SINISTRA. Intervista a Nicola Fratoianni, deputato e segretario di Sinistra Italiana
Dopo anni di rotture e tentativi di ricomposizione Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana, disegna un cambio di atteggiamento: «Si tratta di assumere una discontinuità – dice – Occorre indicare proposte, nuove parole, inventare strumenti invece che operare, come molte volte abbiamo fatto, sul terreno della somma di ciò che c’era prima».
Superare le divisioni non è più una priorità?
Ricucire gli strappi e creare convergenze è sempre importante. Ma l’obiettivo non deve essere ricostruire ciò che c’era e che poi si è rotto, se ti dai quel compito fallisci. La ricostruzione di una proposta politica passa per la capacità di lavorare a uno spazio adatto al quadro che abbiamo di fronte.
Di questo parlerete al congresso di Si a Perugia, dal 24 al 26 novembre?
È uno dei temi. Proveremo a misurarci sulla guerra come rottura di un modello di governance globale, che impedisce di organizzare il proprio punto di vista e che impone l’arruolamento. Intanto il capitalismo schiaccia il pianeta. Con le opposizioni dobbiamo essere in grado di suggerire l’alternativa, per noi questa è l’urgenza, l’orizzonte che ci poniamo per i prossimi mesi.
A partire da quello che avete definito un principio di realtà: contribuire a una coalizione in grado di battere la destra.
Il rapporto col voto deve misurarsi con la realtà. Finché c’è questa destra al governo, sottrarsi alla responsabilità di contribuire all’alternativa è improponibile. Non siamo legati per decreto a uno schema rigido di alleanze anche su scala locale, ma la ricerca della convergenza rappresenta il minimo necessario. Non è un caso che la destra abbia mostrato di faticare quando le opposizioni hanno costruito attorno al salario minimo legale un’iniziativa comune. Ha funzionato per due motivi. Perché era giusta, efficace e semplice da comunicare. E per la sua natura unitaria, ha fatto intravedere un’alternativa praticabile.
La guerra è uno dei fattori di ridefinizione del quadro politico europeo, anche a sinistra?
La guerra ha una dimensione sempre generale. È un dramma per le popolazioni che la subiscono, sposta a destra il quadro e rilancia i nazionalismi, nega le politiche orientate alla transizione ecologica, riduce gli spazi di organizzazione e quindi influisce sui rapporti di forza e su come ci si organizza. Per questo la pace sta al centro della politica, anche quando non si parla direttamente di Ucraina o di Gaza.
Le elezioni europee saranno cruciali, in questo senso…
Pongono una questione rilevante: la possibilità di fare dell’Europa un punto di riferimento della riconversione ecologica, della giustizia sociale, del welfare, di un’idea del mondo orientata alla diplomazia piuttosto che alla guerra come strumento di prosecuzione della politica con altri mezzi. Abbiamo assistito all’implosione dell’ordine mondiale, alla crescita esponenziale dei conflitti e al ritorno di vocazioni imperiali. In questo quadro, l’Ue deve praticare la sua autonomia sulla scena globale. È una condizione necessaria per stare al livello delle contraddizioni che abbiamo avanti.
Meloni lancia la sua riforma per aggirare le difficoltà che incontra in Europa?
