FOIBE. Lo sguardo sugli anniversari che ricorrono a 80 anni dalla Liberazione di Roma, città medaglia d’oro al valor militare, aiuta a raccontare molto dell’uso pubblico del passato, al tempo del governo degli eredi del Msi, e della traiettoria della memoria storica in Italia
31 luglio 1942, soldati italiani fucilano cinque abitanti del villaggio di Dane in Slovenia, foto Museo storico di Lubiana
Lo sguardo sugli anniversari che ricorrono a 80 anni dalla Liberazione di Roma, città medaglia d’oro al valor militare, aiuta a raccontare molto dell’uso pubblico del passato, al tempo del governo degli eredi del Msi, e della traiettoria della memoria storica in Italia.
Il 24 gennaio 1944, in piena occupazione nazista, due antifascisti condannati a morte evasero dal carcere di Regina Coeli grazie ad una straordinaria operazione della Resistenza socialista. Erano Alessandro Pertini e Giuseppe Saragat e sarebbero divenuti entrambi presidenti della Repubblica, incarnando la catarsi antifascista dell’Italia dopo gli anni del regime.
Dal Quirinale, nel nome della comune esperienza partigiana, i due costruirono un rapporto di amicizia e rispetto con Josip Broz Tito, a sua volta comandante della Resistenza jugoslava, l’unica in Europa a liberare da sola il proprio Paese dall’occupazione nazifascista.
In ragione della necessità di instaurare buoni rapporti tra i due Stati (dopo l’aggressione fascista ed i crimini di guerra perpetrati dal regio esercito italiano nei Balcani) e della strategica collocazione geopolitica tra i «non allineati» di Belgrado nel quadro della Guerra Fredda, Tito venne insignito da Saragat della Gran Croce al Merito della Repubblica italiana il 2 ottobre 1969.
L’avversione dell’estrema destra fu assai vivace e culminò con i due attentati dinamitardi contro la scuola slovena di Trieste e al cippo confinario a Gorizia in occasione del viaggio di Stato di Saragat a Belgrado del 2-6 ottobre 1969. A compierli fu la cellula veneta del gruppo Ordine Nuovo, la stessa che il 12 dicembre successivo realizzò la strage di Piazza Fontana. Nei luoghi dove vennero rinvenute le bombe i neofascisti lasciarono dei volantini firmati da un sedicente Fronte anti-slavo che recitavano «no al viaggio di Saragat in Jugoslavia» e «no alle foibe».
Oggi è il partito Fratelli d’Italia a rivendicare l’intenzione di revocare il riconoscimento a Tito disconoscendo l’operato del primo Presidente partigiano.
La politica di amicizia italo-jugoslava proseguì e, ancora dal Quirinale, fu Alessandro Pertini ad incontrare Tito nell’ottobre 1979 e poi a recarsi in visita ufficiale per i suoi funerali l’anno seguente. Una presenza che scatenò, di nuovo, la reazione scomposta dell’estrema destra la cui eco è risuonata qualche tempo fa attraverso un falso propalato da stampa e social-media che rappresentarono la foto del Pertini affranto ai funerali di Enrico Berlinguer, piegato sulla bara del segretario del Pci, spacciandola per un omaggio al capo di Stato jugoslavo nel giorno delle sue esequie.
Già rivelato dalla scelta del 10 febbraio come data celebrativa (anniversario del Trattato di Pace di Parigi del 1947), in Italia l’uso strumentale della storia praticato dalla destra nel giorno del ricordo (che dovrebbe rievocare le violenze delle foibe insieme alla «più complessa vicenda del confine orientale») finisce per richiamare non solo il passato remoto del fascismo storico, con il suo corollario di crimini di guerra in Jugoslavia rimasti impuniti in ragione della realpolitik della Guerra Fredda anticomunista, ma anche il passato prossimo dell’Italia repubblicana che mantenne nel suo seno un’estrema destra sempre ostile alla Costituzione ed alla sua radice fondativa: la Resistenza.
Dopo aver attraversato la catarsi antifascista negli anni di Saragat e Pertini oggi assistiamo, per mano degli eredi del Msi, ad una rivalsa che disconosce ciò che dal vertice della Repubblica i due presidenti partigiani avevano costruito.
Così l’annunciato museo delle foibe assume le sembianze dell’ennesimo tentativo di riscrittura del passato finalizzata al governo del presente, che trasforma il tempo in cui l’Italia è stata aggressore in un ricordo vittimistico che cancella responsabilità ed eredità del regime fascista. Un passo che allinea sempre più la nostra contemporaneità al disarmo culturale volto a spogliare la Repubblica del suo vestito antifascista e a relegare la discussione pubblica sulla riemersione odierna delle peggiori istanze regressive (largamente presenti nel corpo della società) a un vacuo dibattito sull’applicazione della misura giudiziario/penale della sanzione al neofascismo.
