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ESCALATION. L’Italia invece ora invia anche armi pesanti, ma l’intenzione è cambiata radicalmente: da azione di sostegno alla difesa ucraìna all’offensiva contro Mosca e in terra russa

 

Guerra ucraìna, perché deve vincere la pace-

Ieri il capo del Pentagono Austin ha chiamato il suo corrispettivo russo Shojgu chiedendo un cessate il fuoco e la preservazione comunque dei canali di comunicazione Usa-Russia. Una novità rilevante, anche se sono ancora parole, è un gesto che rischia di spiazzare perfino gli alleati. Perché continuando ad inviare armi in Ucraina, ora anche quelle pesanti, offensive, ormai anche l’Italia e l’Europa sono in guerra.

Così nel giro di alcune settimane lo scenario generale è radicalmente cambiato: da un’azione di contenimento e di sostegno alla difesa ucraìna ad una prospettiva di un’offensiva contro la Russia e in terra russa. Con l’invio di armi pesanti, con il vertice di Ramstein, con il premier inglese che avvalora l’ipotesi di attacchi sul suolo russo e con la Svezia e la Finlandia che si apprestano ad accelerare l’entrata nella Nato (che con il suo stolido segretario zittisce Zelensky sulla Crimea) è cambiato tutto.

Lo scenario – nonostante le interpretazioni ottimistiche del discorso di

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Le relazioni della Ue con Mosca degli ultimi decenni mostrano la sproporzione tra gli inesistenti rapporti politici e la crescita esponenziale di quelli economici ed energetici

Guerra ucraìna. La Russia e noi, vita e destino

Milano 1982, la marcia della pace che per raggiungere Comiso per contestare la base missilistica - Ansa

È paradossale che per trovare parole nuove sulle prospettive di una futura convivenza in Europa siamo dovuti ricorrere a quelle pronunciate dal Presidente francese Emmanuel Macron, nel discorso tenuto il 9 Maggio scorso di fronte al Parlamento Europeo a Strasburgo in occasione della festa dell’Europa e alla conclusione della Conferenza sul futuro dell’Europa.
Il presidente francese, che rappresenta i poteri forti europei, è stato in grado di alzare lo sguardo e prospettare una visione del futuro capace di influenzare anche i tragici eventi in cui la insensata guerra di Putin ci ha precipitati e che rischia di ora in ora di ottenere i risultati opposti a quelli che egli stesso si era prefissato.

Macron, pur riaffermando la solidarietà e il sostegno all’Ucraina, ha affermato che “non siamo in guerra con la Russia” e, soprattutto, che “non dovremo mai cedere alla tentazione dell’umiliazione o allo spirito di vendetta”.
Il suo sembra il tentativo, purtroppo per il momento abbastanza isolato, di evitare all’Europa un futuro nefasto che non è neanche paragonabile a quello della guerra fredda in cui , seppure nella divisione in blocchi, esistevano dei codici di comunicazione capaci di evitare la catastrofe nucleare e in cui, nonostante tutto, almeno due generazioni possono dire di aver conosciuto il più lungo periodo di pace, al netto dei numerosi conflitti regionali e locali.
Analoghe parole, con molto più rimpianto forse dovuto all’età, le ho trovate nell’intervista che il Presidente della Corte Costituzionale, Giuliano Amato, ha rilasciato al Venerdì di Repubblica. Egli ha parlato di un senso di colpa e di un fallimento europeo e dell’occidente per non aver saputo costruire una relazione con la Russia capace di assicurare alla stessa, all’Europa ed agli Stati Uniti la possibilità di una convivenza pacifica. A questo proposito ha ricordato il tentativo di Javier Solana, primo Alto Rappresentante per la politica estera e di sicurezza europea, a metà degli anni 2000, di costruire quel partenariato tra Russia e Nato che proprio Vladimir Putin si era dichiarato disposto ad intraprendere.

Gli eventi successivi sono noti, compreso il famigerato vertice Nato di Bucarest del 2008 in cui, il Presidente G. W. Bush, nella costernazione della sua consigliera Fiona Hills, pretese che nel comunicato finale fosse resa esplicita la apertura della Nato a Ucraina e Georgia, con buona pace di chi, ancora oggi, nega che vi sia stata una tale apertura. Il riconoscimento al Presidente Macron è anche dovuto al fatto che egli appartiene ad un’altra generazione ed è uno dei pochi leader politici a riferirsi a fatti storici quali la proposta di Confederazione comprendente la Russia, che il presidente Mitterrand avanzò subito dopo la caduta del muro di Berlino e che egli ha voluto citare come ipotesi di lavoro per il futuro. Può sembrare poco ma, di fronte all’ignavia che ha caratterizzato la politica europea degli ultimi decenni, è molto.

