Non c’è dubbio che la giornata di giovedì 16 giugno sia stata «storica», tutti hanno così definito la visita dei tre leader europei che ha spianato la strada alla candidatura dell’Ucraina all’ingresso nell’Unione europea.
Ma non rappresenta una svolta nella guerra: di armi non si è parlato e non lo si doveva fare, perché questa era la precondizione dell’incontro. Kiev è stata soprattutto una tappa che rinsalda un’unità europea più volte messa in dubbio.
Ma le differenze restano, eccome.
Nonostante sia stato sottolineato che Francia, Germania e Italia si siano allineate nel sostegno senza esitazioni per l’Ucraina chiesto da tempo dai paesi del fianco est dell’Unione.
Non è però la fine dello scarto evidente tra i protagonisti tradizionali dell’Unione e i membri orientali che si trovano in prima linea a causa della loro storia e della loro geografia. Il presidente francese Emmanuel Macron ha dichiarato ieri che l’Ucraina non avrà mai pace se l’obiettivo finale del conflitto nel Paese è «schiacciare la Russia». In un’intervista alla tv
Leggi tutto: Dalla cortina di ferro alla gabbia d’acciaio - di Alberto Negri
Commenta (0 Commenti)AMBIENTE. L’obiettivo, entro il 2030, di 60 GigaWatt di rinnovabili, è possibile. Si può realizzare anche prima, se gli investimenti partono con iniziative pubbliche conseguenti
Finalmente Ciingolani in una intervista ha parlato chiaro e così scopriamo che tutti i suoi detti e non detti del passato sono riconducibili ad un ministro che sta alle politiche per l’ambiente come la volpe nel pollaio.
Ora è chiaro perché da quando è in carica ha parlato molto, spesso a sproposito e in modo ondivago, ma ha combinato ben poco, basta pensare che le semplificazioni proposte dopo ben due decreti-legge hanno lasciato la situazione praticamente immutata. Ecco alcuni esempi.
Non risulta che il Governo, in mora da un anno, abbia finalmente inviato a Bruxelles quella sorta di piano regolatore del mare che dovrebbe consentire alle aziende che vogliono investire nell’eolico off-shore di farlo (a 20/30 chilometri dalla costa) tenendo conto che le autorizzazioni in questo caso dipendono tutte dal Governo, quindi, non si possono scaricare colpe su Comuni e Regioni. Come non risulta che il Governo abbia approvato, su proposta del ministro un provvedimento per attribuire finalmente a Terna le decisioni, non la proprietà, sui pompaggi idroelettrici che valgono fino a 7,6 GigaWatt, una quantità ingente che potrebbe stabilizzare in rete l’offerta di energia elettrica da energie rinnovabili. A questo proposito: l’idroelettrico spesso non viene ricordato tra le fonti rinnovabili, eppure ci sono ancora margini di crescita come dimostra il Comune calabrese che ha ripristinato un piccolo impianto per produrre energia elettrica. Manca un piano per un progetto nazionale di efficientamento e di nuovo idroelettrico.
Non risulta dalle parole di Cingolani che sia a conoscenza del fatto che Terna stia realizzando un importante elettrodotto Sud/Nord per raddoppiare quello esistente, scelta che semmai andrebbe meglio valutata per evitare la desertificazione energetica dell’industria del Mezzogiorno.
Ancora più curioso l’elenco dei problemi da risolvere indicati dal ministro, che dovrebbero essere ben presenti nel programma di azione del Governo ma che invece sembrano stupire il ministro, quasi non fosse suo il compito di risolverli.
L’obiettivo di 60 GigaWatt di rinnovabili entro il 2030 è del tutto possibile e si può realizzare anche prima, se gli investimenti partono, ma occorre finalizzare le iniziative pubbliche a questi obiettivi. Ad esempio, una parte dei fondi riservati al cosiddetto 110 % potrebbero essere destinati anche al fotovoltaico, obbligandone l’installazione sui nuovi edifici, scuole, sedi pubbliche e aiutando i privati che lo installano. Se bisogna fare di più anche le iniziative debbono essere coerenti. Le alternative sono restare senza gas o continuare come prima ad inquinare e a produrre CO2.