Le elezioni politiche spagnole hanno rappresentato una battuta di arresto per Meloni. L’onda di destra sembrava inarrestabile e lei stessa partecipando a quella campagna elettorale aveva annunciato il primo tassello della modifica del rapporti forza europei. Tuttavia io non considero quasi mai le scelte di questa destra come operazione di distrazione di massa. Fanno parte di un impianto ideologico con il quale dobbiamo fare i conti. Dalla parte delle forze alternative alla destra, negli anni scorsi l’ideologia era stata considerata superata, un fardello del passato. E invece a destra hanno lavorato proprio sull’ideologia: una parte della loro forza egemonica sta lì. Alla crisi della globalizzazione la destra ha risposto con cose semplici che sembrano offrire qualche appiglio, come Dio-patria-famiglia. Modelli che danno l’illusione di rendere riconoscibile la catena di comando. L’impianto autoritario del premierato va in questa direzione, aderisce a questo impianto culturale
Commenta (0 Commenti)Voglio essere chiaro. Continuare a fornire armamenti a Israele da parte degli Stati Uniti e dei Paesi dell’Unione europea costituisce un esplicito sostegno all’indiscriminata e criminale operazione militare “Spade di […]
Un edificio distrutto da un attacco israeliano a Deir al-Balah, nella Striscia di Gaza - Getty Images
Voglio essere chiaro. Continuare a fornire armamenti a Israele da parte degli Stati Uniti e dei Paesi dell’Unione europea costituisce un esplicito sostegno all’indiscriminata e criminale operazione militare “Spade di ferro” condotta dalle forze armate israeliane nella Striscia di Gaza. Come evidenziano diverse associazioni per i diritti umani, a fronte delle gravi violazioni del diritto internazionale e delle leggi di guerra, continuare ad inviare materiali militari a Israele rischia di rendere i Paesi fornitori complici di questi abusi contribuendone consapevolmente e in modo significativo. Questo è inaccettabile per i Paesi dell’Unione sia ai sensi delle normative nazionali, degli impegni assunti in sede comunitaria in materia di controllo delle esportazioni di armamenti, sia soprattutto delle norme del “Trattato internazionale sul commercio di armi” che è stato ratificato dai principali Paesi dell’Unione nell’aprile del 2014 ed è entrato in vigore il 24 dicembre dello stesso anno. Le istituzioni europee hanno pertanto il dovere non solo di richiamare lo Stato di Israele al rispetto delle Convenzioni internazionali, ma di sospendere, se non revocare, le forniture di armamenti e sistemi militari.
La posizione dell’Unione europea
Finora, invece l’Unione europea si è limitata ad esprimere posizioni di principio senza assumere alcuna iniziativa nei confronti dello Stato di Israele. Lo scorso 15 ottobre, il Consiglio europeo con una dichiarazione ha condannato “con la massima fermezza” Hamas per i suoi attacchi terroristici brutali e indiscriminati in Israele ed ha sottolineato con forza il diritto di Israele di difendersi “in linea con il diritto umanitario e internazionale”. La posizione è stata ribadita nelle Conclusioni del Consiglio del 26 ottobre scorso solo aggiungendo “l’importanza di garantire, in ogni momento, la protezione di tutti i civili in linea con il diritto internazionale umanitario” e deplorando “ogni perdita di vita umana tra la popolazione civile”.
Il Parlamento europeo con la Risoluzione P9_TA(2023)0373 (Gli spregevoli attacchi terroristici di Hamas contro Israele, il diritto di Israele di difendersi in linea con il diritto umanitario e internazionale e la situazione umanitaria a Gaza”) approvata giovedì 19 ottobre con 500 voti a favore, 21 contrari e 24 astensioni, ha condannato “con la massima fermezza gli spregevoli attacchi terroristici del gruppo terroristico Hamas contro Israele” e ha riconosciuto “il diritto di Israele all’autodifesa, quale sancito e limitato dal diritto internazionale” evidenziando che “le azioni di Israele devono pertanto rispettare rigorosamente il diritto internazionale umanitario”. Ma, anche in questo caso, nessuna presa di posizione riguardo all’operazione militare israeliana nella Striscia di Gaza.
Le violazioni di Hamas e di Israele
Sin dai primi giorni dell’operazione “Spade di ferro, in risposta all’attacco terroristico di Hamas e di altri gruppi armati palestinesi del 7 ottobre in Israele, gli Esperti indipendenti delle Nazioni Unite, dopo aver condannato inequivocabilmente la violenza mortale di Hamas contro i civili in Israele, hanno denunciato gli attacchi violenti di Israele contro i civili palestinesi a Gaza. “Ciò equivale a una punizione collettiva”, scrivono gli esperti. “Non vi è alcuna giustificazione per la violenza che prende di mira indiscriminatamente civili innocenti, sia da parte di Hamas che delle forze israeliane. E’ assolutamente proibito dal diritto internazionale e costituisce un crimine di guerra”.