Non sono tra coloro i quali giustificano la debolezza europea di fronte all’intraprendenza della Nato; quest’ultima è proporzionale all’opportunismo di una Ue che ha delegato ad essa l’intera politica estera europea, ben al di là del suo essere un’alleanza difensiva. Nel frattempo, ciascun Paese europeo ha curato più o meno bene i propri interessi , il più delle volte ex coloniali, come dimostrano le tragedie libiche e mediorientali.
Se si esaminano le relazioni Ue- Russia degli ultimi decenni, salta agli occhi la sproporzione tra il sistema di relazioni politiche, praticamente inesistenti, e la crescita esponenziale delle relazioni economiche e soprattutto della dipendenza energetica.

La strategia Ue-Russia presentata dall’Alto Rappresentante per la Politica Estera di Sicurezza Europea Borrell, non più tardi del maggio 2021, è risibile già dal titolo : «Respingere- Contenere- Interagire», queste le parole d’ordine che sintetizzano una politica basata su «bastone e carota» applicata ad una potenza cui abbiamo affidato le chiavi di settori economici fondamentali. Ciò è conseguenza del fatto che l’Unione europea è soprattutto un mercato e come tale è percepita e come tale ha operato, giovandosi degli scambi commerciali assicurati dalla globalizzazione economica e finanziaria e delegando agli Stati Uniti e alla Nato le responsabilità della politica estera e di difesa.

Il risveglio è traumatico e non è affatto detto che questa Unione sia in grado di trarne tutte le conseguenze a cominciare da come si appresta ad affrontare la Politica Estera e di Sicurezza Comune che non può esistere senza una Costituzione Europea ed un assetto istituzionale federale ed autonomo.
Infine, a chi continua a dire, come se fosse oggi, che lo stesso Enrico Berlinguer, nel lontano 1976 avesse dichiarato di sentirsi più sicuro nella Nato che nel Patto di Varsavia, bisognerebbe ricordare che nel 1973, lui stesso pare fosse scampato ad un attentato a Sofia, e che nel 1976 c’era ancora il Patto di Varsavia e l’Urss con tutti i cascami dello stalinismo, che Breznev già nel 1968 si era reso responsabile dell’invasione della Cecoslovacchia, condannata dal Pci – ma Praga restava «sola» come denunciò nascendo Il Manifesto – , e che, nel 1981, lo stesso Berlinguer dichiarò la “fine della spinta propulsiva della Rivoluzione di Ottobre”. Qualunque comunista, che non fosse dogmaticamente o nostalgicamente devoto all’Unione Sovietica (e Berlinguer non lo era), avrebbe preferito vivere nel campo occidentale. Il che non significava, nemmeno per Berlinguer, una acquiescenza alla Nato, come dimostrano le lotte dei comunisti italiani nel 1982 contro i missili a Comiso – era già l’allargamento militare degli Usa e della Nato.

Ci si dimentica che nel frattempo, vi è stato Gorbaciov, e grazie a lui è caduto il muro di Berlino, si è unificata la Germania, è cambiata la geografia politica dell’Europa senza alcuno spargimento di sangue. È da quel momento che l’esistenza della Nato non si è più giustificata se non come strumento della potenza unipolare statunitense. Oggi siamo in un altro mondo e, purtroppo, non è detto che sia migliore.
Non è dato sapere come Enrico Berlinguer avrebbe giudicato questa situazione; ciò che disturba è che proprio a 100 anni dalla sua nascita, che ricorre il 25 maggio, se ne debba fare un uso arbitrario e propagandistico.

 

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TEATRO DI GUERRA. Il premier italiano - che riferirà in Parlamento il 19 maggio per un question time (senza repliche) - vuole figurare come il miglior alleato possibile di Biden e allo stesso tempo tenere a bada una maggioranza di governo dove in molti sono contrari all’invio di altre armi

Draghi al bivio e l’escalation di guerra

 

Il premier Draghi e il presidente Usa Biden - Ap

Con un totale di 40 miliardi di dollari di aiuti militari varati dal Congresso americano con l’Ukraine Democracy Defense Lend-Lease Act (una sorta di prestito) Kiev dovrà difendersi da Mosca e contrattaccare, diventando una sorta di Sparta d’Europa. Questa è la sostanza dei piani americani. Se poi vogliamo credere alle parole di Draghi nell’incontro con Biden a Washington e di Macron rimane anche lo spazio per tentare un negoziato ma sono, appunto, parole quelle pronunciate dal presidente del Consiglio italiano e dal leader francese. Macron ancora più di Draghi si è spinto avanti: «Non bisogna umiliare la Russia», ha detto.

