Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *

ISRAELE/PALESTINA. Vertice dei leader arabi e musulmani a Riyadh: condanna del doppio standard occidentale, ma nessuno rinuncia alle relazioni con Israele. A parole tutti credono ancora alla formula «due popoli due stati». Com’è possibile dopo il 7 ottobre? Con un ruolo forte degli Stati uniti e leadership nuove a Tel Aviv e Ramallah

La «prudenza» araba: embargo sì, boicottaggio no L’arrivo del presidente iraniano Ebrahim Raisi a Riyadh - Ansa

Il vertice di Riad in contemporanea della Lega Araba e dell’Organizzazione per la Cooperazione Islamica (OIC) doveva dimostrare l’unità del mondo arabo-islamico di fronte al massacro di Gaza. Tutti uniti in effetti nel chiedere un cessate il fuoco immediato, dal palestinese Abu Mazen al principe saudita Mohammed bin Salman, dall’iraniano Ebrahim Raisi a Erdogan, ma da questo summit non è venuto nulla sul fronte del boicottaggio delle relazioni economiche con Israele, delle basi americane in Medio Oriente o di eventuali sanzioni in campo petrolifero ed energetico. La guerra per ora fa male soprattutto ai palestinesi di Gaza e della Cisgiordania.

Nella dichiarazione finale i leader del mondo arabo e musulmano chiedono l’embargo militare verso Israele, armi «usate per uccidere il popolo palestinese» e il prosieguo delle indagini della Corte penale internazionale sui crimini di guerra israeliani, anche attraverso la creazione di «due unità legali di monitoraggio».

DELUDENTE? Non si può definire così perché i vari leader sciiti e sunniti hanno pronunciato parole molto simili di condanna verso Israele, Stati uniti e Occidente in generale accusato di applicare il famigerato «doppio standard» sulla questione palestinese. Si conferma con l’incontro bilaterale di oggi tra il presidente iraniano Raisi e i vertici sauditi l’avvicinamento, avviato con la mediazione della Cina, tra Riad e Teheran a discapito dell’accordo in pectore tra Israele e monarchia wahabita.

Ma è evidente che l’Arabia saudita, storico alleato Usa, cammina sul filo del rasoio, così come molti stati del Golfo tra cui il Qatar che ospita e finanzia Hamas e allo stesso tempo il quartier generale americano in Medio Oriente. Un paradosso? Non tanto visto che proprio a Doha gli Stati uniti hanno firmato gli accordi che hanno restituito l’Afghanistan ai Talebani.

A parole, come avvenuto a Riad, tutti dimostrano ancora di credere alla formula «due popoli due stati». Ma come è possibile la pace di fronte a quello che stiamo vedendo dal 7 ottobre? Su Al Quds al Arabi, quotidiano fondato negli anni ’80 a Londra da rifugiati della Striscia di Gaza, è comparso in questi giorni un lungo articolo di Marwan Muasher ex ministro degli esteri che nel 1994, dopo il trattato di pace tra Amman e Tel Aviv, fu anche il primo ambasciatore giordano in Israele (poi anche negli Usa).

Muasher, di origini cristiane, si chiede quali fattori devono essere presenti per rendere credibile la soluzione due popoli due stati. Il primo fattore, scrive Muasher, è la disponibilità di una ferma volontà internazionale, guidata dagli Stati uniti, per avviare un percorso politico che definisca fin dall’inizio l’obiettivo finale del percorso, porre fine all’occupazione israeliana e creare uno stato palestinese indipendente su tutte le terre occupate da Israele nel 1967, inclusa Gerusalemme est, consentendo un equo scambio di terre e di confini.

Uno degli errori più gravi del processo di Oslo e di quelli successivi è stato non avere definito l’obiettivo finale. Il che ha spinto Israele a manovrare per avviare inconcludenti negoziati a tempo indeterminato inghiottendo più territori possibile.