Il Governo continua a non presentare un piano per il risparmio energetico nel settore industriale e non fa nulla per supportare al massimo possibile la produzione nazionale nei settori delle rinnovabili (Enel ha investito in Sicilia nei pannelli Ftv) con particolare riguardo ad accumulatori e microchip, che sono obiettivi europei.
Affermare che puntare sulle rinnovabili ci mette alla mercé della Cina è solo la conferma della pochezza dell’iniziativa del Governo. Curiosa poi l’amnesia del ministro sul Pnrr che prevede di arrivare a 25.000 punti di ricarica delle auto elettriche.
Come Osservatorio sul Pnrr abbiamo proposto da mesi che il Governo convochi rapidamente una conferenza nazionale per presentare un nuovo piano energia/clima che metta insieme in modo chiaro obiettivi, risorse, tempi di realizzazione. Per settori decisivi dell’industria nazionale, come la siderurgia, occorre arrivare ad usare l’idrogeno prodotto da rinnovabili, che Snam ha chiarito potrebbe essere distribuito utilizzando i gasdotti esistenti. Mentre oggi scopriamo che il ministro punta sui carburanti sintetici (suggerimento di Eni?) per ritardare la dismissione dei motori endotermici (favore ai produttori in ritardo sull’elettrico?).
Ora si comprende perché il ministro Cingolani si sia schierato con Il Ppe per fare saltare il programma europeo “Fit for 55”, in appoggio alle aziende automobilistiche in ritardo sull’elettrico e all’Eni che punta sui carburanti sintetici.
Insistiamo. Draghi deve intervenire per superare la confusione e l’inazione del ministro, altrimenti diventerebbero privi di effetti gli appelli in sede internazionale – anche recentissimi – affinché le crisi incombenti (energia/grano) causate dall’invasione dell’Ucraina non facciano passare in secondo piano la gravissima crisi climatica.
Draghi convochi al più presto una conferenza nazionale per presentare al paese le proposte del Governo italiano per un nuovo piano energia/clima all’altezza delle sfide attuali e degli obiettivi UE, da costruire in un confronto con tutti i soggetti interessati.
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ANALISI. Per abbattere le emissioni del 55% entro il 2030, il nostro paese dovrebbe raggiungere una quota del 40% di energie rinnovabili
Realizzare lo scenario che permette una forte riduzione del consumo di energia primaria e di importazione di fonti fossili già nei prossimi anni non è una cosa da poco. Molti analisti però hanno dato indicazioni per raggiungere il -55% di emissioni al 2030, con la speranza di vederle contenute nella revisione di un Pniec che tarda a uscire. Lo scenario che permette di raggiungere quegli obiettivi e che allo stesso tempo è in grado di minimizzare i costi annuali del sistema energetico deve fare riferimento all’incremento delle capacità installate di rinnovabili. Riassumendo i dati che circolano, si dovrebbe prevedere al 2030 una potenza complessiva di fotovoltaico di 85 GW (contro i 52 GW secondo il Pniec 2019), di eolico di 35 GW (18.4 GW secondo il PNIEC 2019), un aumento della produzione complessiva di biometano fino a 50-70 TWh/anno (circa 5-7 bm3/anno), la diffusione di pompe di calore al fine coprire il 45% della domanda termica del settore civile (circa 4 milioni di impianti), l’elettrificazione del trasporto leggero per almeno il 20% di veicoli elettrici in riferimento al parco italiano circolante al 2030 di 34 milioni, il programma di efficienza energetica degli edifici con una riduzione di 23 TWh della domanda complessiva di riscaldamento con interventi sull’involucro. Aggiungerei anche 5 GW di elettrolizzatori per arrivare almeno a 350 mila ton/anno di idrogeno verde. Tutto questo si traduce in una quota rinnovabile sul totale del 40% (contro l’attuale 20) ed una penetrazione delle rinnovabili nel mix elettrico almeno del 70%. Un impegno forte, investimenti importanti da affrontare con grande decisione, senza tentennamenti.