Cosa significa? Che la guerra, dopo la svolta di Ramstein, ha preso una china pericolosa per Putin ma anche per la pace in Europa. E il capo

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È possibile che da questo dramma, possa nascere in Italia, intorno al «NO alla guerra e all’economia di guerra», una forza che saldi insieme Costituzione, pace e cultura e ambientalista?

A sinistra la proposta che non c’è

 

Innocente, "Giotto", 1997

Fino a gennaio avrei detto, pensando alla politica nazionale e alle elezioni alle porte, che si potesse soltanto continuare a lavorare sui territori, in movimenti ed esperienze locali anche elettorali, in pratiche di mutualismo e in laboratori e progetti culturali. Ritenevo assolutamente impraticabile l’entrata nella galassia del Pd e pensavo necessario attrezzarsi per un medio periodo ad un destino come la sinistra americana che per anni ha creato la sua comunità ritenendo inagibile lo spazio della rappresentanza. I nostri mondi sono stanchi di liste elettorali last minute e troppe sono state le delusioni e le ferite di questo ultimo decennio, oltre all’ingombro permanente di quel che resta della sinistra politica. Ero giunto quindi al convincimento della necessità di saltare la prossima scadenza delle elezioni politiche come dato di realtà.

Anche perché la stagione della pandemia, iniziata con la speranza e la convinzione di uscirne Meglio, si sta concludendo in maniera disastrosa con il governo dei Migliori e la guerra. Un esito impietoso, che ha mostrato la debolezza dei movimenti e delle esperienze presenti ovunque in Italia e la conseguente incapacità di incidere sulle scelte quando lo scontro sale di livello.
In questi due primi mesi di guerra il mio realismo si è incrinato e con esso le mie certezze. La guerra e la sua cultura sta ridisegnando tutto. Vediamo il direttore dell’Avvenire indicato come «putiniano», assistiamo al giornaliero assalto all’Anpi e alla costante derisione di chi chiede pace, parola vilipesa ormai spacciata per debolezza o resa.

Siamo entrati in una economia di guerra, in cui tutte le azioni necessarie (riconversione ecologica, abbandono dell’economia fossile, diritti al e nel lavoro, diritti per tutt*, servizi pubblici e stato sociale) sono abbandonate, classificate come “lussi” per i momenti facili. Si approva l’aumento delle spese militari in tre giorni e la prima conseguenza della guerra è il ritorno all’economia fossile. Si sta disegnando una Europa terribile, che coincide con la Nato e che si forgia nella guerra. Un vero e proprio spartiacque per la storia europea, che sotterra la nostra Costituzione.
Di tutto questo in Italia il Pd di Letta è il capofila ed il fulcro di un’azione d’attacco non solo alla galassia della cosiddetta sinistra radicale ma anche del cattolicesimo democratico. È una rottura storica che ha una ragione di cui dobbiamo tenere conto: l’unico leader mondiale per la diplomazia e la pace è il papa.

Ma lo spartiacque della guerra ricolloca non solo il mondo cattolico e il cattolicesimo democratico, che si trova di fatto privo di rappresentanza in Italia, ma anche la sinistra. Mischia le carte, rompe vecchie geografie, crea nuove convergenze (questo attacco continuo a chi non sostiene la guerra sta creando un NOI largo). Lo scontro tra chi vuole proseguire la guerra per eliminare Putin e chi invece vuole una iniziativa di pace aprirà nuovi spazi già in questi mesi. E sempre più vasta è la paura rispetto allo slogan «Vincere la guerra» e più forte la domanda: dove ci state portando?
Appare quindi lecito chiedersi se non sia il caso di fare una verifica prima di abbandonare il campo della scena politica a Letta, Draghi, Salvini, Meloni.