Anche Amnesty International, in uno specifico rapporto titolato “Schiaccianti prove di crimini di guerra a Gaza” ha documentato “attacchi illegali israeliani – compresi attacchi indiscriminati – che hanno causato massicce perdite civili e che devono essere indagati come crimini di guerra”. “È fondamentale – ha commentato Agnés Callamard, segretaria generale di Amnesty International – che l’Ufficio del procuratore della Corte penale internazionale velocizzi urgentemente le indagini sulle prove di crimini di guerra e di altri crimini di diritto internazionale commessi da tutte le parti in conflitto”. Nel chiedere alle forze militari israeliane di porre immediatamente fine agli attacchi illegali Amnesty ha invitato gli alleati di Israele a “imporre immediatamente un embargo sulle armi, date le gravi violazioni del diritto umanitario in corso”.
Nei giorni scorsi, anche l’associazione Human Rights Watch dopo aver evidenziato che “i gruppi armati israeliani e palestinesi hanno commesso gravi abusi, equivalenti a crimini di guerra” ha chiesto agli alleati di Israele e ai sostenitori dei gruppi armati palestinesi di sospendere il trasferimento di armi alle parti in guerra in Israele e Gaza. “Fornire armi che consapevolmente e in modo significativo contribuirebbero ad attacchi illegali può rendere coloro che le forniscono complici di crimini di guerra”, riporta Human Rights Watch.
Le normative sul commercio di armi
Le normative parlano chiaro ed è bene citarle in modo preciso. Per quanto riguarda l’Italia, la normativa nazionale – la legge n. 185 del 1990 “Nuove norme sul controllo dell’esportazione, importazione e transito dei materiali di armamento” – vieta esplicitamente l’esportazione di materiale di armamento “verso Paesi la cui politica contrasti con i principi dell’articolo 11 della Costituzione” (Art. 1.6 b) e “verso i Paesi i cui governi sono responsabili di gravi violazioni delle convenzioni internazionali in materia di diritti umani, accertate dai competenti organi delle Nazioni Unite, dell’UE o del Consiglio d’Europa” (Art, 1.6 d).
A livello europeo, la “Posizione Comune 2008/944/PESC del Consiglio” dell’8 dicembre 2008 che ha definito “Norme comuni per il controllo delle esportazioni di tecnologia e attrezzature militari” stabilisce che gli Stati Membri “rifiutano le licenze di esportazione qualora esista un rischio evidente che la tecnologia o le attrezzature militari da esportare possono essere utilizzate per commettere gravi violazioni del diritto umanitario internazionale” (Art. 2.2 c). E, in aggiunta, la Decisione (PESC) 2019/1560 del Consiglio del 16 settembre 2019 prevede che “Qualora emergano nuove informazioni pertinenti, ciascuno Stato membro è incoraggiato a riesaminare le licenze d’esportazione riguardanti i prodotti di cui all’elenco comune delle attrezzature militari dell’UE dopo la loro concessione”.
Ancor più esplicito è il “Trattato internazionale sul commercio di armi” (Arms Trade Treaty), ratificato dall’Italia nel 2014 dopo il voto unanime di Camera e Senato: stabilisce non solo il divieto ad esportare materiali militari a Paesi sottoposti a misure di embargo internazionale (Art. 6) ma prevede anche di valutare se le armi convenzionali o gli oggetti militari “possono contribuire a minacciare la pace e la sicurezza; possono essere utilizzati per commettere o agevolare una grave violazione del diritto internazionale umanitario e commettere o agevolare una grave violazione del diritto internazionale dei diritti umani”. “Se, dopo aver condotto tale valutazione e aver esaminato eventuali misure di mitigazione, lo Stato Parte esportatore ritiene che vi sia un forte rischio di ricadere in una delle conseguenze negative previste, lo Stato Parte esportatore non autorizzerà l’esportazione”, conclude il Trattato (Art. 7).
