EFFETTI COLLATERALI. La guerra in Ucraina deve finire anche per scongiurare l’ineluttabilità della catastrofe ambientale e quella sociale che ne deriva. Nei negoziati un ruolo alla decarbonizzazione
Gasdotto russo - Ap
La guerra in Ucraina sta facendo precipitare il mondo, tutto, in un futuro da brividi. Un futuro in cui il grosso degli investimenti, pubblici e privati converge sulle industrie del fossile e degli armamenti. Finanziamenti, cioè, volti alla distruzione, immediata e differita.
GIÀ, PERCHÉ CI SONO SEGNALI sempre più forti della volontà di spostare gli sforzi dalla decarbonizzazione dell’economia alla sostituzione del gas e del petrolio russo con quello proveniente da altri paesi. Si è scelta questa strada giustificandola con la necessità di far presto, di uscire al più presto dalla dipendenza dalla Russia. Che è un obiettivo sacrosanto. Meno sacrosante sono le conseguenze di questo approccio.
TUTTI I PAESI COINVOLTI, quelli che devono liberarsi del gas e del petrolio proveniente dalla Russia e quelli che devono fornirlo in sostituzione dovranno fare degli investimenti: i produttori per aumentare la loro capacità produttiva e di trasporto e gli utilizzatori per riorganizzare le infrastrutture di approvvigionamento. E gli investimenti devono avere un ritorno economico, il che implica che gli impianti devono funzionare per un certo tempo, che può essere di decenni, e quindi per decenni dovranno continuare a produrre e distribuire fonti fossili, ostacolando, o rendendo impossibile il raggiungimento dell’obiettivo emissioni zero nel 2050. Speriamo che il nostro governo abbia ben chiaro tutto ciò, e agisca di conseguenza, non lasciandosi trascinare dall’euforia di Eni e Snam, pronta, quest’ultima, a comprare due rigassificatori e a costruire un nuovo gasdotto sottomarino per collegare Spagna e Italia, come dichiarato dal suo Ad.
LA PREOCCUPAZIONE che la corsa alla eliminazione della dipendenza dal gas e dal petrolio russo possa portare al rallentamento del processo di decarbonizzazione è confermata da un passaggio del nuovo pacchetto RePowerUE che, oltre a prevedere una forte spinta all’efficienza energetica e alle fonti rinnovabili (e questa è una buona notizia), apre alla possibilità di finanziare con fondi Next Generation Eu (leggi Pnrr, per l’Italia) rigassificatori e infrastrutture per il gas e il petrolio.
UN ALTRO RISCHIO È CHE, per garantire il ritorno economico dei nuovi investimenti e lasciare il gas nel sistema energetico, si ricorra alla cattura e stoccaggio sotterraneo della CO2 prodotta, cosa che va assolutamente evitata. Ma gli effetti della guerra sul futuro del pianeta non si fermano qui. Bisogna pure considerare che qualsiasi prodotto contiene le cosiddette emissioni incorporate, cioè le emissioni di gas serra causate dalla sua produzione. Quindi ogni proiettile, granata, bomba, missile, mina si porta appresso le sue emissioni incorporate.
Più se ne usano più se ne causano, più dura la guerra e più gas serra si emettono. Lo stesso vale per ciò che viene distrutto: carri armati, aerei, veicoli da una parte, e case, ponti, strade, ferrovie, dall’altra. Tutti hanno le loro emissioni incorporate. Quindi, per farli, si emettono gas serra, e altri gas serra si emettono per rifarli, dopo la distruzione. E poi ci sono le emissioni dovute al carburante usato per fare funzionare gli armamenti, e quelle che derivano dall’alloggiare, spostare gli eserciti, e dar loro da mangiare.