Sarebbe possibile pensare che da questo dramma, che durerà, possa nascere in Italia, intorno al NO alla guerra e al NO all’economia di guerra, una forza completamente nuova che saldi insieme la Costituzione, la cultura di pace e ambientalista di questo papa, la salvezza del Pianeta e i valori di giustizia nostri, della sinistra? E che sfidi i signori della guerra alle prossime elezioni?
Una proposta all’altezza dello sconquasso della Guerra, del tutto nuova, non per occupare uno spazio, ma la costruzione di una presenza nuova, che ci è imposta dalla realtà. Bisogna vedere se esistono le condizioni politiche e le motivazioni soggettive per un nuovo «folle» impegno e fare una cosa larga e grande, perché queste riflessioni non possono essere frutto di minoranze. Ed è possibile che non si possa fare, perché la nostra sconfitta è così grande da levarci anche l’agibilità minima o perché il tutto il campo di azione è occupato dal bellicismo rappresentativo.

Stavolta sarebbe semplice dire chi siamo. Siamo quelli per la pace e il ripudio della guerra, per la diplomazia, che vogliono la riconversione ecologica, i diritti di chi lavora, i diritti per tutt*. Non stiamo con gli altri perché loro propongono il contrario. Siete di sinistra? Sì. Sulla guerra siete d’accordo con il papa? Sì. Ma anche con Greta Thunberg? Sì.
Penso che valga la pena di pensarci e magari lavorarci. Cosa ne dite?

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OPINIONI. Stoltenberg zittisce la proposta di Zelenski: «I membri della Nato non accetteranno l’illegale annessione della Crimea. L’Ucraina deve vincere questa guerra...»

Lo annuncia la Nato: «Siamo in guerra», e nessuno in Italia ce lo ha detto

Jen Stoltenberg e Antony Blinken al summit Nato - Ap

Quelli che abbiamo passato sono stati tre giorni nei quali si è impennata la curva dell’escalation bellica, che comincia tuttavia a produrre qualche crepa nel fronte guerriero. Succede perché le parole del segretario generale della Nato che ha annunciato l’entrata in guerra contro la Russia hanno cominciato a suscitare un po’ di paura e anche qualche irritazione nei confronti del grande alleato americano che comanda l’Alleanza atlantica: la guerra, infatti, si farà in Europa, non dall’altra parte dell’oceano, dove si continua a pensare che siccome la fanno gli altri per procura o da remoto, può essere invoca ta a cuor leggero.

E tuttavia, nonostante qualche inizio di riflessione autocritica, i governi europei, e chi gli Stati uniti li sostiene con fervore, marciano ancora verso la catastrofe agli ordini di Biden. Sebbene Stoltenberg non potesse esser stato più chiaro, come riporta con esattezza il quotidiano tedesco Die Welt, fra i pochi che hanno riferito senza tentare di sminuirne il significato, nel suo discorso ha detto: «I membri della Nato non accetteranno l’illegale annessione della Crimea.

L’Ucraina deve vincere questa guerra perché difende il suo paese». E questo immediatamente dopo che Zelenski, per la prima volta, aveva accennato ad un possibile negoziato, accettando che

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Per il segretario generale della Flai Cgil "Non possiamo rimanere indifferenti davanti al dramma del conflitto in Ucraina e alla perdita di vite umane provocata da una guerra nel cuore dell'Europa. Una tragedia che ci riguarda tutti, che può allargarsi e che ha anche altre conseguenze: dall'aumento dei prezzi dei beni di prima necessità, come quelli alimentari, a nuove possibili ondate migratorie e a un sostanziale indebolimento dell'economia europea"

"Al terzo mese di scontri, con un numero crescente di vittime, la guerra in Ucraina ci pone a un passo dalla catastrofe. Putin ha commesso un atto grave e ingiustificabile invadendo un Paese sovrano, e ora la sua decisione sta provocando sofferenze immani al popolo ucraino e, anche, allo stesso popolo russo a causa delle ricadute di un'economia di guerra che non risparmia i più poveri. Davanti a questo dramma non possiamo restare indifferenti". Giovanni Mininni, segretario generale della Flai Cgil, è preoccupato: "La guerra - ricorda - è il fallimento della politica, la negazione dell'umanità, e noi respiriamo ormai tutti un clima 'da elmetto', come dimostra la prima reazione della maggior parte dei governi europei, compreso quello italiano: accantonare nuovamente l'idea di un esercito comune e andare, invece, verso il riarmo dei propri eserciti nazionali. Investimenti che non faranno altro che rafforzare la logica dei blocchi contrapposti, delle aree d'influenza, e che, oltre tutto, verranno fatti a discapito delle spese sociali, e, nel nostro caso, molto probabilmente aumentando il debito che sarà poi pagato dai lavoratori".