Le armi europee a Israele
Israele è una delle maggiori potenze militari del mondo: con una spesa militare di oltre 23 miliardi di dollari all’anno (all’incirca il 5 percento del proprio Prodotto interno lordo) secondo il SIPRI nel 2022 ricopriva la quindicesima posizione mondiale. Israele è anche uno dei principali Paesi esportatori di armamenti: nell’ultimo quinquennio con oltre 3,2 miliardi di dollari di esportazioni militari occupa la decima posizione nel commercio mondiale di armamenti, riporta sempre il SIPRI. Il principale fornitore di sistemi militari a Israele sono gli Stati Uniti, ma i Paesi dell’Unione europea, nel loro insieme, costituiscono il secondo fornitore mondiale: i rapporti ufficiali europei certificano che dal 2001 al 2020 i Paesi dell’Unione hanno autorizzato esportazioni di sistemi militari a Israele per oltre 7,7 miliardi di euro, con oltre 636 milioni nel 2020. Tra gli armamenti esportati nel suddetto ventennio figurano soprattutto navi da guerra (1,6 miliardi), aerei da combattimento (1,2 miliardi), carri armati e veicoli terrestri (1 miliardo) e apparecchiature elettroniche (oltre 520 milioni di euro). Sempre nel ventennio dal 2001 al 2020 i maggiori fornitori europei di armamenti a Israele sono stati la Germania (3 miliardi di euro), la Francia (2,6 miliardi), il Regno Unito (653 milioni) e l’Italia (578 milioni).
Le armi Italiane a Israele
Per tutto il periodo fino al 2012 l’Italia, pur avendo rapporti commerciali con Israele, ha mantenuto un atteggiamento estremamente cauto e restrittivo nelle forniture di armi e sistemi militari a Tel Aviv: le Relazioni ufficiali della Presidenza del Consiglio al Parlamento riportano tra il 1990 e il 2011 un ammontare complessivo di solo poco più di 11 milioni di euro. Un atteggiamento dettato non solo dalla politica estera italiana, ma anche in considerazione delle numerose risoluzioni dell’Assemblea Generale dell’Onu che, già dal 1975, hanno condannato “la continua occupazione dei territori arabi da parte di Israele in violazione della Carta delle Nazioni Unite e dei principi del diritto internazionale” e hanno chiesto a “tutti gli Stati di desistere dal fornire a Israele qualsiasi aiuto militare o economico fintanto che continua ad occupare territori arabi e nega i diritti nazionali inalienabili del popolo palestinese” (si veda la Risoluzione 3414 del 5 dicembre 1975, la risoluzione 31/61 del 9 dicembre 1976 e successive).
Tutto cambia con il governo Berlusconi che nel giugno del 2003 sigla a Parigi il “Memorandum d’intesa con Israele in materia di cooperazione nel settore militare e della difesa”, memorandum entrato in vigore l’8 giugno 2005 che prevede, tra l’altro, l’interscambio di materiali d’armamento tra i due Paesi. Il “salto di qualità” avviene però nell’aprile del 2012 quando, l’allora presidente del Consiglio, Mario Monti, in visita in Israele annunciò l’intenzione del governo di finalizzare al più presto il contratto per la fornitura all’Aeronautica militare israeliana di 30 velivoli d’addestramento M-346 prodotti dalla Alenia-Aermacchi e relativi simulatori di volo. Sono gli aerei e i simulatori su cui si sono esercitati i piloti dei caccia F-16 e F-35 che in questi giorni stanno bombardando Gaza.
Negli anni successivi le forniture di sistemi militari dall’Italia a Israele sono aumentate rispetto agli anni Novanta, ma non hanno segnato valori rilevanti fino al febbraio 2019, quando i ministeri della Difesa dei due Paesi hanno firmato un accordo per l’acquisto di sette di elicotteri AW119Kx d’addestramento avanzato della Agusta-Westland (gruppo Leonardo) per le forze aeree israeliane, del valore di 350 milioni di dollari, ancora una volta in cambio dell’acquisto da parte dell’Italia di un valore equivalente di tecnologia militare israeliana. Nel settembre del 2020 ne sono stati aggiunti altri cinque, per un totale di dodici elicotteri e due simulatori destinati alla Air Force Flight School.