QUELLO CHE APPARE incongruo invece è che tale ferma decisione manchi proprio a colui che dovrebbe esserne il primo protagonista. Il ministro della Transizione ecologica ha dichiarato con inequivocabile chiarezza al recente Festival di Green&Blue che tutto questo è impossibile da realizzare – in realtà facendo riferimento al raggiungimento di gran parte di questi obiettivi nei prossimi tre anni – ma non per questo le sue affermazioni appaiono meno sorprendenti. Infatti sarebbe veramente grave se le sue esternazioni, diciamo poco coraggiose e poco lungimiranti, influenzino la strategia di decarbonizzazione italiana. Una strategia al ribasso, lontana dal processo di transizione energetica voluto in sede europea. L’impossibilità sarebbe dovuta, secondo quanto afferma il ministro, alla inadeguatezza della rete, alla localizzazione territorialmente squilibrata degli impianti, alla difficoltà di poter tener insieme transizione energetica con gli aspetti sociali. Le prime due motivazioni sembrano smentite dal Piano di Sviluppo 2021 di Terna, dove si dice che: «È necessario accelerare gli investimenti nelle reti, (…) al fine di incrementare la magliatura, rinforzare le dorsali tra Nord e Sud, potenziare i collegamenti nelle Isole e con le Isole, sviluppare la rete nelle aree più deboli, per migliorarne la resilienza, l’integrazione delle rinnovabili e risolvere le problematiche di regolazione di tensione. Terna sta già imprimendo un’accelerazione agli investimenti più importanti e di maggiore utilità per il sistema elettrico». La consapevolezza di essere di fronte ad un processo di cambiamento profondo ha portato Terna ad elaborare un piano di investimenti di lungo termine di oltre 18 miliardi di euro nei prossimi 10 anni. E ad essere convinta che l’obiettivo è quello di un’economia decarbonizzata attraverso una transizione basata su integrazione delle fonti rinnovabili, rafforzamento della capacità di trasmissione e resilienza delle infrastrutture.
ALLA TERZA DELLE ECCEZIONI, potremmo invece rispondere riprendendo quanto riportato nel recente piano energetico tedesco, www.cleanenergywire.org in cui, tra tanti obiettivi da raggiungere vi è anche l’esplicito riferimento agli aspetti sociali della transizione, proprio quelli citati in negativo dal ministro e che ne rappresentano invece una caratteristica fondamentale. In particolare, uno studio del gruppo di ricerca della Sapienza ha stimato l’impatto occupazionale associati ai nuovi impianti rinnovabili in Italia al 2030, quantificabile in circa 1,5 milioni in termini di posti di lavoro temporanei per la costruzione e l’installazione degli impianti e 50 mila posti di lavoro permanenti per la gestione e la manutenzione degli stessi. E’ stato possibile notare come la creazione di green jobs sia potenzialmente maggiore dei posti di lavoro persi nel settore fossile, approssimativamente di un fattore 3.
IL CITATO PIANO TEDESCO presentato lo scorso aprile da Robert Habeck, super ministro dei Verdi per economia e protezione climatica nella coalizione semaforo di governo, punta all’80% di produzione rinnovabile nel mix elettrico entro il 2030, per arrivare quasi al 100% di elettricità verde entro il 2035. Dal 2025 la Germania vuole installare 10-15 GW di nuova energia eolica ogni anno e vuole quadruplicare la capacità esistente degli impianti fotovoltaici a 215 GW entro il prossimo decennio. Anche la Gran Bretagna, come la Germania, ha stabilito di ridurre del 65%-68% le emissioni di anidride carbonica al 2030. In Spagna la legge per il clima e la transizione energetica punta ad azzerare le emissioni di CO2 entro il 2050 e prevede di portare le fonti rinnovabili al 74% del mix elettrico nazionale al 2030, con 60 GW installati. Il principale traguardo del governo UK al 2030 è avere fino a 50 GW di eolico offshore grazie a una riforma delle procedure autorizzative per tagliare da 4 anni a 1 anno i tempi per approvare i nuovi progetti e a nuove aste basate sui contratti per differenza (CfD, Contracts for difference). Il fotovoltaico dovrebbe invece quintuplicare la sua potenza totale installata, passando dagli attuali 14 GW a circa 70 GW nel 2035. Anche per la Francia, nonostante il nucleare, l’obiettivo è il 32% di rinnovabili al 2030.
