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CRISI UCRAINA. Per Michel (Consiglio europeo) “c’è solo un piano A: sostegno all’Ucraina”. "Sostegno” sempre meno convinto in un’Europa in recessione, con gli Usa che frenano sugli aiuti militari. Nessuna resa all’autocrate russo e al suo sistema repressivo - vedi Navalny. Ma va preso atto che Zelenski non può vincere, almeno in termini assoluti. E anche Putin è dimezzato

Guerra a Kharkiv (foto Ap)

L’orrore, prima o poi, deve avere una fine. La guerra in Ucraina ha fatto centinaia di migliaia di morti e reso l’Europa più povera, insicura e instabile. Dopo due anni ci troviamo in un paradigma ormai cambiato rispetto a quando l’obiettivo dell’Occidente era aiutare l’Ucraina a vincere. Ora il discorso è incentrato su come aiutare l’Ucraina a mettersi in sicurezza e a conservare i quattro quinti del suo territorio non occupati da Vladimir Putin con l’invasione del 24 febbraio 2022. Secondo un sondaggio dell’Ecfr (European Council on Foreign Relations) soltanto il 10% dell’opinione pubblica europea crede che l’Ucraina sia in grado di vincere, a meno di un allargamento del conflitto alla Nato che potrebbe provocare anche una guerra nucleare.

E purtroppo il ritorno del Dottor Stranamore, evocato da Tommaso Di Francesco sul manifesto del 16 febbraio, non è soltanto un incubo ma fa già parte del dibattito sul riarmo in atto dell’Europa soprattutto dopo le sparate di Trump: «Dirò a Putin di attaccare i paesi europei che non spendono per la loro difesa». Così ha affermato quello che nei sondaggi è ancora il favorito alle presidenziali americane di novembre.

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Forse è il caso di darsi da fare per trovare un’alternativa alla guerra ucraina (e magari pure a quella a Gaza), quel Piano B che il presidente del consiglio europeo Charles Michel rifiuta con ostinazione: «Esiste solo un piano A: il sostegno all’Ucraina». Già ma il «sostegno» all’Ucraina è sempre meno convinto in un’Europa in recessione economica mentre gli Stati uniti tengono ancora stretti i cordoni della borsa degli aiuti militari a Kiev.

Charles Michel e una pattuglia di leader europei sembra che non si siano accorti che ormai siamo oltre la “war fatigue”, la stanchezza della guerra: la situazione sul campo sembra pendere dal lato dei russi. E la guerra non si combatte soltanto sui campi di battaglia ma anche nelle urne delle elezioni come hanno dimostrato anche i casi del passato, dalla guerra francese in Algeria a quella americana nel Vietnam. Ma da noi _ occorre rilevarlo _ abbiamo un’opposizione così esangue che fa fatica a contemplare un’alternativa agli orrori contemporanei, dall’Ucraina a Gaza.

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Sono (e saranno) i fatti a fare cambiare idea a Michel e agli leader europei. Il piano B non vuole dire arrendersi all’autocrazia di Putin e al suo accanito e pervasivo sistema repressivo, come si è visto con Navalny, ma prendere atto che Zelenski questa guerra non la può vincere, almeno in termini assoluti. Anzi. Il fatto che sia ancora al potere a Kiev è già una vittoria visto che Putin intendeva mettere al suo posto un governo “amico”. Ci sono state pesanti perdite territoriali ma la Crimea era già stata persa nel 2014 e il Donbass è da tempo il terreno di una sanguinosa guerra civile.

Lo stesso Putin è un “vincitore dimezzato”: voleva mettere in crisi la Nato e l’accerchiamento atlantico con l’ingresso di Finlandia e Svezia è diventato più soffocante. Guerra e sanzioni lo hanno costretto a buttarsi nelle braccia della Cina e a ricorrere all’aiuto militare di Iran e Corea del Nord, Paesi che prima dipendevano da lui e da Pechino. Putin, che si prepara a rivincere le elezioni, è sotto pressione. Ha dovuto affrontare la rivolta di Prighozhin (eliminato), l’economia regge ma nel medio termine per stessa ammissione del Cremlino potrebbe subire contraccolpi. E in più si potrebbe manifestare l’opposizione interna, più che su basi ideologiche e politiche alimentata dalle rivendicazioni etniche e regionali come è avvenuto con le manifestazioni in gennaio del Baskortostan (Baschiria): le contraddizioni e i problemi strutturali della Federazione russa vengono accentuati da una guerra che ha reclutato nelle provincie più povere e remote.