GLI STATI UNITI devono anche mostrare, contrariamente a quanto fanno in questi giorni, la volontà e la capacità di esercitare una seria pressione su Israele – come chiesto ieri dai partecipanti al vertice di Riad – che da anni non accenna la minima intenzione di voler avviare un percorso politico con i palestinesi. Biden deve fare tutto questo nel bel mezzo di un’elezione presidenziale in cui i due partiti, democratico e repubblicano, competono per mostrare sostegno a Israele.

Quali sono le possibilità che gli Usa facciano a tutto questo? Muasher, un sorta di riformatore pessimista, non si sbilancia: «Lascio a voi giudicare», dice in questa intervista l’ex ministro attualmente vicepresidente del Carnegie Endowment for International Peace, think tank con base a Washington e uffici in quasi tutto il Medio Oriente.

Il secondo fattore necessario è un nuovo governo israeliano che abbia come obiettivo quello di porre fine all’occupazione e fondare uno stato palestinese. Il terzo fattore è un’autorità palestinese che emerga da nuove elezioni e sia in grado di parlare a nome dei palestinesi: è ormai chiaro che l’Anp nella sua forma attuale non può pretendere questo. Ma nessuno vuole le elezioni perché gli Stati uniti temono l’ascesa di Hamas, e anche Israele lo teme, ma allo stesso tempo lo auspica come giustificazione alla persistente riluttanza ad avviare negoziati seri per porre fine all’occupazione.

L’Autorità nazionale palestinese a sua volta è consapevole che nuove elezioni la rimuoverebbero dal potere. Abu Mazen e la sua amministrazione sono uno schermo utile per Israele e Usa a giustificare lo stallo e all’impotenza. Come scriveva recentemente l’ex premier palestinese Al Fayyad su Foreign Affairs un governo legittimo a Ramallah deve includere anche Hamas, altrimenti, dice, avremo centinaia di altri terroristi: lo afferma non un pericoloso estremista ma quello che fu un ex economista della Banca mondiale.

SE LA SOLUZIONE dei due stati è ancora teoricamente possibile, il suo rilancio da parte della comunità internazionale richiede condizioni che sembrano impossibili. Tuttavia, afferma Muasher, la stessa comunità internazionale deve rendersi conto che la sua incapacità di affrontare seriamente la fine del conflitto israelo-palestinese significa soltanto la continuazione del ciclo inarrestabile della violenza.

Una nuova realtà imposta dal 7 ottobre è stata la trasformazione del conflitto in uno scontro feroce contro uno stato israeliano a capo di un regime di apartheid. Questo è il risultato diretto del disprezzo della comunità internazionale per l’occupazione israeliana.

C’è poco da piangere, se non ipocritamente, sui massacri delle ultime settimane perché questo regime di apartheid è insostenibile per i palestinesi ma anche per gli israeliani. E per la stessa comunità internazionale che, sottolinea Muasher, mise sanzioni al Sudafrica ma è incapace di imporle a Israele perpetuando un doppio standard della giustizia internazionale che non è più accettabile. Per nessuno,

Commenta (0 Commenti)
Biografia Daniela Padoan – Associazione Laudato si'
Dopo aver affermato, nel suo videomessaggio sui social, di aver “raccolto la sensibilità della stragrande maggioranza degli italiani” presentando la riforma che consentirebbe l’elezione diretta del presidente del Consiglio, Giorgia Meloni si è rivolta nuovamente “agli italiani” con queste parole: “Voi cosa volete fare, volete contare e decidere, o stare a guardare mentre i partiti decidono per voi?”
 
 
Quasi che l’esistenza dei partiti – base della democrazia rappresentativa – implicasse per i cittadini uno statuto di minorità, una condizione di dipendenza e soggezione politica, forse un imbroglio. Ma Fratelli d’Italia è un partito di cui Giorgia Meloni è presidente e che ha contribuito a fondare, nato da Alleanza Nazionale, un partito nel quale ha militato fin da adolescente, originato a sua volta – nella matrioska squisitamente partitica che segna la biografia della Presidente del Consiglio – dal Movimento Sociale Italiano. Così come sono partiti quelli che formano la sua maggioranza. Inoltre alle elezioni politiche del settembre 2022 ha raccolto il 26 per cento dei voti espressi, dunque è ben lontana dall’avere la maggioranza dei cittadini.
 