TUTTI QUESTI NUMERI sono la conferma di una volontà chiara e decisa, pur nelle differenze dei singoli stati membri, di essere parte di una Europa e della sua strategia per un progressivo e urgente abbandono delle fonti fossili. Per convincersene basta leggere attentamente il recente documento REpowerEU, che analizza le difficoltà di una strategia molto ambiziosa e individua le modalità operative per realizzarla. In Italia no.
L’Italia appare incerta e ondivaga e questo clima di incertezza fa male al nostro Paese. Le ultime aste di fine maggio hanno assegnato solo 443 MW su 3355, meno del 15%, mentre nel resto d’Europa vanno a gonfie vele. E’ questa politica di retroguardia che fa male al nostro Paese.
* Prorettore Sapienza Università di Roma e Presidente Coordinamento FREE
Commenta (0 Commenti)Si dice che i bassi salari siano conseguenza della bassa produttività. Ma, pur considerando una minore crescita del Pil e un differente livello di produttività, non si spiega comunque una forbice salariale che, a partire dagli anni ’90, rispetto a Francia e Germania si è allargata di oltre 30 punti.
Non sarà che da noi la maggiore produttività si sia tradotta, più che altrove, in crescita dei profitti, lasciando al palo i salari? Non sarà che i maggiori profitti siano stati impiegati non per accrescere la competitività aziendale ma per investimenti nella finanza e nel mattone? Non esiste, forse, una correlazione tra il crescente peso della rendita e il ridimensionamento dei settori produttivi?
Il livello della rendita annua in Italia supera l’ammontare complessivo delle retribuzioni dei lavoratori dipendenti (si aggira sopra i 400 miliardi di euro). Si tratta di un dato sorprendente, su cui però, quando si parla di produttività, non si focalizza mai l’attenzione. Si volge lo sguardo al costo del lavoro e si sorvola invece sulle distorsioni e sulle arretratezze che caratterizzano il nostro capitalismo.
Si dovrebbe invece coltivare un po’ la memoria e ritornare con la mente all’epoca della «finanza creativa» del ministro Tremonti (governo Berlusconi) quando avvenne una massiccia dismissione e privatizzazione del patrimonio pubblico. Lo scopo dichiarato era ridurre il debito dello Stato e incamerare risorse da destinare a investimenti per migliorare, appunto, la produttività del sistema economico.
Un totale fallimento su tutti e due i versanti. L’unico risultato è stato il trasferimento in mani private di uno straordinario portafoglio di assets pubblici.
Le amministrazioni delle grandi città, nello stesso periodo, hanno stretto accordi di programma con proprietari e costruttori, avviando programmi di rigenerazione urbana, di riutilizzo delle aree dismesse, di espansione edilizia. Il mercato immobiliare ha vissuto il suo periodo d’oro. La rendita trova nelle aree urbane nuovo alimento e occasioni di guadagno. Ebbene, di tutta questa ricchezza circolante sul territorio nelle casse statali entrano poche briciole, proprio a causa di un Catasto vetusto, non al passo con i tempi.
Nel frattempo, la qualità della vita, soprattutto dei cittadini meno abbienti, è peggiorata: abbandono delle periferie, degrado dell’ambiente, insicurezza, carenza di servizi.
Non c’entra niente tutto questo con la crescita dell’astensionismo? Non ha niente a che fare con la crisi italiana il fatto che gli alti rendimenti degli investimenti nel mattone abbiano spiazzato gli investimenti produttivi e modificato a favore della rendita gli equilibri economici, finanziari e sociali?