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Dal campo di battaglia e dalla diplomazia provengono già segnali che all’orizzonte si profila un Piano B. Mentre la controffensiva ucraina è fallita (dopo mesi di incredibile propaganda sui media occidentali) e Zelenski ha ammesso il disastro facendolo pagare con una purga ai vertici militari, sul presidente ucraino si stanno moltiplicando le pressioni degli alleati per assumere un posizione più adatta alle circostanze, ovvero difensiva, che vanno dalla concentrazione militare nelle roccaforti più solide (Kramatorsk) alle prove di un’eventuale evacuazione di Karkhiv (di cui qui ovviamente non parla nessuno).

Certo l’Occidente non vuole dare l’impressione di darla vinta Putin ma che si cerchi di preparare il terreno a un accomodamento diventa sempre più visibile. Lo stesso discorso sull’ingresso dell’Ucraina nella Nato sembra rallentare vistosamente anche con gli accordi di difesa bilaterali che Kiev sta firmando o negoziando con i partner dell’Alleanza atlantica (dalla Gran Bretagna alla Germania all’Italia). L’estate con il vertice a luglio della Nato a Washington porterà ulteriori consigli.

Del resto l’ex Capo di stato maggiore Usa Mark Milley in questi due anni è stato chiaro più di un volta: “Questa guerra non la vincerà davvero nessuno dei due e finirà al tavolo di un negoziato”. Il Piano B c’era già

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Per Gaetano Azzariti occorre dare vita a una coalizione sociale e culturale per attuare la rivoluzione pacifica scritta nella Costituzione

Premierato e autonomia differenziata sono lo scambio politico tra partiti della maggioranza a cui, per rimanere ai patti, si dovrebbe aggiungere la separazione delle carriere dei magistrati. Per il costituzionalista Gaetano Azzariti, se dovesse passare questo disegno sarà la fine dello spirito costituzionale – unitario e non di parte – che nel 1948 portò all’approvazione della Carta. La logica sottesa è quella della verticalizzazione e della democrazia del capo al posto della democrazia della partecipazione e della rappresentanza. Una vera regressione da contrastare dando vita a una coalizione sociale e culturale per attuare i princìpi costituzionali.

In Parlamento sono state apportate alcune piccole modifiche al testo originario della riforma sul premierato. Si tratta di un miglioramento?

In realtà non mi sembra si sia granché cercato di migliorare il testo. Si è soltanto provato a raggiungere un accordo politico tra Meloni e Salvini. Un’attenzione agli equilibri tra le attuali forze politiche di maggioranza del tutto estranea alla dimensione costituzionale che dovrebbe porsi a fondamento di una proposta di riforma. È questo, a mio parere, il difetto maggiore di tutto il dibattito sulle riforme costituzionali e sul premierato in particolare. Basta pensare alla questione del secondo premier posta solo per dare ascolto ad una richiesta di riequilibrio della Lega. Insomma, c’è da chiedersi se le riforme costituzionali si fanno per seguire le ubbie di una parte politica o per risolvere i problemi di fondo della democrazia italiana.

Leggendo il testo del governo si ha la sensazione che si voglia, attraverso quella riforma costituzionale ma anche attraverso una serie di leggi ordinarie, superare la Costituzione uscita dalla resistenza.

È esattamente questo il punto. È evidente che c'è una retorica che prova a tranquillizzarci, quella in base alla quale, in fondo, questa riforma tocca soltanto quattro articoli della Carta. Non si modificano – si dice – i poteri del nostro “amato” capo dello Stato né si riducono quelli del nostro “malandato” Parlamento. La verità è completamente diversa: non solo si squilibrano tutti i poteri, ma si nasconde la vera posta in gioco, che è il tentativo di passare dalla democrazia pluralista a una democrazia del capo. È questo il discrimine che rende sostanzialmente inaccettabile il disegno di legge sul premierato, nonostante i tentativi di ridurne la portata. È, lo ripeto, l’elezione di un capo che porta a sbilanciare radicalmente il già precario equilibrio del nostro sistema democratico.