Un approccio che, in tempi di crisi della democrazia, disperde e cancella dalla sfera pubblica quel patrimonio di analisi politico-culturale che permise di individuare le ragioni storiche alla base (in Italia prima di ogni altro luogo) della nascita, dello sviluppo e dell’ascesa di un regime reazionario di massa.
Una lettura dei caratteri di fondo di quel fenomeno che fu il lascito di figure come Piero Gobetti («il fascismo come autobiografia della nazione»), Antonio Gramsci («il sovversivismo delle classi dirigenti») e Aldo Moro («la radice del totalitarismo fascista affonda nel corpo sociale della nazione, là dove sono privilegi che non vogliono cedere il passo alla giustizia»). Eredità storiche, queste sì, da ricordare
Commenta (0 Commenti)L’annuncio di Ursula von der Leyen sul ritiro del regolamento sui pesticidi ha il sapore di un prodotto scaduto, e al pari tempo di una mela avvelenata. Che sia una merce senza valore è testimoniato bene dal voto contrario al regolamento di gran parte del Parlamento europeo. Anche quanti avevano sostenuto le buone intenzioni del documento “From farm to fork” sono stati costretti a votare contro un regolamento arrivato morto in Parlamento dopo il lavorio delle multinazionali e delle associazioni agricole corporative.
Ma sarebbe errato pensare che la presidente si sia limitata a vendere una patacca ai manifestanti. Il suo messaggio è un imbroglio, ma ha anche il sapore della complicità con i settori più retrivi del sistema. Breve, molto breve è stata la vita coraggiosa di Ursula von der Leyen. “Incentivi e libertà di inquinare” con questa formula della Presidente i gattopardi del potere riaffermano la sostanza e la natura del sistema .
In questo contesto la protesta non solo è un’occasione persa per cambiare realmente le cose, e paradossalmente nel tempo produrrà danni ancor più seri e profondi all’intero sistema agricolo e non solo.
Che sia un’occasione persa è del tutto evidente. La grande difficoltà, la crisi del mondo agricolo e dei produttori è reale e profonda. Una crisi che trova la sua prima ragione nella contraddizione irriducibile fra la produzione di un bene comune essenziale, quale è il cibo e il cosiddetto libero commercio. Una contraddizione che ha prodotto e produce enormi difficoltà economiche dei produttori, abbandono delle campagne, crisi demografica delle zone rurali, frammentazione sociale e collasso ambientale.
Una crisi che la speculazione dell’intermediazione e l’invadenza dei soggetti forti dell’agro-industria rendono ancora più grave. I prezzi sono fissati dai giganti della grande distribuzione e alla fine chi viene penalizzato è l’agricoltore che è alla base della filiera costretto a vendere a prezzi bassi e sotto ricatto. Una crisi figlia di una burocrazia asfissiante che non tiene in alcuna considerazione il fatto che in Italia più del 70% delle aziende sono piccole e medie.
Infine una crisi aggravata dell’uso improprio della Pac, infatti l’80% dei fondi europei vengono destinati al 20% dei grandi proprietari. Ridurre questo ordine di problemi al pannicello caldo degli incentivi è come buttare il bambino e tenere l’acqua torbida.
La mela diventa poi avvelenata, quando la Von der Leyen abbandona il green deal e apre le porte alla libertà di intossicare produttori, cittadini e suolo.
Il green deal non è una delle opzioni, dovrebbe essere la via maestra per dare un futuro all’agricoltura liberandola giorno dopo giorno dalla chimica di sintesi. Agricoltura che dovrebbe avere un ruolo fondamentale nella produzione di cibo, come nel contrasto al cambiamento climatico. Il suolo è una spugna dove viene assorbita il doppio dell’anidride carbonica che è in atmosfera. Trasformare il suolo in una discarica chimica, spingerlo verso la desertificazione, privarlo della materia organica è un autentico colpo al cuore all’equilibrio ecologico del pianeta.
Per affrontare i grandi interrogativi di questa nostra epoca dalla sicurezza alimentare al cambiamento climatico, dalla coesione sociale ad un nuovo e virtuoso equilibrio città-campagna è fondamentale il protagonismo e la partecipazione di gran parte del mondo agricolo, ma perché questo sia possibile è decisivo il riconoscimento sociale ed economico di chi vive e lavora la terra.