Non solo. Come riporta il Bilancio d’esercizio della RWM Italia, l’anno scorso l’azienda ha firmato un”accordo strategico” con la società israeliana UVision Air Ldt “per la commercializzazione, produzione e sviluppo in esclusiva per l’Europa delle Loitering Munition. Si tratta di munizioni circuitanti, meglio conosciute come “droni kamikaze”, in cui la munizione è un drone armato che sorvola una zona, attendendo, in cerca dell’obiettivo, per poi attaccare solo una volta che quest’ultimo è stato localizzato.
Urgente un’azione del Parlamento
A fine ottobre Amnesty International Italia insieme alla Rete Italiana Pace e Disarmo hanno promosso una serie di manifestazioni che hanno visto un’ampia partecipazione in numerose città italiane. Con uno specifico appello hanno chiesto alle istituzioni azioni concrete per la pace in Palestina e Israele e al Governo italiano di “astenersi dal fornire armi a tutti gli attori del conflitto e chiedere agli altri Stati di fare altrettanto”. A fronte della carneficina in corso – più di 10mila morti tra cui oltre 4mila bambini nella Striscia di Gaza –è fondamentale che il Parlamento italiano si faccia portavoce di queste istanze e chieda al governo di sospendere tutte le forniture di armamenti a tutte le parti in conflitto, compreso Israele
Commenta (0 Commenti)
ISRAELE/PALESTINA. Vertice dei leader arabi e musulmani a Riyadh: condanna del doppio standard occidentale, ma nessuno rinuncia alle relazioni con Israele. A parole tutti credono ancora alla formula «due popoli due stati». Com’è possibile dopo il 7 ottobre? Con un ruolo forte degli Stati uniti e leadership nuove a Tel Aviv e Ramallah
L’arrivo del presidente iraniano Ebrahim Raisi a Riyadh - Ansa
Il vertice di Riad in contemporanea della Lega Araba e dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OIC) doveva dimostrare l’unità del mondo arabo-islamico di fronte al massacro di Gaza. Tutti uniti in effetti nel chiedere un cessate il fuoco immediato, dal palestinese Abu Mazen al principe saudita Mohammed bin Salman, dall’iraniano Ebrahim Raisi a Erdogan, ma da questo summit non è venuto nulla sul fronte del boicottaggio delle relazioni economiche con Israele, delle basi americane in Medio Oriente o di eventuali sanzioni in campo petrolifero ed energetico. La guerra per ora fa male soprattutto ai palestinesi di Gaza e della Cisgiordania.
Nella dichiarazione finale i leader del mondo arabo e musulmano chiedono l’embargo militare verso Israele, armi «usate per uccidere il popolo palestinese» e il prosieguo delle indagini della Corte penale internazionale sui crimini di guerra israeliani, anche attraverso la creazione di «due unità legali di monitoraggio».
DELUDENTE? Non si può definire così perché i vari leader sciiti e sunniti hanno pronunciato parole molto simili di condanna verso Israele, Stati uniti e Occidente in generale accusato di applicare il famigerato «doppio standard» sulla questione palestinese. Si conferma con l’incontro bilaterale di oggi tra il presidente iraniano Raisi e i vertici sauditi l’avvicinamento, avviato con la mediazione della Cina, tra Riad e Teheran a discapito dell’accordo in pectore tra Israele e monarchia wahabita.
Ma è evidente che l’Arabia saudita, storico alleato Usa, cammina sul filo del rasoio, così come molti stati del Golfo tra cui il Qatar che ospita e finanzia Hamas e allo stesso tempo il quartier generale americano in Medio Oriente. Un paradosso? Non tanto visto che proprio a Doha gli Stati uniti hanno firmato gli accordi che hanno restituito l’Afghanistan ai Talebani.
A parole, come avvenuto a Riad, tutti dimostrano ancora di credere alla formula «due popoli due stati». Ma come è possibile la pace di fronte a quello che stiamo vedendo dal 7 ottobre? Su Al Quds al Arabi, quotidiano fondato negli anni ’80 a Londra da rifugiati della Striscia di Gaza, è comparso in questi giorni un lungo articolo di Marwan Muasher ex ministro degli esteri che nel 1994, dopo il trattato di pace tra Amman e Tel Aviv, fu anche il primo ambasciatore giordano in Israele (poi anche negli Usa).