La vicenda dei Benetton, che disinvestono nell’industria tessile per rifugiarsi prima negli autogrill e poi nelle concessioni autostradali segna un passaggio d’epoca: dalla produzione alla rendita. Personaggi come Caltagirone, Berlusconi, Ligresti e altri, dopo aver fatto fortuna con il boom immobiliare, compiono il salto nel mondo della finanza e dell’editoria. Chi non ricorda i «furbetti del quartierino» (Coppola, Ricucci, Statuto), celebrati come «nuovi imprenditori» da esponenti di sinistra in piena ubriacatura liberista?
Per tornare a noi, il centrodestra ha vinto la partita sul Catasto perché, con la parola d’ordine «no alle tasse sulla casa», ha sfruttato abilmente la paura degli italiani. Ha legato, in un unico blocco sociale, gli interessi dei piccoli e dei grandi proprietari. Ha saldato il 75 per cento delle famiglie, che abitano nella casa in proprietà (generalmente l’unica) con il 5 per cento degli italiani più ricchi, che posseggono il 25 per cento di tutto il patrimonio immobiliare (dati Banca d’Italia). E ha bloccato la riforma, sine die, sulla base di un accordo inaudito, secondo il quale il Catasto può funzionare unicamente su dati vecchi.
Assistiamo al paradosso giuridico che la ricchezza immobiliare italiana, pur in presenza di valori catastali aggiornati, continua a nascondersi dietro estimi superati.
Che dire, infine, del grande business generato dallo sfruttamento delle spiagge? Circa 14 mila tra stabilimenti balneari, campeggi, complessi turistici, circoli sportivi occupano 3500 degli 8300 km di costa che circondano l’Italia. Il 43 per cento dell’accesso al nostro mare (i punti di maggiore pregio) è di fatto privatizzato.
I titolari delle concessioni pagano canoni irrisori e dichiarano redditi improbabili (la cui affidabilità è messa in discussione dalla stessa Agenzia delle entrate). Ebbene, la maggioranza di governo decide di concedere indennizzi ai concessionari di demanio marittimo qualora dovessero perdere le gare pubbliche. Un danno per le finanze pubbliche e un vulnus allo Stato di diritto.
Nel paese dei bassi salari le leggi sul Catasto e sulla concorrenza non servono a spostare la pressione fiscale dal lavoro alla rendita. Ricchi proprietari, rendite di posizione e privilegi corporativi non si toccano. Tout va, nonostante l’elevato debito pubblico e la crisi economica e sociale che avanza.
Commenta (0 Commenti)Il fallimento era largamente previsto. Il record negativo di partecipazione permette di guardare direttamente ad alcune questioni di fondo sino ad ora sottovalutate. In questo caso, non ci si può giustificare dando la colpa al quorum strutturale di validità.
Previsto in Costituzione all’articolo 75, ritenuto troppo elevato: se l’80% circa degli aventi diritto al voto non hanno risposto al quesito, evidentemente, la ragione è da ricercare nel «tipo» di domande formulate e nella distanza tra queste e la realtà percepita dal corpo elettorale. In fondo basta pensare al fatto che il referendum, così come ogni appello al popolo, necessariamente comporta una semplificazione: la risposta non può che essere univoca, sì o no. Questo è accettabile a condizione che la portata politica e culturale del quesito sia di immediata evidenza.
COSÌ È STATO O POTREBBE essere – al netto dell’ammissibilità – in molti casi (divorzio, aborto, nucleare, ergastolo, beni comuni, liberalizzazione delle droghe leggere, eutanasia). Nei casi in cui, invece, il quesito diventa tecnicamente complesso e assolutamente specifico, l’unica possibilità di successo è affidata alla demagogia, che è spesso figlia dell’inganno.
Questo è avvenuto per i cinque quesiti sulla giustizia. Non solo di difficile comprensione, ma anche per nulla idonei a perseguire gli scopi dichiarati.
Come si fa in effetti a pensare che una questione tanto particolare com’è la possibilità di attribuire il diritto di voto agli avvocati e ai professori nei Consigli giudiziari e nel Consiglio direttivo della Corte di Cassazione possa garantire un più equo processo? In realtà, è questo un tema che riguarda principalmente i rapporti tra magistratura e avvocatura, non le più immediate preoccupazioni dei cittadini. Così anche gli altri quesiti proposti, nessuno dei quali tale da porre fine alle reali difficoltà che sono alla base del cattivo funzionamento della giustizia.