Quale ruolo dovrebbe avere l'Europa?
Beh, intanto dobbiamo ammettere, purtroppo, che questa non è l'Europa libera e unita che si era pensato di costruire dopo la Seconda guerra mondiale. Non è l'Unione che avevamo sognato e della quale, invece, siamo costretti a registrare, ancora una volta, il fallimento politico perché incapace di giocare un ruolo di mediazione per la pace che le sarebbe proprio. L’Europa non è riuscita a evitare il massacro di migliaia di civili innocenti e ha rinunciato a quell'autonomia e autorevolezza nelle trattative che avrebbero potuto scongiurare l’escalation e la guerra, si vedano i trattati di Minsk costantemente violati nel silenzio della Ue.

Ricapitolando: no al riarmo e all'invio delle armi, sì invece all'apertura di spazi di trattative e alla solidarietà nei confronti della popolazione colpita dalla guerra. Tra l'altro, la Cgil ha messo in campo iniziative e raccolte fondi proprio per quest'ultimo scopo. 
Certo, perché è giusto inviare aiuti umanitari ma è necessario chiedere, come la Cgil ha fatto subito, il cessate il fuoco immediato e sostenere l’apertura di tutti quegli spazi di dialogo che possano fermare il conflitto. Inviare le armi e riarmarsi non solo alimenta lo scontro, condannando probabilmente l’Ucraina a essere rasa al suolo, ma preclude l’apertura di una vera trattativa che, di sicuro, non sarà avviata né da Putin né da Zelensky. Perché il negoziato ci sia, occorre che, in maniera autorevole e forte, la comunità internazionale e, appunto, l'Unione Europea li obblighino a confrontarsi. In che modo farlo? Senza ridurci a tifoserie, ma cercando di capire cosa realmente si sta muovendo sullo scacchiere internazionale e quali sono i motivi dietro il conflitto.

Capire non è giustificare ma, in un clima di propaganda, comprendere la differenza è sempre più difficile?
Purtroppo. Ma se non capiamo, se non sappiamo e parteggiamo soltanto sarà difficile trovare una soluzione. Dobbiamo evitare di assumere la propaganda – da qualunque parte essa arrivi – come fosse oro colato. Per tornare alla questione dell’invio delle armi, sarà difficile dirimere il conflitto e accreditarsi come facilitatori di un processo di pace mentre mandiamo droni, carri armati e lancia missili all’Ucraina. Altrimenti si dovrà ammettere che anziché la pace stiamo, in effetti, sostenendo la guerra.

Intanto la guerra abbiamo già iniziato a pagarla: i suoi effetti si fanno sentire anche sull’aumento dei prezzi di materie di prima necessità, come i beni alimentari. Pura speculazione?
Attualmente, in Italia, l’innalzamento dei prezzi delle materie prime, in particolare di grano tenero e mais, non è dovuto alla scarsità dei prodotti ma alle operazioni dei grandi compratori che se ne stanno accaparrando enormi quantitativi. Questo sta provocando un aumento dei prezzi dei generi alimentari ma potrà trasformarsi in un possibile contraccolpo sull'occupazione se si considerano anche i prezzi dell'energia ormai alle stelle. Grave sarà, poi, la ricaduta nei Paesi in via di sviluppo dove non esistono grosse riserve e dove maggiore è la dipendenza dai mercati russo e ucraino. Le cifre le ha rese note la Fao: Russia e Ucraina rappresentano il 30% del mercato mondiale di grano, il 55% di quello dell’olio di semi di girasole, il 20% di quello del mais - che è cibo per l’allevamento - e il 32% del mercato mondiale dell’orzo. Se inseriamo in questo scenario anche la Bielorussia va aggiunta la produzione dei fertilizzanti. In Paesi come la Tunisia o l’Egitto le quote di mercato coperte dai prodotti provenienti dalle aree del conflitto è molto maggiore rispetto all’Italia. Si tratta di Paesi dove già in passato ci sono state rivolte per il pane. Pensiamo al 2008 quando, dopo una serie di speculazioni internazionali, i cittadini esasperati scesero in piazza, si contarono migliaia di morti e nacque il movimento delle primavere arabe”.

