ai temi referendari che si voleva convincere facendo leva sugli interessi e non sull’appartenenza politica.

A essere colpito più duramente dal risultato del referendum è stato senza dubbio il Partito democratico. L’attuale segreteria ha scelto di impegnarsi in una battaglia che era stata voluta dal sindacato, e che avrebbe fatto emergere ancora una volta le profonde divisioni che ci sono all’interno del partito, e questo è certamente un dato di cui bisogna tener conto in vista del futuro. La segretaria ha deciso di non affrontare questa fronda interna direttamente quando andava fatto, in occasione di precedenti contestazioni della linea ufficiale del partito, e questo ha dato l’impressione di una leadership che non ha il pieno controllo della situazione. La pattuglia dei riformisti probabilmente non pesa molto sul piano dei consensi tra i militanti, ma può contare su un ampio sostegno da parte della stampa più sensibile agli interessi padronali.

Nelle ultime settimane prima del voto tutti i principali architetti delle politiche di precarizzazione del lavoro volute dal Pd nella sua stagione neoliberale sono stati molto attivi nel difendere le misure che il referendum puntava ad abolire. L’argomento era sempre lo stesso: presentare il Jobs Act come una misura progressiva, in linea con le scelte considerate ortodosse dalla dottrina economica. Questo era un tema su cui si poteva ingaggiare un confronto serrato, facendo leva sui lavori più recenti di economisti di sinistra che hanno messo in discussione quelle ricette.

Queste risorse, tuttavia, sono rimaste poco utilizzate nella campagna, lasciando ai riformisti l’ultima parola sul terreno del dibattito pubblico. Qualcuno sostiene che sia arrivato il momento di sciogliere il nodo, magari attraverso un congresso o una conferenza programmatica, ma una mossa del genere è resa più difficile all’indomani di una sconfitta che ha indebolito la segretaria e il suo gruppo dirigente. Più che di un congresso, ci sarebbe bisogno di un lavoro capillare da fare su due fronti: quello del partito, per aggiornarne la linea programmatica rendendola più solida e coerente con la linea della segreteria, e quello dell’opinione pubblica, dove il ruolo di tecnici e intellettuali in grado di comunicare in modo efficace le idee di una sinistra egualitaria e attenta alle aspirazioni dei più deboli dovrebbe essere valorizzato al massimo.

Quando è diventata segretaria del Pd, Elly Schlein ha scelto comprensibilmente di muoversi con prudenza. Ha lavorato sul rinnovamento del gruppo dirigente e dei quadri, sottraendosi al conflitto con chi, dall’interno e dall’esterno, la trattava quasi come l’occupante abusiva di un ruolo che per diritto spetterebbe ai riformisti. Negli ultimi due anni, tuttavia, il mondo è cambiato ulteriormente, in peggio dal punto di vista di chi condivide i valori della sinistra, e questa tattica di temporeggiamento comincia a mostrare i propri limiti. La destra è sempre più aggressiva, e si è saldata con i moderati nel perseguimento di un progetto che vede nella compressione dei diritti sociali e politici un requisito per un regime economico che tiene insieme alcuni aspetti del neoliberalismo con una visione autoritaria del ruolo del governo. La crisi di Gaza è stata un test, che ha mostrato fino a che punto è possibile spingersi nel reprimere il dissenso e avvilire la partecipazione democratica. Per fare fronte al futuro la sinistra deve attrezzarsi a un conflitto che potrebbe diventare molto duro, e che vedrà le regole del gioco non più come la garanzia della correttezza del confronto democratico, ma come la posta in gioco. La sconfitta al referendum è forse l’ultimo avvertimento. Bisogna prepararsi al peggio, oppure rassegnarsi a un inesorabile declino della sinistra democratica

 

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