Le manifestazioni dei “trattori” hanno fatto esplodere il problema, ma le risposte non solo sono insufficienti, ma riportano indietro la ruota della storia, sono tre passi indietro.
Siamo ad un bivio, e mettere la testa sotto la sabbia sarebbe un grave errore. Questo è il momento della chiarezza e non dei tatticismi. E’ il momento per affermare il legame agricoltura\ambiente e operare per passare dalle reti alle alleanze – anche fra molto diversi – al fine di offrire una nuova prospettiva strategica a chi opera e vive di agricoltura che non è solo produzione, ma relazione con la natura ed il pianeta tutto.
O si afferma un nuovo percorso veramente sostenibile del sistema di produzione agricola e si pone l’agricoltore al centro di questo progetto o diversamente si continuerà sulla strada distruttiva dello sfruttamento intensivo dei campi e si condanneranno “ i produttori agricoli” alla marginalità economica e sociale. Come accade ora .
* Presidente del Biodistretto della via Amerina e delle Forre (Viterbese)
** Presidente del Biodistretto dell’Appennino Bolognese
Continuiamo così. Il parlamento approva la proroga per inviare armi all’Ucraina ancora un altro anno. Il Pd vota a favore: continua lo sforzo bellico e non parte quello diplomatico. Ma il conflitto è impantanato e Zelensky silura il capo di stato maggiore che lo ha criticato
L’aula del Senato - foto di Antonio Masiello/Getty Images
Facciamo l’ipotesi che il Pd, alla testa di un’opposizione unita (qui già l’ipotesi traballa) segni un punto in quella che evidentemente considera la partita politica più importante del momento, la conquista di uno spazio maggiore nella televisione pubblica. Bene, da queste casematte guadagnate – o più realisticamente difese – quali contenuti intende diffondere il Pd, tanto diversi da quelli che quotidianamente ci propone tele-Meloni?
Prendiamo tre questioni che a noi sembrano le più urgenti, tutte e tre hanno a che fare con le guerre.
Ieri la camera dei deputati ha approvato la proroga per tutto il 2024 delle procedure eccezionali necessarie per continuare ad armare l’Ucraina.
Per un altro anno si mettono tra parentesi le leggi ordinarie che vietano di cedere armi agli stati in guerra e obbligano in ogni caso a informare sempre dettagliatamente e pubblicamente il parlamento sul materiale trasferito all’estero. Otto spedizioni segrete si sono già succedute e tra pochi giorni saranno due anni dall’invasione russa. I gruppi 5 Stelle e Sinistra/Verdi hanno votato contro ma il Pd ha votato a favore (con quattro eccezioni) dunque giudica che si possa continuare così. Quando ormai la possibilità che l’Ucraina armata dall’occidente sconfigga la Russia e la ricacci indietro è esclusa da
Leggi tutto: Guerra e diritti, cambiare programma - di Andrea Fabozzi
Commenta (0 Commenti)All’inizio del 2012, governo Monti, l’allora segretario del Pd Bersani tentò la mossa del cavallo. O meglio, chiese risolutamente al presidente del consiglio di disarcionare i partiti dal cavallo di viale Mazzini accelerando la riforma della governance Rai. In ogni caso, avvertì, i dem non avrebbero partecipato alla spartizione della tv pubblica e (contando su un’inesistente sponda dell’Udc), avrebbero bloccato le nomine.
Finì che la riforma adombrata da Monti non si fece e Bersani se la cavò invitando alcune associazioni a indicare i nomi dei consiglieri d’amministrazione che spettavano al Pd (furono scelti Gherardo Colombo e Benedetta Tobagi).
Il «fuori i partiti dalla Rai», invocazione sacrosanta, è prima diventato un logoro slogan e ormai sembra una barzelletta anche perché nel frattempo a fare una riforma ha pensato Matteo Renzi, rafforzando la presa della maggioranza e dello stesso governo sulla televisione pubblica.
E gli alti lai dei 5 Stelle contro il sistema, le caste, le scatolette di tonno e le lottizzazioni di ogni sorta hanno raggiunto il massimo dei decibel quando Giuseppe Conte, a novembre 2021, annunciò l’aventino pentastellato dai programmi Rai perché al Movimento, nella nuova tornata di nomine, non era stato lasciato nemmeno un lotto degno di questo nome.
Anche l’astinenza da talk show durò poco, ma Conte cercò di attutire l’impatto della repentina retromarcia con l’ennesima promessa di riforma della tv pubblica.
Insomma, il dossier Rai richiederebbe massima circospezione, valutando tutte le possibili trappole, pena il rischio di finire, volenti o nolenti, fagocitati dal grande blob.