Debolezza del sistema democratico?

Si, abbiamo da tempo un problema costituzionale a tutti noto ma che nessuno vuole realmente affrontare e che questa riforma vuole definitivamente affossare. Si tratta della debolezza del Parlamento. Una fragilità che spesso ha spinto il presidente della Repubblica a intervenire in supplenza, in quanto garante della Costituzione: un modo per porre rimedio proprio a questa debolezza. Una revisione consapevole della Costituzione, allora, dovrebbe anzitutto rafforzare il Parlamento e in tal modo, indirettamente, ristabilire i giusti rapporti con gli altri poteri, tanto il capo dello Stato quanto lo stesso Governo.

I fautori del premierato e non solo obbietterebbero “e la stabilità”?

È una questione apparente. Se si vuol dire che i governi durano poco e che 68 governi in 75 anni sono troppi è vero, ma riguarda anzitutto i partiti e la debolezza delle coalizioni. Tutte le crisi, di natura extraparlamentare, sono state, infatti, determinate dalla rottura tra i partiti che di volta in volta erano espressione delle diverse maggioranze. È sui partiti che bisognerebbe dunque intervenire. Non ha fondamento, invece, la richiesta di dare ulteriori poteri al governo. Il governo ha in realtà oggi troppi poteri, nel corso del tempo si è appropriato di spazi e competenze non suoi. Abusando dei poteri conferiti ad esso in via straordinaria domina il dibattito parlamentare. Se il Parlamento prova ad affermare un suo ruolo autonomo, quello che la Costituzione gli assegna, ecco che intervengono strumenti perversi per tacitarlo e riaffermare il potere supremo del governo: dai maxi emendamenti alle reiterate questioni di fiducia. Strumenti che tacitano la Camera e il Senato. Insomma, ripeto, i poteri del governo dovrebbero essere non aumentati ma ridotti, garantendo una maggiore autonomia del Parlamento.

Uno degli elementi di debolezza del Parlamento, a tuo giudizio, è la riduzione del numero dei parlamentari? Oramai il lavoro delle commissioni, ad esempio, è quasi paralizzato: deputati e senatori vanno solo quando si vota e quindi tutta l'attività di conoscenza e di stesura collettiva delle norme non c'è più.

Si, è così. Oggi il Parlamento ha rilevanti problemi di funzionamento, anche a causa del ridotto numero dei suoi membri, soprattutto al Senato. Alla riduzione si sarebbe dovuto dare seguito con una coerente e radicale revisione dei regolamenti parlamentari. Ora, invece, sostanzialmente invariata l’organizzazione dei lavori parlamentari, soprattutto i gruppi minori non hanno le forze e i numeri sufficienti per seguire i lavori di tutte le commissioni. È questo un grave vulnus alla rappresentanza plurale. Si tratta di un ulteriore tassello di quella strategia di riduzione della complessità democratica. Ma, preciso, non è tanto o soltanto un problema di riduzione dei parlamentari. È un problema che coinvolge, più in generale, la crisi dell’organo legislativo. Quella riduzione del suo ruolo costituzionale che ha origini non recenti e che un grande costituzionalista come Leopoldo Elia definiva “di fuga dal Parlamento”. Sarebbe ora di porre fine a questa fuga e, anziché rafforzare il potere della presidenza del Consiglio con l’introduzione dell’elezione del capo, far sì che il Parlamento riacquisti quelli che gli sono attribuiti dalla Costituzione, e oggi perduti.

Cosa si dovrebbe fare, allora?