ECCO CHE L’INDUSTRIA degli armamenti si rivela doppiamente inaccettabile: per il fine diretto che ha, uccidere, e per il contributo a rendere il nostro pianeta invivibile a causa della produzione di gas serra e della estrazione di risorse naturali. Uccide gli uomini e il pianeta di cui questi uomini fanno parte. Naturalmente è in buona compagnia, in questo lavoro. C’è l’industria del fossile, che sta pure enormemente ingrassando grazie alla guerra, allontanando lo spettro che più l’atterrisce: la decarbonizzazione, che segnerebbe la sua morte.
L’INDUSTRIA DEL FOSSILE, lo si dimentica troppo spesso, uccide pure oggi, anche se indirettamente, attraverso l’inquinamento dell’aria e la mortalità indotta. Secondo l’Oms, nel 2016 ci sono stati più di quattro milioni di morti causati dall’inquinamento dell’aria, in gran parte causato dalla combustione di combustibili fossili. E sono morti che si ripetono ogni anno. Molti di più di quanto non ne causi una guerra. E uccide non solo chi vive oggi, ma prepara il terreno per la morte di quelli che sono bambini oggi e di quelli che non sono ancora nati, essendo causa di quel riscaldamento globale che renderà il pianeta invivibile, specie per i più poveri.
Dunque, la guerra in Ucraina sta causando un forte rallentamento globale della lotta al cambiamento climatico, per varie ragioni, e si rivela non solo responsabile delle morti, delle distruzioni e delle migrazioni di oggi, ma anche corresponsabile delle morti, delle distruzioni e delle migrazioni che avverranno nei prossimi decenni in tutto il mondo, causate dalle catastrofi metereologiche e dalla riduzione della produzione alimentare. È forse la prima guerra che una generazione fa all’altra.
ANCHE PER QUESTO la guerra in Ucraina deve finire, per scongiurare l’ineluttabilità della catastrofe ambientale e quella sociale che ne deriva. E questo andrebbe messo in campo come elemento di negoziazione, un elemento in più per fare di tutto per arrivare alla pace.
Commenta (0 Commenti)NUOVI EQUILIBRI GLOBALI. Con il prezzo del grano tenero che sta salendo vertiginosamente, a causa della guerra in Ucraina, l’export di questo cereale sta diventando un’arma politica che serve per stringere alleanze, per far schierare da una parte, la Nato, o dall’altra, questi paesi importatori netti che ne hanno un bisogno vitale.
Campo di grano in Ucraina - Ap
Di pochi giorni fa la notizia che il governo indiano bloccava l’export di grano, poi ridimensionata accettando di far passare l’export già passato, al 14 maggio, alle procedure doganali. Malgrado l’India non sia tra i primi dieci paesi esportatori di grano, è il secondo produttore al mondo di frumento dopo la Cina, che soddisfa essenzialmente il mercato interno.
Con questa mossa il governo del presidente Modi avrebbe voluto assicurarsi che il grano prodotto nel subcontinente indiano restasse all’interno del paese, evitando che l’alto prezzo del cereale favorisse l’export a danno della popolazione più povera. Misura eminentemente politica perché le “guerre per il pane” stanno per ritornare all’ordine del giorno.
I primi paesi importatori al mondo, sono anche paesi, sovrappopolati, con una parte rilevante dei cittadini sotto la soglia della povertà o bordenline. E sono nell’ordine: Egitto (che importa mediamente 12 milioni di tn annue), Indonesia, Algeria, Turchia, Brasile. I primi quattro paesi sono nel Mediterraneo, a cui va aggiunta anche la Tunisia non in termini quantitativi ma relativi, dove anche in tempi recenti sono scoppiate le rivolte per il pane e complessivamente importano ogni anno qualcosa come 37-38 milioni di tn. di grano tenero.
Per inciso, il grano duro, che viene usato per la pasta, rappresenta solo il 5% del mercato mondiale del frumento e viene prodotto in pochi paesi, soprattutto nel Mediterraneo e in Canada, con l’Italia come primo produttore al mondo, ed anche primo importatore data la sua specializzazione nel settore.