L’attuale segretaria del Pd Elly Schlein ha deciso tuttavia di affrontare la sfida, ma prima ancora di scendere sul campo di battaglia, con il sit-in di ieri sera a viale Mazzini, si è ritrovata su un terreno cosparso di mine. Dunque: Schlein la settimana scorsa ha annunciato il sit-in contro la propaganda di regime, invitando tutte le opposizioni, in difesa della libertà di stampa e di «un sevizio pubblico che non può essere TeleMeloni».
Tutte le opposizioni unite contro gli invasori telecomandati da palazzo Chigi? Macché.
Conte ha subito dato forfait tuonando contro l’«ipocrisia» perché l’occupazione della Rai è fenomeno antichissimo e in effetti praticato a destra e sinistra, nonché peggiorato dalla riforma del Pd renziano, e ha dunque ritirato fuori la parola magica, «riforma».
Renzi ha tacciato a sua volta Conte di ipocrisia perché in effetti hanno lottizzato anche i grillini, e oltretutto sulle nomine meloniane il consigliere 5S si è limitato a una sospetta astensione. E così al sit-in, forse per fare un dispetto a Conte e spargere un altro po’ di zizzania tra lui e Schlein, oltre a Fratoianni e Bonelli di Avs e a Magi di +Europa è andata anche Italia viva con Maria Elena Boschi. Che ha ringraziato la leader del Pd per la «scelta libera, forte e coraggiosa», l’ha abbracciata e baciata, ma non ha chiesto una riforma: del resto è ancora in vigore quella di Renzi.
Calenda non è andato a manifestare, però lui invece sì, ha chiamato a raccolta intorno a un tavolo per provare a scrivere finalmente le regole della nuova governance.
Oltre al danno la beffa: ieri pomeriggio a viale Mazzini manifestava anche Unirai – il nuovo “sindacato” della destra – per difendere i giornalisti della tv pubblica melonizzata dagli attacchi dell’opposizione. Del resto Giorgia Meloni, la stessa leader di Fratelli d’Italia arrivata a palazzo Chigi per combattere l’occupazione da parte di «un intollerante sistema di potere» in nome del «merito», è riuscita poi proprio da palazzo Chigi a rivendicare la contro-occupazione, pardon il «riequilibrio». Insomma, adesso tocca “a noi”.
E così Elly Schlein ieri sera ha certo manifestato, e certamente con parecchie ragioni, contro TeleMeloni, ma ha anche dovuto invitare tutti a fare autocritica (non si può sempre dire «io non c’ero»), promettendo: «Lavoreremo insieme per una riforma del servizio pubblico». Come e quando chissà. Al governo c’è saldamente la destra, l’attuale opposizione va pure in ordine sparso tirandosi frecciate, ma davanti al cavallo immerso nel buio di viale Mazzini si torna a invocare: «Fuori i partiti dalla Rai». E si canta «Bella ciao».
Proprio come Amadeus e Marco Mengoni a Sanremo. Mentre al presidio dell’Unirai si sfregano le mani. Lì è tutta un’altra musica, si suona l’Inno di Mameli: Fratelli d’Italia
SINISTRA. Il percorso verso le elezioni europee è giunto a un tornante decisivo. Siamo convinti che occorra dare una risposta a quello che hanno scritto sul manifesto Santoro e De Magistris. Chiediamo uno sforzo vero per guadagnare subito una capacità di intervento in grado di mandare segnali alle tante e tanti militanti che si aspettano un salto di qualità
Il percorso verso le elezioni europee è giunto a un tornante decisivo. Il tempo va utilizzato nel miglior modo possibile, per produrre un risultato all’altezza della situazione internazionale, sociale e politica che abbiamo di fronte.
Noi siamo convinti della necessità di costruire una lista unitaria per la pace, in grado di presentarsi all’appuntamento elettorale di giugno come punto di riferimento per larghi settori della società italiana, che con diverse sensibilità e a partire dalla propria condizione sociale intendano investire su un’opzione credibile e convincente di critica alla guerra. Un orizzonte etico da sollecitare, certo, ma connesso strettamente alla contestazione di politiche economiche e sociali devastanti che, nel mentre creano disuguaglianze crescenti e insopportabili, stabiliscono condizioni per un mondo in cui il conflitto armato diventa il primo orizzonte in vece di una possibile cooperazione internazionale.
Oggi siamo preoccupati perché Unione Popolare, che dovrebbe essere uno dei soggetti più attivi nella costruzione di una lista per la pace, si trova in una vera e propria situazione di stallo interno a seguito dei primi incontri con altri promotori, a iniziare da Michele Santoro.