Bisogna operare su altri piani rispetto a quelli in cui si sta indirizzando il dibattito politico. Innanzitutto, pensare ad una incisiva riforma dei partiti – legislativa, ma soprattutto politica e culturale – che sia in grado di ricondurre le forze politiche organizzate a svolgere quella funzione che l'articolo 49 della nostra Costituzione gli attribuisce, cioè di permettere ai cittadini di concorrere a determinare la politica nazionale. Per far ciò sarebbe necessario che i partiti riescano a riacquistare una loro effettiva capacità di rappresentanza sociale. Altro che “il giorno delle elezioni bisogna sapere chi ci governa”. Il giorno delle elezioni bisogna sapere chi ci rappresenta, non chi ci governa. Per questo bisogna intervenire sui partiti, ma anche sui sistemi elettorali che devono assicurare una rappresentanza effettiva e non artefatta dal mito della governabilità senza popolo.

È sufficiente?

Penso che sarebbe opportuno anche intervenire sull’organo della rappresentanza, affrontando il fatto che abbiamo formalmente un bicameralismo paritario, ma sostanzialmente un monocameralismo alternato. Molto si può fare cambiando i regolamenti parlamentari, ma se si vuole toccare la Costituzione la sfida che si potrebbe lanciare a chi cerca di portarci verso i lidi di una democrazia identitaria che riduce a nulla il Parlamento, potrebbe essere quella di dare vita a un sistema monocamerale eletto con la proporzionale. Per rilanciare il parlamentarismo e contrastare l’ideologia del capo.

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Spostiamo l'attenzione dal Parlamento alla Presidenza della Repubblica. Formalmente è vero che gli articoli della Costituzione che definiscono il suo ruolo non vengono toccati, ma è altrettanto vero che il ruolo e la funzione del Presidente della Repubblica non viene toccato?

Mi domando se una tale affermazione sia espressione più di disinvoltura o più di ignoranza. Il ruolo costituzionale del capo dello Stato è essenzialmente quello di intermediazione, egli interviene soprattutto nei momenti di crisi. Così, attualmente, quando gli esiti elettorali sono chiari il suo intervento è semplicemente quello di registrare il risultato. La nomina di Meloni è il frutto dell’esito elettorale. Ma il potere del Presidente si espande e diventa decisivo quanto l’esito non è certo (si pensi alla passata legislatura) o si apre la crisi. È in questi casi che diventa fondamentale il ruolo del garante della Costituzione che può – anzi deve – individuare un'altra figura in grado di ottenere la fiducia del Parlamento. Se si elegge direttamente il premier, al capo dello Stato si sottrae questo potere di intermediazione, non può che nominare l’eletto e dopo di lui quel che viene stabilito, peraltro in modo assai bizantino, dalla stessa Costituzione nell’ipotesi del secondo presidente. Questo dimostra come il potere di nomina del capo dello Stato sia stato non ridotto ma direttamente nullificato. E lo stesso vale per lo scioglimento del Parlamento.

Esiste coerenza tra la democrazia del capo e l’autonomia differenziata?

La coerenza è, ancora una volta, puramente politica, anzi partitica, priva di una dimensione propriamente costituzionale. Sono i partiti politici che si appropriano ciascuno per la loro parte di una fetta di Costituzione. Il programma di governo prevede infatti il premierato per Fratelli di Italia, l’autonomia differenziata per la Lega, senza scordare la separazione delle carriere dei magistrati per Forza Italia. Una Costituzione fatta a fette tra le forze di maggioranza, altro che la Costituzione di tutti. A proposito di “coerenza”, si può però indicare un secondo elemento che in questo caso unisce tutte le diverse forze di destra che compongono questo governo. È l’idea della verticalizzazione dei poteri. Tanto con l’autonomia differenziata quanto con il presidenzialismo (ora nella forma del premierato) si afferma la democrazia del capo. In ambito regionale a favore del presidenti di regione, nel secondo a favore del presidente del consiglio.

Cosa mettere in campo per contrastare tutto questo?

Occorre dare vita a una forte coalizione politica, ma forse soprattutto sociale e culturale, che affermi un'altra idea di democrazia. Pietro Calamandrei sosteneva che la nostra Costituzione non è mai stata realizzata. E allora, penso, bisogna mettere in campo una rivoluzione sociale, pacifica e democratica, che sia in grado di attuare i princìpi della Carta, a cominciare dalla centralità del Parlamento e dall'effettività della rappresentanza, guardando bene dentro gli slogan e le formule che ci vengono proposti. Se guardiamo dentro l'autonomia differenziata, scopriamo che ci sono i diritti, i nostri diritti, dall’istruzione, alla salute al lavoro. Ciò che dovremmo mettere in campo è una forte reattività sociale per garantire i diritti fondamentali e la democrazia costituzionale.