Con il prezzo del grano tenero che sta salendo vertiginosamente, a causa della guerra in Ucraina, l’export di questo cereale sta diventando un’arma politica che serve per stringere alleanze, per far schierare da una parte, la Nato, o dall’altra, questi paesi importatori netti che ne hanno un bisogno vitale. Stesso discorso, in parte, vale per il mais, usato prevalentemente per gli allevamenti zootecnici. In questo caso l’Ucraina ha un peso rilevante, rappresentando il 15 % dell’export mondiale, e la Ue è uno dei principali importatori di mais, soprattutto per la domanda proveniente dagli allevamenti industriali, disallineati rispetto alle risorse agricole del territorio in cui operano.
Stiamo tornando, senza accorgercene, ai tempi delle città-Stato in Grecia, in cui Solone proibì l’export dei beni alimentari, ad eccezione dell’olio d’oliva, ritenendoli come una riserva strategica in caso di guerra. E la Ue che fa in questo nuovo scenario? E’ il principale esportatore di grano al mondo, con circa 33 milioni di tn, ma è anche un importatore per circa 7 milioni di tn. Dato che è un esportatore netto potrebbe battersi per porre un tetto al prezzo del grano e sostenere, anche con un contributo proprio, il prezzo all’esportazione per i paesi del Mediterraneo più minacciati da questa nuova situazione. La pace si conquista prima che scoppi un conflitto o che un paese precipiti nel baratro di una guerra civile.
È arrivato il tempo in cui la Ue potrebbe pensare seriamente ad un Mercato Comune Mediterraneo con una strategia di integrazione delle economie della sponda Nord e Sud-est, partendo dall’energia e dai beni alimentari, e varando una intelligente politica di accoglienza e gestione dei flussi migratori. Dobbiamo prendere atto che questa guerra, ancor più della pandemia, ha dato un colpo pesante alla globalizzazione capitalistica, alla creazione di un mercato unico mondiale.
La lotta fra gli imperi, richiamata da chi scrive prima che scoppiasse la guerra in Ucraina, sta ridisegnando le mappe dei diversi mercati “interni” in cui il “prezzo politico” diventa prevalente rispetto a quello economico. Ma, questo processo di de-globalizzazione è anche una occasione storica per ripensare alle politiche economiche in campo energetico e agro-alimentare. In particolare, è arrivato il momento di rivedere radicalmente la P.A.C. (Politica Agricola Comunitaria) che ha privilegiato grandi aziende ad alto consumo energetico e impatto ambientale a favore di una agricoltura contadina, l’unica in grado di proteggere la biodiversità e l’autosufficienza di un territorio.
Commenta (0 Commenti)Il destino dei curdi – e non solo il loro – si gioca al gran bazar delle armi, iniziato in queste ore tra Usa e Turchia per aggirare il veto di Erdogan all’ingresso nella Nato di Svezia e Finlandia che simpatizzano per il Pkk, da Ankara considerato organizzazione terroristica come l’Ypg, le brigate curde siriane di Kobane e del Rojava che nel 2014 condussero eroicamente la lotta al Califfato al posto nostro, un po’ come gli ucraini la stanno facendo oggi con la Russia occupante.
Ma tutto sembra dimenticato, come ci siamo scordati i 15mila morti curdi e le promesse mancate dell’Occidente di protezione dalla repressione turca: nell’autunno 2019 Trump ritirò le truppe dal confine siriano lasciando a Erdogan mano libera per il massacro. La forza di interposizione che sostituì allora gli americani era russa. Sono bastati 70 giorni per diventare tutti ucraini ma non 70 anni per diventare tutti curdi o palestinesi. L’amara battuta circola in Medio Oriente dove Turchia e Israele hanno sempre carta bianca.