“Voi cosa volete fare? Questa è la domanda che faremo se sarà necessario e quando sarà necessario”, ha concluso Meloni con lo stile comunicativo al quale ci stiamo abituando, fatto di postura virile, allusioni e sibilline minacce.
Paradossale che Meloni irrida il ruolo dei partiti spacciando come democrazia diretta un chiaro disegno plebiscitario, visto che il vero scopo di questa riforma è indebolire il ruolo del presidente della Repubblica, che viene ridotto a funzione sostanzialmente notarile, e quello – già fortemente umiliato dal ricorso continuo alla decretazione d’urgenza – del Parlamento.
 
Tuttavia i cittadini italiani, giunti al dunque, ogni volta che qualcuno ha provato a manomettere l’impianto della Costituzione repubblicana e antifascista hanno mostrato di avere ben chiara l’importanza dell’equilibrio dei poteri e la loro riluttanza ad affidarsi all’uomo o alla donna della provvidenza di turno.
Daniela Padoan
Commenta (0 Commenti)

Intanto a Londra: Un corteo così grande non si vedeva dal 2003. Smentito il governo Tory che preannunciava violenze, 800mila persone manifestano pacificamente per il cessate il fuoco a Gaza con le insegne palestinesi. Che a Roma, alla manifestazione del Pd, vengono sequestrate

PAROLE E DIVIETI. A Londra sono scese in strada quasi un milione di persone e le bandiere della Palestina erano ovunque. Niente di lontanamente paragonabile è accaduto a Roma dove però il Pd da solo ha comunque riempito una piazza ed Elly Schlein ha trovato le parole giuste quasi su ogni argomento, persino sulla guerra di Israele a Gaza

Centinaia di migliaia di manifestanti marciano a Londra in solidarietà con il popolo palestinese, chiedendo il cessate il fuoco foto di Wiktor Szymanowicz/Getty Images La manifestazione pro-Palestina a Londra - Ansa/Andy Rain

«Non ci lasciamo qui», la promessa di Elly Schlein alla piazza del Pd è innanzitutto un augurio a se stessa. Davanti ai militanti del suo partito, la segretaria trova quel coraggio che troppo frequentemente dimentica quando torna tra i «capibastone» – definizione sua – del Pd. Ha fatto un buon discorso ieri in piazza del Popolo a Roma. Ha trovato le parole giuste quasi su ogni argomento, persino quello più urgente e che più lasciava presagire male, viste le prudenze e i divieti dei giorni scorsi: la guerra di Israele a Gaza. «La brutalità di Hamas», ha detto, «non giustifica le brutalità sui palestinesi, il massacro dei civili, le bombe che cadono sulle scuole, sugli ospedali e sui campi profughi». «La popolazione di Gaza», ha aggiunto, «già prima viveva in una condizione insostenibile, le loro sofferenze non valgono di meno. Hamas non rappresenta il popolo palestinese». Schlein ha anche ricordato come «la legittima aspirazione a uno stato palestinese» sia diventata «un miraggio a causa degli insediamenti dei coloni in Cisgiordania, persistente violazione del diritto internazionale».

Sono cose che da tempo dice l’Onu, a costo di prendersi l’accusa di antisemitismo. E che, andando avanti sempre più pesantemente la punizione collettiva di Netanyahu, cominciano a dire anche i più prudenti tra i capi di stato. Ma restano ancora parole difficili e rare nel partito di cui Schlein è segretaria. Non a caso nessuno dei tanti oratori che l’hanno preceduta ieri sul palco (con l’eccezione del presidente dell’Arci) ha chiesto a gran voce il cessate il fuoco come ha fatto lei. Nel frattempo però, mentre Schlein diceva quelle cose, nella piazza le bandiere della Palestina, quelle che esprimono «la legittima aspettativa» del suo popolo, non c’erano. Se sono apparse, appena tre o quattro, è stato solo per qualche minuto. Tirate immediatamente via dalle forze dell’ordine che hanno anche ammonito chi ci ha tentato non si sa in nome di quale legge. Bandiere considerate una minaccia all’ordine pubblico, perché il Pd, in quella piazza, non le voleva.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