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IL CORPO DI NAVALNY. In un paese illiberale come la Russia, insomma, Navalny era capace di esercitare una limitata influenza. Eppure il Cremlino ha fatto di tutto affinché la sua vita si concludesse con un epilogo tragico

 Alexei Navalny a una manifestazione a Mosca nel 2019 - Getty Images

Almeno due cose della morte di Aleksej Navalny meritano di essere storicizzate con uno sguardo di più lungo periodo. La prima è la sproporzionalità degli strumenti repressivi usati dal regime di Putin rispetto alla pericolosità dei suoi avversari politici. È questo un tratto caratteristico del potere in Russia almeno dalla fine del XIX secolo.

Il tardo zarismo, infatti, creò un apposito sistema repressivo per una sparuta minoranza di militanti politici capaci di gesti eclatanti ma con scarsissimo seguito tra le masse. Lo stesso avvenne, con caratteri totalitari, durante il Grande terrore staliniano che rispose alla necessità di mobilitare l’intera società sovietica piuttosto che a quella di liquidare gli irrilevanti avversari, già sconfitti, interni al regime.

Anche l’élite putiniana riadatta queste logiche e pratiche politiche, perché proviene per buona parte dagli “ambienti della forza” e anagraficamente è cresciuta nel tardo socialismo brezneviano, ossessionato a sua volta da preoccupazioni securitarie.
Oggi il Cremlino colpisce i suoi oppositori o antagonisti con una ferocia sproporzionata rispetto ai reali pericoli. Si veda ad esempio la morte di Prigozhin, battuto nella sua battaglia contro Mosca e marginalizzato, ma non per questo risparmiato. Oppure Nadezhdin, deciso a candidarsi pur senza possibilità di vincere la sfida presidenziale e comunque obbligato a desistere.
Passiamo a Navalny. Egli era senz’altro l’oppositore di Putin più famoso in Occidente, pur tuttavia è complesso ritenerlo leader unico di un’opposizione frammentata, esule e spesso litigiosa.

Pure durante le manifestazioni del 2011-12, era stato uno dei protagonisti di quei giorni ma non l’unico, e non necessariamente quello riconosciuto da una piazza eterogenea come il “federatore”. In un paese illiberale come la Russia, insomma, Navalny era capace di esercitare una limitata influenza. Eppure il Cremlino ha fatto di tutto affinché la sua vita si concludesse con un epilogo tragico e nel più breve tempo possibile, prima avvelenandolo e poi destinandolo a una durissima detenzione. La seconda questione, che deriva dalla prima, è la mistica politico-religiosa propria del martirio scelto, o subito, dagli oppositori politici russi.

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Dal XIX secolo, a parte qualche breve intermezzo, in Russia la lotta politica non è avvenuta secondo canoni riconducibili a paesi democratici. Come il suo precedente tardo-zarista e sovietico (fatta eccezione per gli ultimi anni della perestrojka), anche il putinismo costringe i dissidenti a esprimersi tramite eclatanti gesti individuali.

Di fronte a un vertice che chiude tutti gli spazi pubblici in nome della sacra inviolabilità del potere, i suoi oppositori non possono far altro che utilizzare la stessa retorica religiosa ed ergersi a redentori o martiri della “vera Russia”. Sono gesti disperati di una opposizione disperata, che non hanno alcuna reale possibilità di cambiare nell’immediato la situazione. Il martirio di Navalny non può tradursi in una qualche mobilitazione di massa capace di far perdere le elezioni presidenziali a Putin, perché avviene in un contesto in cui il potere non è contendibile.  Non di meno oggi Navalny è diventato un potente simbolo contro il putinismo e la sua morte ha scosso le coscienze, proprio grazie alla retorica “religiosa” che domina da secoli la politica russa.