Muasher, di origini cristiane, si chiede quali fattori devono essere presenti per rendere credibile la soluzione due popoli due stati. Il primo fattore, scrive Muasher, è la disponibilità di una ferma volontà internazionale, guidata dagli Stati uniti, per avviare un percorso politico che definisca fin dall’inizio l’obiettivo finale del percorso, porre fine all’occupazione israeliana e creare uno stato palestinese indipendente su tutte le terre occupate da Israele nel 1967, inclusa Gerusalemme est, consentendo un equo scambio di terre e di confini.
Uno degli errori più gravi del processo di Oslo e di quelli successivi è stato non avere definito l’obiettivo finale. Il che ha spinto Israele a manovrare per avviare inconcludenti negoziati a tempo indeterminato inghiottendo più territori possibile.
GLI STATI UNITI devono anche mostrare, contrariamente a quanto fanno in questi giorni, la volontà e la capacità di esercitare una seria pressione su Israele – come chiesto ieri dai partecipanti al vertice di Riad – che da anni non accenna la minima intenzione di voler avviare un percorso politico con i palestinesi. Biden deve fare tutto questo nel bel mezzo di un’elezione presidenziale in cui i due partiti, democratico e repubblicano, competono per mostrare sostegno a Israele.
Quali sono le possibilità che gli Usa facciano a tutto questo? Muasher, un sorta di riformatore pessimista, non si sbilancia: «Lascio a voi giudicare», dice in questa intervista l’ex ministro attualmente vicepresidente del Carnegie Endowment for International Peace, think tank con base a Washington e uffici in quasi tutto il Medio Oriente.
Il secondo fattore necessario è un nuovo governo israeliano che abbia come obiettivo quello di porre fine all’occupazione e fondare uno stato palestinese. Il terzo fattore è un’autorità palestinese che emerga da nuove elezioni e sia in grado di parlare a nome dei palestinesi: è ormai chiaro che l’Anp nella sua forma attuale non può pretendere questo. Ma nessuno vuole le elezioni perché gli Stati uniti temono l’ascesa di Hamas, e anche Israele lo teme, ma allo stesso tempo lo auspica come giustificazione alla persistente riluttanza ad avviare negoziati seri per porre fine all’occupazione.
L’Autorità nazionale palestinese a sua volta è consapevole che nuove elezioni la rimuoverebbero dal potere. Abu Mazen e la sua amministrazione sono uno schermo utile per Israele e Usa a giustificare lo stallo e all’impotenza. Come scriveva recentemente l’ex premier palestinese Al Fayyad su Foreign Affairs un governo legittimo a Ramallah deve includere anche Hamas, altrimenti, dice, avremo centinaia di altri terroristi: lo afferma non un pericoloso estremista ma quello che fu un ex economista della Banca mondiale.
SE LA SOLUZIONE dei due stati è ancora teoricamente possibile, il suo rilancio da parte della comunità internazionale richiede condizioni che sembrano impossibili. Tuttavia, afferma Muasher, la stessa comunità internazionale deve rendersi conto che la sua incapacità di affrontare seriamente la fine del conflitto israelo-palestinese significa soltanto la continuazione del ciclo inarrestabile della violenza.
Una nuova realtà imposta dal 7 ottobre è stata la trasformazione del conflitto in uno scontro feroce contro uno stato israeliano a capo di un regime di apartheid. Questo è il risultato diretto del disprezzo della comunità internazionale per l’occupazione israeliana.