ABBANDONATI i referendum al loro inglorioso destino, dovremmo adesso cominciare ad affrontare le vere questioni, che sono sotto gli occhi di tutti.
La sfida è già in corso, il «pacchetto» Cartabia non comprende solo la riforma del CSM, ma ha già posto le basi per la trasformazione dei processi civile e penale. L’ambizione è alta: ci si è impegnati con l’Europa a ridurre del 40% i tempi dei processi civili e del 25 % quelli del penale. Se questi sono gli auspicabili obbiettivi come conseguirli?
Se si vuole superare la prospettiva aziendalistica, che troppo spesso inquina la discussione, dovremmo rivendicare una riforma «costituzionalmente orientata», ovvero in grado di garantire autonomia e indipendenza dell’ordine della magistratura (art. 104 Cost.); assicurare una «ragionevole durata» dei processi che però non contraddica il principio del “giusto processo” (art. 111 Cost.), né pregiudichi la tutela dei diritti e le garanzie di difesa (art. 24 Cost).
ABBREVIARE DUNQUE i tempi, ma senza compromettere le garanzie. Non è una sintesi semplice da raggiungere e c’è un doppio rischio da evitare. Quello di avere una sentenza rapidamente, però sbagliata oppure di avere una sentenza giusta, ma dopo troppo tempo. Un’alternativa diabolica cui si sfugge solo se si riuscirà ad ottenere una sentenza argomentata in tempi ragionevoli.
Ma per ottenere questo risultato non basta intervenire sulle regole dei processi è necessario operare su più piani. Quello del «diritto penale minimo» in grado di ridurre l’incidenza della repressione penale a favore di altre forme di tutela sociale, prevedendo un’ampia depenalizzazione di tutte quelle fattispecie ritenute ormai di scarsa pericolosità sociale, riqualificando l’azione penale con riferimento ai reati di maggiore impatto e disvalore sociale.
Ridurre la litigiosità nel processo civile incentivando misure e forme alternative, ma evitando la degenerazione della giustizia privata ovvero ostacoli eccessivamente punitivi all’esercizio dell’azione civile, garantendo comunque nel corso del processo il contraddittorio tra le parti in condizione di parità (art. 111 Cost.).
SI DOVREBBE, INOLTRE, intervenire sulle carceri per ridurre il sovraffollamento, incentivando il reinserimento sociale e assicurare la rieducazione del condannato (art. 27 Cost).
Si dovrebbe infine prestare maggiore attenzione alla formazione dei magistrati, senza limitarsi ad estendere il ruolo della Scuola Superiore della Magistratura, ma utilizzando anche altri canali formativi.
In questo contesto non deve essere sottovalutata la responsabilità anche della formazione universitaria che si caratterizza sempre meno in chiave problematica e sempre più si accontenta di una preparazione puramente nozionistica, che non regge alla prova dei fatti. I dati dell’ultimo concorso in magistratura sono inquietanti: il 95 % dei candidati non ha superato la prova.
La Nuova Unione Popolare Ecologista e Sociale guidata da Mélenchon è la vera vincitrice del primo turno delle elezioni francesi. Con il 25,7% dei voti, a pari merito del Presidente in carica e lasciando Marine Le Pen poco sopra il 18%, il risultato è straordinario. Con questa spinta è sicuro che il raggruppamento di sinistra sarà il gruppo più grande dell’opposizione ed è molto probabile che Macron non riesca a conquistare la maggioranza assoluta del parlamento, aprendo la strada ad una dialettica politica assai positiva. Non oso immaginare di più, ma certo questi due risultati costituiscono già un grande risultato, perché uno dei paesi più importanti d’Europa si troverà ad avere un condizionamento sociale importantissimo e per certi decisivo per mettere sabbia nei meccanismi dell’Europa liberista arruolata nella Nato.
Quindi innanzitutto un grande applauso a Jean Luc Mélenchon e alle compagne e compagni francesi.
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