Schlein vince la prova di piazza: «Basta col governo Meloni»

Non fosse stato così, magari qualche militante del partito democratico l’avrebbe portato volentieri con sé quel vessillo che rappresenta i civili «le cui sofferenze non valgono meno». Magari l’avrebbe sventolato in alto, sentendo la segretaria dire che «niente può giustificare le brutalità che la Palestina sta subendo». Invece no e a noi resta così un’altra prova delle ambiguità del Pd. Che si incaglia in

Commenta (0 Commenti)

INTERVISTA. La vicepresidente Pd: bene che 5S e rossoverdi partecipino, è ora di costruire una vera alleanza. Schlein fa bene a condannare i massacri a Gaza, bisogna lavorare per la pace. In Piemonte c’è una destra aggressiva, con i 5S dobbiamo costruire insieme una proposta per la regione: spero che capiscano che siamo dalla stessa parte

Chiara Gribaudo: «In piazza per l’alternativa alle destre» Chiara Gribaudo - Ansa

Chiara Gribaudo, deputata, vicepresidente del Pd. Domani scendete in piazza a Roma. La piattaforma della manifestazione è molto ampia e variegata. Qual è il motivo principale per cui chiamate i vostri simpatizzanti in piazza del Popolo?

Per dire che vogliamo un paese diverso da quello che ci ritroviamo dopo un anno di governo Meloni. Sindacati e associazioni hanno già fatto sentire la loro voce, ora tocca a noi: l’opposizione deve uscire dai palazzi, vogliamo condividere la battaglia contro la manovra e contro i tagli alla sanità con la nostra comunità e con chi vuole darci una mano. Il Pd per cambiare ha bisogno di una intelligenza diffusa, c’è una larga parte di Italia che fa fatica, non solo i più deboli ma anche il ceto medio che è penalizzato dai tagli alla sanità e alla scuola. Il Pd ha fatto il suo percorso, ora è nelle condizioni di mandare messaggi chiari, di essere una forza realmente popolare capace di riannodare i fili con chi ha smesso di credere nella politica.

Con voi ci saranno anche M5S, Sinistra e Verdi. È l’embrione della tanto attesa coalizione?

Mi fa molto piacere che si uniscano a noi, le opposizioni sono più credibili quando sono unite. Spero che sia un ulteriore passo avanti verso la costruzione di una vera alleanza.

Il Piemonte, la sua regione, è l’unica di quelle al voto nel 2024 in cui non c’è ancora un’alleanza tra Pd e M5S. In Sardegna voi avete accettato una candidata 5S, Todde, ma la cortesia non è stata ricambiata.

Non ancora, ma per fortuna non si è fatta una questione di nomi ma di politica. Chiara Appendino alcune settimane fa ci ha proposto di parlare di idee e non di candidati. Io ci sto: la destra che governa la regione si sta muovendo contro il diritto all’aborto, sulle liste di attesa in sanità siamo in fondo alla classifica, sui trasporti siamo andati indietro. Io penso che sia la politica a dirci che dobbiamo stare uniti, prima degli accordi di partito. E non sarebbe nemmeno una novità, con il M5s siamo insieme all’opposizione da 5 anni, se quello che abbiamo visto non ci piace è nostra responsabilità comune costruire un progetto alternativo. Mancano solo 7 mesi al voto, e la destra è già in campagna elettorale. C’è da fare un lavoro lungo di ascolto e condivisione coi i piemontesi, ma è una partita che si può vincere.

I 5 stelle di Torino frenano, pesano le ruggini tra il sindaco di Torino Lo Russo e Appendino.

Anche nel Torinese ci sono realtà dove abbiamo costruito alleanze, di fronte a una destra così bisogna lasciare da parte divisioni del passato. Spero che la loro partecipazione alla nostra piazza possa dare un contributo a fare capire che siamo dalla stessa parte.

Uno dei temi della vostra piazza sarà la pace in Medio Oriente. Tra voi convivono sensibilità diverse sulla questione.

Tutto il Pd è unito nel chiedere la pace, a partire da un cessate il fuoco per ragioni umanitarie. Siamo per una soluzione che preveda due popoli e due stati.