Accettando il suo calvario egli ha opposto al regime il proprio corpo, ed è proprio quest’ultimo a testimoniare la forza della sua battaglia politica di fronte alla società russa. Non è un caso, infatti, che il suo cadavere venga accuratamente occultato in queste ore dalle autorità: se dovesse trovare una degna sepoltura quel luogo potrebbe diventare il simbolo della lotta contro Putin. È in questo senso che il martirio di Navalny ha acquisito una valenza simbolica politico-religiosa accessibile a milioni di russi abituati ad una grammatica politica intrisa di misticismo. È un santo, ripetono molti esponenti dell’opposizione proprio per arrivare con un messaggio semplice ai tanti russi stanchi della cappa autoritaria imposta dal regime, russi non necessariamente d’accordo con tutte le posizioni politiche di Navalny.

Da esponente di spicco di una sparuta minoranza e dalle non limpide referenze democratiche, oggi Navalny è diventato un martire del potere nonché uno dei tanti personaggi sacralizzati dalla dissidenza russa; come tale può essere usato da chiunque desideri una Russia senza Putin.

* storico (autore di “Nella Russia di Putin”, Carocci, 2023)

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Il voto di oggi con l’adozione del Patto sulla migrazione in LIBE, dopo quasi quattro anni di intenso lavoro legislativo è la conclusione di un negoziato complesso, reso ancora più difficile dalla maggioranza degli Stati membri a guida conservatrice che siedono in Consiglio, e da una compagine del Parlamento europeo che non vede le forze progressiste avere una maggioranza tale da riequilibrare le posizioni di chiusura e repressive degli Stati membri.
Le rassicurazioni della Commissione sul futuro utilizzo dei fondi che saranno sottoposti ad un attento scrutinio mi hanno indotto ad appoggiare solamente il negoziato finale sul regolamento della gestione di asilo e migrazione (RAMM) ma ho votato contro gli altri quattro regolamenti in accordo con il mio partito e con associazioni e organizzazioni che lavorano sui temi della migrazione e dell’accoglienza.
Non ho potuto associare il mio nome accanto a proposte che sistematicamente contengono deroghe a norme internazionali come la creazione di centri di detenzione alle frontiere destinati a rinchiudere famiglie con minori.
Trovo inumano il rilevamento dei dati biometrici di tutti i bambini di età superiore ai 6 anni, trovo impraticabile la definizione di finzione giuridica del non ingresso in uno Stato membro e sono contrario all’inclusione del concetto di #strumentalizzazione che inevitabilmente porterà ad una #deregolamentazione del sistema di asilo.
Non è questo il sistema che volevamo. E, soprattutto, non è questa la risposta adeguata a chi cerca protezione in Europa.
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LE POLITICHE UE. Sorprende che le proteste dei trattori, che bloccano le strade, siano giustificate, mentre i lavoratori di Cgil e Uil sono stati precettati

Sotto i trattori non deve finire la svolta green La protesta dei trattori a Bruxelles - Ap

Le proteste dei trattori di questi giorni sono un giustificato grido d’allarme per un settore in difficoltà, sia per motivi strutturali che congiunturali. Le produzioni agricole di qualità devono essere maggiormente tutelate, così come le lavoratrici e i lavoratori dei campi, spesso sfruttati. L’attuale modello di produzione è insostenibile dal punto di vista etico e ambientale, ma anche da quello prettamente economico, e le proteste lo confermano.

Ma mantenere uno status quo, che permetta alle aziende agricole di sopravvivere nel breve periodo, non è la risposta adeguata a questa fase di transizione climatico-ambientale che ci pone davanti al rischio concreto di una crisi irreversibile. E questo non può essere terreno di campagna elettorale. Sul punto, sorprende che le proteste dei trattori, che bloccano le strade, siano in qualche modo giustificate, mentre pochi mesi fa i lavoratori di Cgil e Uil che esercitavano il loro diritto di sciopero siano stati subito precettati.

L’approccio iperliberista e la deregolamentazione dei mercati hanno fatto sì che il valore della produzione agricola sia rimasto schiacciato nella dinamica della filiera, così come delle fluttuazioni delle commodities e delle ormai consuete speculazioni sulle materie prime (futures e simili) che andrebbero vietate sui beni alimentari a livello internazionale.