C’è poco da piangere, se non ipocritamente, sui massacri delle ultime settimane perché questo regime di apartheid è insostenibile per i palestinesi ma anche per gli israeliani. E per la stessa comunità internazionale che, sottolinea Muasher, mise sanzioni al Sudafrica ma è incapace di imporle a Israele perpetuando un doppio standard della giustizia internazionale che non è più accettabile. Per nessuno,
Commenta (0 Commenti)Intanto a Londra: Un corteo così grande non si vedeva dal 2003. Smentito il governo Tory che preannunciava violenze, 800mila persone manifestano pacificamente per il cessate il fuoco a Gaza con le insegne palestinesi. Che a Roma, alla manifestazione del Pd, vengono sequestrate
PAROLE E DIVIETI. A Londra sono scese in strada quasi un milione di persone e le bandiere della Palestina erano ovunque. Niente di lontanamente paragonabile è accaduto a Roma dove però il Pd da solo ha comunque riempito una piazza ed Elly Schlein ha trovato le parole giuste quasi su ogni argomento, persino sulla guerra di Israele a Gaza
La manifestazione pro-Palestina a Londra - Ansa/Andy Rain
«Non ci lasciamo qui», la promessa di Elly Schlein alla piazza del Pd è innanzitutto un augurio a se stessa. Davanti ai militanti del suo partito, la segretaria trova quel coraggio che troppo frequentemente dimentica quando torna tra i «capibastone» – definizione sua – del Pd. Ha fatto un buon discorso ieri in piazza del Popolo a Roma. Ha trovato le parole giuste quasi su ogni argomento, persino quello più urgente e che più lasciava presagire male, viste le prudenze e i divieti dei giorni scorsi: la guerra di Israele a Gaza. «La brutalità di Hamas», ha detto, «non giustifica le brutalità sui palestinesi, il massacro dei civili, le bombe che cadono sulle scuole, sugli ospedali e sui campi profughi». «La popolazione di Gaza», ha aggiunto, «già prima viveva in una condizione insostenibile, le loro sofferenze non valgono di meno. Hamas non rappresenta il popolo palestinese». Schlein ha anche ricordato come «la legittima aspirazione a uno stato palestinese» sia diventata «un miraggio a causa degli insediamenti dei coloni in Cisgiordania, persistente violazione del diritto internazionale».
Sono cose che da tempo dice l’Onu, a costo di prendersi l’accusa di antisemitismo. E che, andando avanti sempre più pesantemente la punizione collettiva di Netanyahu, cominciano a dire anche i più prudenti tra i capi di stato. Ma restano ancora parole difficili e rare nel partito di cui Schlein è segretaria. Non a caso nessuno dei tanti oratori che l’hanno preceduta ieri sul palco (con l’eccezione del presidente dell’Arci) ha chiesto a gran voce il cessate il fuoco come ha fatto lei. Nel frattempo però, mentre Schlein diceva quelle cose, nella piazza le bandiere della Palestina, quelle che esprimono «la legittima aspettativa» del suo popolo, non c’erano. Se sono apparse, appena tre o quattro, è stato solo per qualche minuto. Tirate immediatamente via dalle forze dell’ordine che hanno anche ammonito chi ci ha tentato non si sa in nome di quale legge. Bandiere considerate una minaccia all’ordine pubblico, perché il Pd, in quella piazza, non le voleva.
Schlein vince la prova di piazza: «Basta col governo Meloni»
Non fosse stato così, magari qualche militante del partito democratico l’avrebbe portato volentieri con sé quel vessillo che rappresenta i civili «le cui sofferenze non valgono meno». Magari l’avrebbe sventolato in alto, sentendo la segretaria dire che «niente può giustificare le brutalità che la Palestina sta subendo». Invece no e a noi resta così un’altra prova delle ambiguità del Pd. Che si incaglia in
Leggi tutto: La bandiera della Palestina - di Andrea Fabozzi
Commenta (0 Commenti)INTERVISTA. La vicepresidente Pd: bene che 5S e rossoverdi partecipino, è ora di costruire una vera alleanza. Schlein fa bene a condannare i massacri a Gaza, bisogna lavorare per la pace. In Piemonte c’è una destra aggressiva, con i 5S dobbiamo costruire insieme una proposta per la regione: spero che capiscano che siamo dalla stessa parte
Chiara Gribaudo, deputata, vicepresidente del Pd. Domani scendete in piazza a Roma. La piattaforma della manifestazione è molto ampia e variegata. Qual è il motivo principale per cui chiamate i vostri simpatizzanti in piazza del Popolo?