Schlein ha alzato i toni nel condannare i massacri di civili a Gaza.

Ha fatto bene, come è stato giusto condannare subito la strage del 7 ottobre. A pagare il prezzo non possono essere civili inermi, soprattutto bambini. Usa, Ue e paesi arabi moderati devono lavorare per arrivare a una soluzione politica,

La segretaria ha chiesto di portare in piazza solo bandiere del Pd e della pace. Se qualcuno venisse con una bandiera palestinese sarebbe un problema?

Per me la bandiera del Pd rappresenta tutte le istanze, a partire da quella della pace. Siamo per la difesa del diritto di Israele a esistere e per la terra e la libertà dei palestinesi.

Vi siete schierati contro l’elezione diretta del premier proposta da Meloni, e anche questo sarò uno dei che scandirete in piazza. È un tema capace di scaldare la base?

Nel mondo progressista e di sinistra c’è una sensibilità sul tema dell’uomo solo al comando, ci sono ancora anticorpi diffusi, nonostante i tentativi della destra di riscrivere la storia. Se si parla di stravolgimento della Costituzione, di riduzione dei poteri del Quirinale, il nostro popolo è pronto a mobilitarsi

Commenta (0 Commenti)

ALBANIA/ITALIA. La Costituzione impone che al richiedente asilo sia riconosciuto l’ingresso e il soggiorno nel territorio quantomeno per il tempo necessario all’esame della sua domanda

 Edi Rama e Giorgia Meloni - LaPresse

Il governo ha annunciato la firma di un protocollo di intesa fra Italia e Albania, fra gli obiettivi c’è quello di «accogliere solamente chi ha davvero diritto alla protezione internazionale». Negli avverbi «solamente» e «davvero» si annida il senso: evitare di garantire il diritto di asilo. L’accordo prevede la costruzione in Albania di «centri per la gestione dei migranti arrivati via mare», che dovrebbero fungere sia da hotspot sia da centri per il rimpatrio.

I primi, inventati dall’Agenda europea sulla migrazione nel 2005, sono dei non-luoghi, in un limbo giuridico, funzionali a distinguere immediatamente il richiedente asilo dal migrante economico, da respingere senza indugi; i secondi, introdotti con la legge Turco-Napolitano nel 1998, hanno mutato nome, tempi di trattenimento e soggetti detenuti (ora anche richiedenti asilo), ma erano e sono centri di detenzione. Entrambi sono espressione di un diritto speciale, dalle garanzie dimidiate.

Hotspot, Cpr e accordi con paesi terzi sono elementi cardine dell’asse delle politiche nazionali ed europee in materia di immigrazione: rafforzamento delle frontiere ed esternalizzazione. Il tradizionale doppio binario delle politiche sugli stranieri, integrazione e repressione, si incanala lungo un binario unico (quello della repressione). Fortezza Europa, first: non rileva il fatto che molti dei paesi con i quali sono stipulati accordi sono stati in guerra, autoritari, che non garantiscono i diritti della persona umana, che non tutelano il diritto di asilo (Turchia, Sudan, Tunisia, Libia, Niger…), così come non rileva che le persone che migrano siano persone alla ricerca dei propri diritti.

Ora molte sono le criticità (violazioni) inerenti il rispetto della dignità, della libertà personale, dei diritti di difesa e al ricorso, dei centri sul territorio: facile immaginare che crescano esponenzialmente con la delocalizzazione. Mi limito a ricordare come nel 2023 l’Italia sia stata ripetutamente condannata (per tutte, Corte Edu, 30 marzo 2023), per le condizioni di trattenimento subite da alcune persone nell’hotspot di Lampedusa tra il 2017 e il 2019.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

Accordo con Edi Rama, l’Italia manderà i migranti in Albania

E che dire del diritto di asilo? A prescindere dall’arbitrarietà della distinzione fra migrante economico e richiedente asilo (non vede forse violati i suoi diritti chi fugge da condizioni materiali indegne o in cerca di istruzione?), al richiedente asilo deve essere riconosciuto l’ingresso e il soggiorno nel territorio quantomeno per il tempo necessario all’esame della sua domanda. Il diritto di asilo «ha carattere immediatamente precettivo e comporta un diritto soggettivo perfetto», con la conseguente possibilità di intervento del giudice ordinario (Tribunale di Roma, 1999, caso Ocalan). E l’articolo 10 della Costituzione è inequivocabile: il diritto di asilo è nel «territorio della Repubblica». È incostituzionale delocalizzare il diritto di asilo.