Tali dinamiche sono aumentate dopo lo scoppio delle guerre e delle tensioni internazionali e sono ricadute pesantemente sulle medie-piccole imprese alle quali arrivano sempre meno aiuti dalla Pac, Politica agricola comune. Peraltro non va sottovalutata la dimensione di chi ha individuato, nello sfruttamento indiscriminato del suolo e degli stessi lavoratori, tramite i caporali, la risposta per mantenere alti i propri profitti generando una competizione sleale tra le imprese e alimentando un sistema in cui l’irregolarità è troppo spesso diventata la norma.

L’obiettivo è quello di intervenire in maniera strutturale sul sistema produttivo agricolo, valorizzando il carattere multifunzionale del settore così come le competenze professionali e la qualità del lavoro. Dobbiamo investire in conoscenza e ricerca, e ricomporre il valore della filiera in maniera da dare il giusto peso economico alla produzione. Oggi le imprese agricole sono schiacciate a monte dai costi di sementi, concimi, pesticidi e altro, e a valle dai prezzi fatti dall’industria di trasformazione e, soprattutto, dalla Grande distribuzione organizzata.

Senza il recupero del ruolo e del valore dell’azienda agricola, la produzione continuerà a essere il classico vaso di coccio in mezzo ai vasi di ferro. Per questo appare necessario favorire, da un lato, la capacità di costituirsi in consorzi per avere maggiore forza contrattuale all’interno della filiera, dall’altro sostenendo l’unicità del prodotto agricolo mediante la valorizzazione delle strategie basate sulla qualità, sulla biodiversità e sul rispetto del lavoro (cibo buono e giusto).

Ciò significa rilanciare il protagonismo del territorio puntando sui modelli organizzativi distrettuali, sia per valorizzare know how, competenze, cultura e tradizione alimentare, sia per potenziare l’offerta di servizi ecosistemici che viene garantita dalle aree rurali, contrastando lo spopolamento delle aree interne. Garantire, anche indirizzando politiche e conseguenti finanziamenti della Pac, una distribuzione equa delle risorse e delle opportunità nel settore agricolo, privilegiando il lavoro invece che gli ettari, e sostenendo l’economia circolare attraverso la messa in opera di sistemi di produzione non più intensivi e specializzati, bensì maggiormente rispondenti ai cicli naturali e a un concetto di produzione agroecologica. Occorre inoltre rendere effettiva in Ue la piena attuazione della condizionalità sociale che, dopo importanti battaglie sindacali, è stata finalmente inserita nella nuova Pac.

*Segretario generale Flai Cgil

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TORNIAMO A BOMBA. L’Europa si scopre a vocazione atomica dietro l’obiettivo del «raddoppio»: spesa per la Difesa europea più spesa per l’Allenza atlantica. Dal welfare al warfare

Stranamore è tornato. E non è un film

 

Avete presente lo straordinario, distopico film di Stanley Kubrick “Il dottor Stranamore”? Ora, senza esagerare, ci siamo dentro, facciamo parte della scenografia di luci accese sulle capitali europee e sui punti di lancio dei missili, della sceneggiatura, ne siamo gli attori non protagonisti; temiamo solo la stessa conclusione tragicomica.

Parliamo della deriva militarista dell’intera Europa che ora si ammanta di una generale vocazione atomica, con l’inedita situazione – la Francia ha già la force de frappe e la Gran Bretagna ormai extra Unione è dotata di armamento nucleare – che vede la Germania con il ministro delle finanze Lindner e ora anche i militari della Polonia, interrogarsi sulla necessità concreta del deterrente nucleare.

È bastato che Donald Trump reiterando la sua posizione americano-isolazionista abbia lanciato in piena campagna per le
elezioni presidenziali negli Stati uniti la sua provocazione: «Dirò a Putin di attaccare i paesi europei che non spendono per
la loro difesa», che è stato uno scatenarsi di reazioni governative tutte pronte a dimostrare invece l’adeguatezza armata del Vecchio continente con annessa rincorsa a chi più armi ha più ne metta. Con l’obiettivo dichiarato del «raddoppio»: vale a dire spesa per la Difesa europea più spesa per l’Alleanza atlantica.