La Turchia, membro Nato dal 1952, è di nuovo in guerra contro i curdi, con numerose vittime tra i civili, ma l’Alleanza atlantica fa finta di non saperlo. Il 17 aprile Ankara ha lanciato una nuova campagna militare nel Kurdistan iracheno e nel Rojava siriano. “Dobbiamo sradicare il Pkk”, è la motivazione di Erdogan che con questo slogan raccoglie consensi in patria oltre il suo partito. In realtà gli aerei e i droni curdi – gli stessi in azione in Ucraina contro i russi – colpiscono oltre ai curdi, civili compresi, anche la maggioranza yezida di Sinjar, che fu sottoposta ad atroci massacri e stupri dai jihadisti dell’Isis. È stata attaccata pure Kobane, roccaforte anti-califfato dove entrai nell’ottobre 2014, allora occupata per il 70% dai jihadisti appoggiati da Ankara, che in Erdogan hanno oggi a Idlib il loro referente principale.
Ma non erano questi curdi i combattenti che avevamo celebrato come “i nostri eroi”? Evidentemente non lo sono più. Anzi, noi a Erdogan diamo un solido aiuto bellico. Al punto che i raid turchi avvengono anche attraverso gli elicotteri italiani Mangusta (gli AgustaWestland AW129) prodotti in Turchia su licenza dell’italiana Leonardo.
Di tutto questo naturalmente il premier Draghi (che ieri ha ricevuto la leader finlandese Sanna Marin) non intende parlare come non parla che in maniera generica dell’invio di armi in Ucraina, su cui riferisce oggi in Parlamento davanti a deputati e senatori costretti a fare solo da spettatori al suo intervento.
Ma a Erdogan non basta un silenzio complice: per spazzare via i curdi, vuole altre armi. Il sultano – che ricatta l’Europa con i profughi e ha visto esplodere l’inflazione al 70% con la lira turca ai minimi su dollaro ed euro – sta alzando il prezzo del veto al nuovo allargamento della Nato. Ankara, oltre alla fine dell’appoggio ai curdi e dell’ospitalità a presunti membri del Pkk, chiede che venga tolto l’embargo alla vendita di armi deciso da Svezia e Finlandia dopo gli attacchi di Ankara contro i curdi siriani. A questo si aggiunge che la Svezia ha accolto esponenti dell’organizzazione di Fethullah Gulen (in esilio in Usa), considerato da Erdogan responsabile – insieme agli stessi americani – del golpe fallito del 14 luglio 2016.
Per rafforzare le sue pretese e armarsi ancora meglio il sultano turco ha appena spedito negli Stati uniti il suo grand vizir, il ministro degli Esteri Mevlut Cavusoglu, per discutere con il segretario di Stato Toni Blinken gli accordi previsti nel “Turkey-US Strategic Mechanism”, il formato diplomatico bilaterale stabilito nel 2021 da Biden ed Erdogan. I rapporti tra i due Paesi ondeggiano ma il punto più basso è stato toccato quando gli Usa hanno escluso la Turchia dal progetto del nuovo e costoso caccia F-35 come ritorsione all’acquisto da parte di Ankara del sistema anti-missile russo S-400.
In compenso adesso gli Usa sono in trattativa con Ankara per vendere 40 caccia F-16 e i kit di ammodernamento per la flotta turca che pattuglia il Mar Nero, il Mediterraneo orientale e il Nordafrica (attraverso la Libia), teatro contrastato dell’espansione della “Patria Blu” turca per spartirsi zone di influenza e giacimenti di gas offshore.
E non basta. La Turchia di Erdogan, dentro la Nato ma fuori dalla Ue, che come Israele non ha messo sanzioni a Mosca – in linea con quasi tutto il Medio Oriente e il Nordafrica – rimane un rebus geopolitico. Lo è dal lontano trattato di Parigi del 1856, quando l’impero ottomano si alleò contro la Russia nella guerra di Crimea con Francia, Regno Unito, Austria e Regno di Sardegna. Quell’accordo segnava la contrapposizione della Sublime Porta alla Russia ma confortava le aspirazioni di Istanbul per un’identità geopolitica europea, poi drammaticamente deluse dalla sconfitta della prima guerra mondiale, iniziata in alleanza con gli imperi centrali e con l’attacco ottomano alle basi russe sul Mar Nero.