Per dire che vogliamo un paese diverso da quello che ci ritroviamo dopo un anno di governo Meloni. Sindacati e associazioni hanno già fatto sentire la loro voce, ora tocca a noi: l’opposizione deve uscire dai palazzi, vogliamo condividere la battaglia contro la manovra e contro i tagli alla sanità con la nostra comunità e con chi vuole darci una mano. Il Pd per cambiare ha bisogno di una intelligenza diffusa, c’è una larga parte di Italia che fa fatica, non solo i più deboli ma anche il ceto medio che è penalizzato dai tagli alla sanità e alla scuola. Il Pd ha fatto il suo percorso, ora è nelle condizioni di mandare messaggi chiari, di essere una forza realmente popolare capace di riannodare i fili con chi ha smesso di credere nella politica.
Con voi ci saranno anche M5S, Sinistra e Verdi. È l’embrione della tanto attesa coalizione?
Mi fa molto piacere che si uniscano a noi, le opposizioni sono più credibili quando sono unite. Spero che sia un ulteriore passo avanti verso la costruzione di una vera alleanza.
Il Piemonte, la sua regione, è l’unica di quelle al voto nel 2024 in cui non c’è ancora un’alleanza tra Pd e M5S. In Sardegna voi avete accettato una candidata 5S, Todde, ma la cortesia non è stata ricambiata.
Non ancora, ma per fortuna non si è fatta una questione di nomi ma di politica. Chiara Appendino alcune settimane fa ci ha proposto di parlare di idee e non di candidati. Io ci sto: la destra che governa la regione si sta muovendo contro il diritto all’aborto, sulle liste di attesa in sanità siamo in fondo alla classifica, sui trasporti siamo andati indietro. Io penso che sia la politica a dirci che dobbiamo stare uniti, prima degli accordi di partito. E non sarebbe nemmeno una novità, con il M5s siamo insieme all’opposizione da 5 anni, se quello che abbiamo visto non ci piace è nostra responsabilità comune costruire un progetto alternativo. Mancano solo 7 mesi al voto, e la destra è già in campagna elettorale. C’è da fare un lavoro lungo di ascolto e condivisione coi i piemontesi, ma è una partita che si può vincere.
I 5 stelle di Torino frenano, pesano le ruggini tra il sindaco di Torino Lo Russo e Appendino.
Anche nel Torinese ci sono realtà dove abbiamo costruito alleanze, di fronte a una destra così bisogna lasciare da parte divisioni del passato. Spero che la loro partecipazione alla nostra piazza possa dare un contributo a fare capire che siamo dalla stessa parte.
Uno dei temi della vostra piazza sarà la pace in Medio Oriente. Tra voi convivono sensibilità diverse sulla questione.
Tutto il Pd è unito nel chiedere la pace, a partire da un cessate il fuoco per ragioni umanitarie. Siamo per una soluzione che preveda due popoli e due stati.
Schlein ha alzato i toni nel condannare i massacri di civili a Gaza.
Ha fatto bene, come è stato giusto condannare subito la strage del 7 ottobre. A pagare il prezzo non possono essere civili inermi, soprattutto bambini. Usa, Ue e paesi arabi moderati devono lavorare per arrivare a una soluzione politica,
La segretaria ha chiesto di portare in piazza solo bandiere del Pd e della pace. Se qualcuno venisse con una bandiera palestinese sarebbe un problema?
Per me la bandiera del Pd rappresenta tutte le istanze, a partire da quella della pace. Siamo per la difesa del diritto di Israele a esistere e per la terra e la libertà dei palestinesi.
Vi siete schierati contro l’elezione diretta del premier proposta da Meloni, e anche questo sarò uno dei che scandirete in piazza. È un tema capace di scaldare la base?
Nel mondo progressista e di sinistra c’è una sensibilità sul tema dell’uomo solo al comando, ci sono ancora anticorpi diffusi, nonostante i tentativi della destra di riscrivere la storia. Se si parla di stravolgimento della Costituzione, di riduzione dei poteri del Quirinale, il nostro popolo è pronto a mobilitarsi
Commenta (0 Commenti)