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Insomma dal welfare al warfare. Tenendo conto del fatto che in 9 anni, dal 2014, gli Stati europei più il Canada hanno aumentato di ben 600 miliardi il loro bilanci militari e che nel 2024 la maggior parte dei Paesi della Nato impegnerà per la difesa almeno il 2% (con paesi «virtuosi» come la Polonia che è già al 4% e la Germania del cancelliere Scholz che ha già impegnato 100 miliardi per la difesa). Senza dimenticare la decisione Ue di prelevare fondi addirittura dal Pnrr per rifornire di armi una guerra, quella ucraina.

Mirabile come al solito il segretario dell’Alleanza atlantica Stoltenberg che prima ha dato ragione a Trump, «le critiche riguardano i membri alleati che non spendono abbastanza», per poi dichiarare che nel suo insieme «mai la Nato ha speso tanto». Ed è vero, siamo infatti nell’agenda di Trump – sia che venga eletto che non – perché l’Unione europea ha già deciso ben 41 miliardi di aiuti militari all’Ucraina proprio temendo l’avvento alla presidenza dell’isolazionista tycoon. A rincarare la dose la notizia, sempre dagli Usa, che il presidente della commissione intelligence della Camera, il repubblicano Mike Turner ha chiesto al presidente Joe Biden di rendere pubblica «una grave minaccia alla sicurezza nazionale». Cnn e Reuters parlano di top secret e di non meglio precisate «armi spaziali russe».

Un escamotage, probabilmente, per risolvere il nodo delle necessarie votazioni bipartisan per l’invio di decine e decine di miliardi in nuovi armamenti anche all’Ucraina – Turner fa parte del fronte repubblicano favorevole; ma anche l’evidenza di un problema a quanto pare reale. Che in questa dinamica di precipitazione verso la guerra, rivela plausibilmente come la deterrenza nucleare di una potenza atomica come la Russia – che per altro smentisce – stia evolvendo a dotazioni di testate spaziali, oltre l’«ordinario» di quelle terrestri e navali. Insomma, dal ventilato scudo spaziale di Reagan alle ogive in orbita planetaria putiniane.

Va da sé che tutto diventa più realistico se si tiene conto del fatto che c’è un conflitto armato in Europa che vede contrapposto un paese che le atomiche ce le ha, la Russia, all’Ucraina che non ce le ha, e che nonostante lo stesso presidente Usa dica di no, vuole ancora entrare nella Nato, alleanza militare di fatto sempre più coinvolta in questa guerra direttamente con intelligence e forniture belliche; e che – questo lo dimenticano tutti – dipende militarmente dagli Stati uniti che già dispongono in Europa di almeno un centinaio di bombe atomiche sparse dall’Italia, al Belgio, alla Germania.

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Chi scrive è convinto del contrario: se la pace e il futuro sono minacciati, proprio in presenza di una guerra feroce di trincea ormai portata anche sul suolo russo, l’unica possibilità è riavvolgere il nastro dei dieci anni di conflitto – da Maidan 2014, Crimea, guerra civile per il Donbass – e dei due dall’aggressione di Putin del 24 febbraio 2022 – per trovare termini di trattativa e non più l’impossibile «vittoria», come dimostrano questi due anni di massacro, per Kiev e per Mosca. Altrimenti?

Altrimenti diventa inevitabile la prospettiva di un confronto atomico in Europa – impari di fronte alle migliaia di testate russe operative rispetto alle centinaia di Francia e Gran Bretagna, ma a quel punto, a Trattati internazionali stracciati – e siamo a buon punto – perché escludere le migliaia di testate statunitensi? O come ha proposto un ministro israeliano del governo Netanyahu, la soluzione atomica anche per i palestinesi di Gaza? Ma così fan tutti.

E la parola d’ordine sulla bocca dei leader europei sembra essere: «Prepara la guerra» – ma di che elezioni europee stiamo parlando, di quelle del Day After? Stranamore è tornato. E non è un film

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