Con la fine dell’impero, la repubblica ereditata da Ataturk cercava una protezione dalle rivendicazioni territoriali dell’Urss nell’adesione alla Nato che alle élite militari confermava l’identità occidentale del Paese. Finita la guerra fredda Ankara percepisce Mosca come un partner accettabile ma nell’ultimo decennio – con le crisi che riguardano Georgia, Crimea, Siria, Libia e infine Ucraina – la Russia torna essere una rivale, soprattutto con l’avanzata odierna di Putin nel Mar Nero.
Ma nonostante l’incompatibilità geopolitica tra Ankara e Mosca (che comunque fa assai comodo a Nato e Usa), Putin ed Erdogan intraprendono rapporti pragmatici, sia in Siria che in Libia. Nel 2016 per il fallito golpe Erdogan chiude la base Usa di Incirlik per una settimana e riceve il pieno appoggio di Mosca. Con il progressivo (ma relativo) ritiro Usa dal Medio Oriente, Erdogan sperimenta con Russia e Cina il multipolarismo. “Siamo in un mondo post occidentale”, proclama da tempo la diplomazia turca. Ma in un mondo che non è sicuro né pacificato e che ha fatto della Turchia un Paese ancora meno democratico e tollerante. Con la nostra complicità.
Sono iniziati i quarantacinque appuntamenti sulla Rai dedicati ai referendum sulla giustizia sostenuti dal partito radicale insieme alla Lega (e promossi formalmente da nove regioni). Ci si può augurare che anche le emittenti private, a cominciare da Mediaset e La 7, facciano qualcosa di simile. Del resto, le indicazioni vengono dalla legge sulla par condicio del febbraio 2000, nonché dalle apposite disposizioni varate dall’autorità per le garanzie nelle comunicazioni e dalla commissione parlamentare di vigilanza dei servizi radiotelevisivi.
Insomma, apparentemente si è rotto il velo sulla scadenza elettorale prevista per la prossima domenica 12 giugno, in concomitanza con il turno amministrativo.
Tuttavia, con rispetto per l’attività che Rai parlamento svolge in ossequio delle norme e del contratto di servizio, il tema meriterebbe un’attenzione assai superiore nell’informazione. L’argomento in questione, articolato in cinque quesiti, ha bisogno di un vero approfondimento. L’affermazione di Luigi Einaudi che è indispensabile conoscere per deliberare, ricordata costantemente da radio radicale, in questo caso è dirimente. I punti sollevati, infatti, toccano problemi non semplici: dal consiglio superiore della magistratura, alla valutazione sull’operato dei magistrati, alla custodia cautelare, alla legge Severino su incandidabilità e decadenza dalle cariche elettive.
Non bastano spazi televisivi o radiofonici istruiti secondo il vecchio calco delle tribune, che pure ebbero in epoche passate momenti rilevanti di successo. Il tempo è trascorso inesorabilmente e non esistono più quel sistema politico e neppure il vecchio universo comunicativo. Le collocazioni orarie dei programmi elettorali nei palinsesti non sono particolarmente efficaci e denotano una visione lontana dai periodi più felici dell’informazione politica.
A proposito di news, si arrossisce alla lettura dei dati pubblicati dall’agcom sulla notiziabilità dei referendum tra il 29 di aprile e il 7 di maggio, quando si svolgeva la decisiva fase che precede la campagna elettorale: quella in cui si prepara il clima di opinione. Le percentuali orarie dedicate ai referendum hanno oscillato tra i tre e i quattro minuti nella Rai (nel complesso, non al giorno; meglio gli extra-tg), qualcosa di meglio a Mediaset (circa un’ora) e nebbia altrove. Insomma, la grande parte del pubblico dei cittadini è messa in condizione di sapere per quale motivo deve votare?