Quest’ultimo ha recentemente svolto alcune considerazioni e posto nodi critici nel suo intervento sul manifesto. Lo abbiamo letto e ancora di più pensiamo che sia giunto il momento in cui tutta Unione Popolare debba recuperare il suo ruolo e farsi promotrice di una rinnovata pressione per riaprire subito la trattativa tra tutti i soggetti interessati alla lista per le europee.
La costruzione deve rispettare la pluralità dei contributi offerti. Lo sforzo deve essere orientato al massimo coinvolgimento, anche per evitare una perniciosa proliferazione di liste nella stessa area.
Riaprire una trattativa vera significa impegnare l’insieme di Unione Popolare per guadagnare una proposta unitaria, ma avanzata e non semplicemente utile a comporre una lista purchessia.
Il quadro che abbiamo di fronte impone una riflessione seria a tutti. Bisogna arrivare alla concretizzazione di parole d’ordine che creino il legame tra temi sociali e guerra. Da questo punto di vista ci pare significativo ciò che Luigi De Magistris ha scritto, intervenendo anche lui sul manifesto. Ne condividiamo le argomentazioni per due ordini di motivi. Da una parte De Magistris esplicita i nodi e le proposte che Unione Popolare intende sottoporre all’interno di una reale trattativa per la costruzione unitaria della lista per la pace, dall’altra delinea le condizioni per una Unione Popolare in grado di traguardare le elezioni europee, ma anche di vivere e strutturarsi oltre quelle.
Per tutte queste considerazioni riteniamo di rivolgerci all’insieme di Unione Popolare, chiedendo uno sforzo vero per riguadagnare tempestivamente una capacità di intervento in grado di mandare segnali positivi alle tante e tanti militanti che si aspettano un salto di qualità.
Sono le donne e gli uomini che Unione Popolare la fanno vivere giorno per giorno, che hanno raccolto firme sulle leggi di iniziativa popolare per il salario minimo a 10 euro e per l’introduzione del reato di omicidio sul lavoro, che proprio non intendono assistere a una rappresentazione problematica e passivizzante.
Rilanciare un negoziato per una lista della pace sulla base di pari dignità fra tutte le forze, perseguire la costruzione unitaria a partire da una trattativa vera, in cui le proposte di Unione Popolare vengano ascoltate e fatte valere. Il tempo è ora.
*** primi firmari e prime firmatarie: Francesca Frediani, consigliera regionale del Piemonte Unione Popolare, Domenico Finiguerra, Coordinamento nazionale UP, Saverio Ferrari, ricercatore storico, fondatore Osservatorio democratico sulle nuove destre, Alessandra De Rossi, coordinamento UP Torino, Valentina Tedesco, UP Milano e provincia, Iaia Piumatti, attivista comitati NO Pedemontana. Seguono 300 firme
Commenta (0 Commenti)Ora indaga la magistratura dopo che Ousmane Sylla si è ammazzato nel Cpr di ponte Galeria a Roma. Non aveva 22 anni e non doveva stare lì. Due mesi fa la psicologa voleva trasferirlo. Non aveva commesso reati ma poteva essere detenuto per 18 mesi senza alcuna possibilità di rimpatrio in Guinea. Ha lasciato scritto che vorrebbe tornarci da morto
L'EX GARANTE. Il trattenimento dei migranti irregolari - ha affermato la Corte costituzionale nel 2001 - trova giustificazione esclusivamente nella finalità del rimpatrio. Finalità non raggiunta in oltre la metà dei casi
L'interno del Cpr di Ponte Galeria, alle porte di Roma - Stefano Montesi
I Cpr nel nostro paese sono dieci, da Gradisca d’Isonzo a Caltanissetta passando per Macomer: uno chiuso per lavori, due sotto inchiesta della magistratura, uno dei quali commissariato. Un totale di oltre seicento posti disponibili e un numero complessivo di 6.383 persone transitate nel 2022, secondo gli ultimi dati disponibili.
Di queste, tuttavia, solo 3.154 sono state effettivamente rimpatriate. Meno della metà. In linea con gli anni precedenti, se si pensa che dal 2011 a oggi la percentuale di persone transitate nei Cpr (e prima ancora nei Cie) che è stata effettivamente rimpatriata è variata da un minimo del 44% del 2018 a un massimo del 59% nel 2017. Per tutti gli altri, quella detenzione di carattere amministrativo e non penale, finalizzata ad assicurare il loro rinvio coatto nel paese di origine, di fatto si risolve solo in una inutile
Leggi tutto: In quelle celle vuote, fuori dal tempo e dalle leggi - di Daniela De Robert*
Commenta (0 Commenti)