In assenza di una trattativa che apra un percorso di pace, la situazione rischia di peggiorare rapidamente. C’è il rischio concreto di trovarsi davanti a un effetto domino con una guerra che potrebbe allargarsi e altri conflitti che potrebbero poi esplodere in altre aree del mondo?
Esattamente, perché in alcuni Paesi il pericolo della carestia è tutt’altro che remoto. Pensiamo a quanto è accaduto in questi anni nello Yemen. Inoltre, se lo scenario fosse questo, assisteremmo anche a una nuova ondata migratoria dai Paesi più poveri a quelli più ricchi. Facile che ci ritroveremo ancora una volta a fare i conti con i Salvini di turno che vorranno chiudere l’Europa e i porti.

Eppure, quello che è avvenuto in queste settimane con i profughi ucraini ci ha dimostrato che accogliere è possibile. Basta volerlo?
Sì, questione delicata. Nei profughi ucraini siamo riusciti giustamente a riconoscere subito persone vittime di una guerra e non abbiamo avuto difficoltà ad accoglierli. Con altri, emigrati da terre più lontane, e magari con un colore della pelle diverso mostriamo un atteggiamento differente. Perché? E come tratteremo quei migranti che raggiungeranno l’Europa e l’Italia a seguito di conflitti e carestie che saranno l’effetto lungo di questa guerra?

Forse non è ancora troppo tardi. Cosa dovrebbe fare l'Unione europea adesso?
Per prima cosa non dovrebbe accettare supinamente la strategia imposta dagli Stati Uniti e dalla Nato, dovrebbe evitare di mettersi sulla scia di leader politici come Boris Johnson che ha consapevolmente scelto di portare il proprio Paese fuori dall'Unione e che non sogna neppure lontanamente di fare gli interessi dell'Europa. Al contrario, i leader politici europei dovrebbero avere il coraggio di smarcarsi e, penso che, in qualche modo, anche il capitalismo europeo dovrebbe far sentire la propria voce perché è chiaro, ad esempio, che gli interessi degli Stati Uniti e dell'Europa sono sempre più antitetici sul piano dello sviluppo economico e che le sanzioni, così come sono state concepite, penalizzeranno fortemente soprattutto l'economia europea, indebolendola ulteriormente rispetto a quella statunitense e dando così corpo alle previsioni di una recessione che nei prossimi anni si abbatterà pesantemente sul mondo del lavoro che rappresentiamo.

Una delle prime richieste avanzate dall'Ucraina quando è esplosa la guerra è stato accelerare le procedure per entrare nell'Unione Europea. Attualmente la candidatura è stata formalizzata e accolta con favore dal Parlamento di Strasburgo. È una buona idea?
Lo sarà solo se e quando l'Ucraina rispetterà gli standard richiesti dai trattati europei per entrare a far parte dell'Unione. Parliamo di una nazione con alti livelli di corruzione, enormi diseguaglianze sociali ed economiche, una distanza culturale marcata dall'Unione europea rispetto ai temi dei diritti civili, basti pensare alla comunità Lgbtq+i, e politici, con il divieto di formazione di forze socialiste e comuniste.

Per non parlare della presenza di forze che, invece, si richiamano direttamente alla simbologia e alla ideologia neofascista.
Infatti, su questo c’è una colpevole disinformazione. Va ricordato che negli anni scorsi i rapporti dell’Osce segnalavano una forte presenza nazifascista e gli organismi internazionali la denunciavano da prima del 2014. Oltre a partiti di estrema destra rappresentati nelle istituzioni nazionali e al battaglione Azov, a tutti gli effetti componente dell’esercito ucraino, ci sono organizzazioni come Pravyj Sector o Natsionalnyi korpus. Anche in un contesto come quello che stiamo vivendo, non possiamo dimenticare tutto questo e non dobbiamo commettere l’errore di trasporre l’esperienza della democrazia italiana su quella ucraina. In Italia non avremmo mai tollerato l’esistenza di un battaglione militare che utilizzasse simboli delle SS o le rune del nazionalsocialismo. Così come, di fronte a qualsiasi spinta autonomista, sarebbero state inconcepibili azioni di guerra come quelle compiute in Donbass o come la strage di Odessa: era il 2 maggio 2014 e milizie neonaziste e militanti di estrema destra e nazionalisti ucraini diedero fuoco alla Casa dei sindacati di sinistra provocando la morte di decine di persone chiuse nel palazzo. E, pure in quel caso, l'Europa perse l'occasione di giocare il suo ruolo.

Ora, davvero, non c'è più tempo.
Esattamente. Occorre abbassare immediatamente i toni e lasciare spazio alla democrazia. Serve più Europa adesso: più Europa per la pace, un'Europa autonoma, coraggiosa, libera. Questa è la strada per il futuro.

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