Le benemerite tribune o i messaggi autogestiti raccolgono spicchi di audience composti da persone già interessate o che vogliono confermarsi nei propri orientamenti. Ma tra il cielo e la terra delle trasmissioni specifiche ci sarebbe un mondo vasto e plurale. Sì, plurale. Qui non c’entra, infatti, il giudizio di merito, legittimamente orientato su versanti anche opposti.
In gioco sta un capitolo delicato dell’edificio democratico: i referendum sono un potere autonomo previsto dalla costituzione. Guai a considerare la vicenda una banalità marginale.
Una proposta. Sui canali abbondano i talk, sottogenere di successo che costa poco e dove si litiga per trainare un po’ l’ascolto. Prima fu la pandemia, ora – ovviamente- la guerra. Si potrebbe ritagliare uno spazio alla materia referendaria, attraverso un contenitore condotto con imparzialità e cognizione. La presenza degli ospiti deve certamente rispettare la disciplina legislativa e regolamentare, ma offrendo opportunità di approfondimento che altrimenti rischiano di essere piuttosto deboli.
Telegiornali e giornali radio hanno, poi, da svolgere la loro funzione essenziale, negata finora su tale scadenza.
Ciò che non appare sui media generalisti, ritorna sui social. Non è possibile accettare che la rete non sia toccata. Almeno il silenzio elettorale, il divieto di rendere pubblici i sondaggi negli ultimi quindici giorni e la trasparenza sui post sponsorizzati andrebbero inseriti in un provvedimento di co-regolazione (per accrescere l’informazione presso gli utenti delle piattaforme) concordato dall’autorità con i gestori. Un simile orientamento è stato ripetutamente annunciato. Se non ora?
Sono iniziati i quarantacinque appuntamenti sulla Rai dedicati ai referendum sulla giustizia sostenuti dal partito radicale insieme alla Lega (e promossi formalmente da nove regioni). Ci si può augurare che anche le emittenti private, a cominciare da Mediaset e La 7, facciano qualcosa di simile. Del resto, le indicazioni vengono dalla legge sulla par condicio del febbraio 2000, nonché dalle apposite disposizioni varate dall’autorità per le garanzie nelle comunicazioni e dalla commissione parlamentare di vigilanza dei servizi radiotelevisivi.
Insomma, apparentemente si è rotto il velo sulla scadenza elettorale prevista per la prossima domenica 12 giugno, in concomitanza con il turno amministrativo.
Tuttavia, con rispetto per l’attività che Rai parlamento svolge in ossequio delle norme e del contratto di servizio, il tema meriterebbe un’attenzione assai superiore nell’informazione. L’argomento in questione, articolato in cinque quesiti, ha bisogno di un vero approfondimento. L’affermazione di Luigi Einaudi che è indispensabile conoscere per deliberare, ricordata costantemente da radio radicale, in questo caso è dirimente. I punti sollevati, infatti, toccano problemi non semplici: dal consiglio superiore della magistratura, alla valutazione sull’operato dei magistrati, alla custodia cautelare, alla legge Severino su incandidabilità e decadenza dalle cariche elettive.
Non bastano spazi televisivi o radiofonici istruiti secondo il vecchio calco delle tribune, che pure ebbero in epoche passate momenti rilevanti di successo. Il tempo è trascorso inesorabilmente e non esistono più quel sistema politico e neppure il vecchio universo comunicativo. Le collocazioni orarie dei programmi elettorali nei palinsesti non sono particolarmente efficaci e denotano una visione lontana dai periodi più felici dell’informazione politica.
A proposito di news, si arrossisce alla lettura dei dati pubblicati dall’agcom sulla notiziabilità dei referendum tra il 29 di aprile e il 7 di maggio, quando si svolgeva la decisiva fase che precede la campagna elettorale: quella in cui si prepara il clima di opinione. Le percentuali orarie dedicate ai referendum hanno oscillato tra i tre e i quattro minuti nella Rai (nel complesso, non al giorno; meglio gli extra-tg), qualcosa di meglio a Mediaset (circa un’ora) e nebbia altrove. Insomma, la grande parte del pubblico dei cittadini è messa in condizione di sapere per quale motivo deve votare?
Le benemerite tribune o i messaggi autogestiti raccolgono spicchi di audience composti da persone già interessate o che vogliono confermarsi nei propri orientamenti. Ma tra il cielo e la terra delle trasmissioni specifiche ci sarebbe un mondo vasto e plurale. Sì, plurale. Qui non c’entra, infatti, il giudizio di merito, legittimamente orientato su versanti anche opposti.
In gioco sta un capitolo delicato dell’edificio democratico: i referendum sono un potere autonomo previsto dalla costituzione. Guai a considerare la vicenda una banalità marginale.
Una proposta. Sui canali abbondano i talk, sottogenere di successo che costa poco e dove si litiga per trainare un po’ l’ascolto. Prima fu la pandemia, ora – ovviamente- la guerra. Si potrebbe ritagliare uno spazio alla materia referendaria, attraverso un contenitore condotto con imparzialità e cognizione. La presenza degli ospiti deve certamente rispettare la disciplina legislativa e regolamentare, ma offrendo opportunità di approfondimento che altrimenti rischiano di essere piuttosto deboli.
Telegiornali e giornali radio hanno, poi, da svolgere la loro funzione essenziale, negata finora su tale scadenza.
Ciò che non appare sui media generalisti, ritorna sui social. Non è possibile accettare che la rete non sia toccata. Almeno il silenzio elettorale, il divieto di rendere pubblici i sondaggi negli ultimi quindici giorni e la trasparenza sui post sponsorizzati andrebbero inseriti in un provvedimento di co-regolazione (per accrescere l’informazione presso gli utenti delle piattaforme) concordato dall’autorità con i gestori. Un simile orientamento è stato ripetutamente annunciato. Se non ora?
ITALIA. Luca Traini - a cui il suprematista di Buffalo dice di essersi ispirato - ottenne la licenza di “tiro sportivo” in diciotto giorni. Quanti altri come lui, animati da ideologie nazifasciste, ce ne sono in Italia? Nessuno lo sa. E, come lui, potrebbero essere tutti legalmente armati.
Luca Traini - LaPresse
La strage di Buffalo negli Stati uniti riguarda in realtà da vicino anche l’Italia. Non tanto perché lo stragista, Payton Gendron, il 18enne suprematista bianco che ha ucciso dieci persone, ha rivelato l’origine nord-europea e italiana dei suoi genitori.
Non solo perché, come altri suprematisti stragisti negli Stati Uniti, in Nuova Zelanda e in Europa ha dichiarato di essersi ispirato nel suo atto criminale alle gesta di Luca Traini, il simpatizzante della Lega che nel febbraio del 2018 a Macerata ha sparato all’impazzata dalla sua auto contro gli immigrati: un tentativo di strage “ispirato da ideologie nazifasciste” e “aggravato dall’odio razziale”, ha sentenziato la Cassazione.
MA SOPRATTUTTO perché tutte le maggiori stragi di stampo etno-suprematista rivelano altri due fattori determinanti: il facile accesso legale alle armi e la letalità delle armi utilizzate. Due elementi, che, uniti all’odio razziale e all’ideologia nazifascita, rendono la miscela potenzialmente esplosiva anche in Italia.
Non è un problema solo di “lupi solitari”, ma riguarda i gruppi che a quelle ideologie si ispirano. Come avverte “Relazione sulla politica dell’informazione per la sicurezza”, recentemente inviata al Parlamento, “ancora alto è apparso l’indice di pericolosità promanante dalla diffusione online di ideologie neonaziste e suprematiste che istigano a porre in essere atti violenti e indiscriminati motivati dall’odio razziale o in linea con quella corrente ’accelerazionista’ globale che mira alla ’soluzione violenta’ come unica via per abbattere il ’sistema’”.
“IL FENOMENO – evidenzia la Relazione – che segue negli ultimi anni un trend in costante ascesa sul panorama internazionale, ha trovato nel 2021 ulteriori conferme sul piano giudiziario, con diverse operazioni di polizia che hanno disvelato come nel nostro Paese tale propaganda virtuale pro-violence abbia contribuito ad alimentare insidiosi percorsi di radicalizzazione di singoli individui e di ristretti gruppi, facendo emergere segnali di un rischio di transizione della minaccia, anche sul piano reale”. Il rischio, dunque, in Italia non riguarda solo i singoli, ma i gruppi e non è solo una minaccia ma è reale.
E lo è ancor più se si pensa che in Italia vi sono almeno 350mila “tiratori fantasma”, cioè persone che detengono armi con una licenza di “tiro sportivo”, ma che non sono iscritti alle federazioni nazionali di tiro a segno.
Persone a cui le norme attuali permettono di detenere 3 pistole con caricatori fino a venti colpi, 12 fucili semiautomatici – i più utilizzati nei mass-shooting – con caricatori fino a dieci colpi in numero illimitato e senza obbligo di denuncia e un numero illimitato di fucili da caccia.
Ce n’è a sufficienza per armare legalmente dei battaglioni. Persone che possono esercitarsi con queste armi nelle varie discipline del tiro, tra cui il “tiro dinamico”, e che possono addestrarsi allo scontro armato tra gruppi emulando le strategie di guerra in scenari simili a quelli urbani utilizzando le armi da soft-air, fedeli riproduzioni delle armi da fuoco.
IN ITALIA, per ottenere una licenza per armi non è richiesto nessun controllo specialistico né un esame tossicologico: tutto si basa su una autocertificazione firmata dal medico di base e un controllo di idoneità psicofisica presso l’Asl simile a quello per ottenere la patente di guida.
Luca Traini ottenne la licenza di “tiro sportivo” in diciotto giorni. Quanti altri come lui, animati da ideologie nazifasciste, ce ne sono in Italia? Nessuno lo sa. E, come lui, potrebbero essere tutti legalmente armati.
*Osservatorio Permanente sulle Armi Leggere e Politiche di Sicurezza e Difesa (OPAL)
Commenta (0 Commenti)CONFLITTO UCRAINO. Siamo all’ambiguità delle proposte. A chi è rivolto il "cessate il fuoco" di Austin: a Putin o anche a Zelensky? Intanto il conflitto cambia natura, ma anche l’Italia invia armi pesanti
Finalmente alcune verità da qualcuno di noi ripetute fin dall’inizio di questa maledetta guerra ma a lungo segregate dietro il muro di propaganda bellica, iniziano faticosamente a filtrare persino nei Palazzi della politica. E cioè che la pace (non più parola proibita) è desiderabile hic et nunc e da perseguire come obiettivo prioritario sul terreno della diplomazia. Che la guerra, tanto più se si trasforma in “guerra d’attrito” come sta avvenendo, fa male a entrambe i contendenti e andrebbe fermata quanto prima.
Che fa male anche, e in misura crescente, all’Europa, la quale non ha gli stessi interessi degli Stati uniti, che quella guerra vorrebbero prolungarla, ma al contrario ne paga pesantemente il prezzo, in termini economici, politici e geopolitici, come ha fatto capire esplicitamente Macron e più timidamente (molto più timidamente) Draghi.
E POI QUELLO CHE sanno
Leggi tutto: La lingua biforcuta della guerra - di Marco Revelli
Commenta (0 Commenti)