E che dire del nucleo minimo – e non sufficiente – del diritto di asilo, come del divieto di tortura, il principio di non refoulement (il diritto di non essere respinti in territori dove vi sia il rischio di subire trattamenti inumani o degradanti)? Il divieto di respingimento costituisce una norma internazionale di jus cogens, inderogabile, anche da parte di accordi bilaterali, e protegge anche da respingimenti in un paese che a sua volta respinga verso altri paesi che non tutelano da trattamenti inumani e degradanti (Corte Edu, 23 febbraio 2012).

La Corte europea dei diritti dell’uomo, così come la Corte di giustizia Ue, hanno precisato che non esiste una presunzione assoluta di sicurezza per nessuno, neanche per gli stati membri dell’Unione europea; l’Albania non lo è nemmeno.
Con la delocalizzazione di hotspot e Cpr, ai muri giuridici frapposti al riconoscimento del diritto di asilo (categoria dei paesi terzi sicuri; restrizioni della protezione umanitaria e speciale; detenzione; sovrapposizione dello status, più restrittivo, della protezione internazionale all’asilo costituzionale) si aggiungono muri che materialmente impediscono l’ingresso nel territorio.
Il diritto di asilo è il diritto di chi non ha diritti: cosa resta dei diritti umani?

 

Commenta (0 Commenti)

Con la guerra a Hamas Israele non distruggerà il consenso e la capacità di attrazione del terrorismo, che al contrario saranno potenziati dagli orrori del massacro in corso a Gaza. Occorre subito un cessate il fuoco - non la «tregua» - e la fine dei raid aerei, perché alla catastrofe umanitaria si contrapponga il rispetto della vita di ogni essere umano

Per un risveglio della ragione davanti alle macerie del conflitto

 

Dopo un mese la risposta della guerra ai crimini di Hamas del 7 ottobre non sta provocando soltanto migliaia di morti innocenti, decine di migliaia di feriti, le povere case di Gaza rase al suolo, le bombe sugli ospedali, le scuole e le ambulanze, la fame e la sete di un milione di sfollati senza tetto né tutele. Con paradosso apparente, essa ha anche enormemente aggravato la minaccia alla sicurezza futura di Israele. I suoi effetti politici sono tutti disastrosi: la sempre più improbabile liberazione degli ostaggi, la crescita vergognosa dell’antisemitismo nel mondo, il pericolo di un allargamento del conflitto, il rafforzamento di Hamas sia all’interno del popolo palestinese che all’interno del mondo islamico. Il solo effetto che non sarà raggiunto sarà la distruzione, proclamata da Netanyahu, del terrorismo jiadista e criminale di Hamas.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

Picchiati e affamati, il racconto dei lavoratori rispediti a Gaza
Potranno essere uccisi tutti i capi militari di Hamas scovati nel territorio di Gaza, ma non lo saranno i suoi capi politici che vivono al sicuro nel Qatar o in Iran o in altri paesi islamici. Tanto meno saranno distrutti il consenso e la capacità di attrazione del terrorismo, che al contrario saranno potenziati dagli orrori della guerra: dal massacro di innocenti uccisi, in gran parte bambini, dalla crescita dell’odio e della volontà di vendetta, che non potranno non allevare nuove generazioni di terroristi.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

Attaccata la scuola Onu a Jabaliya. Guterres «Sono inorridito. Cessate il fuoco subito
E’ questo il risultato della risposta autolesionista, ottusa e simmetrica, della guerra e dei bombardamenti sulle popolazioni civili all’aggressione atroce del 7 ottobre. Che non è stata un atto di guerra, essendo la guerra solo tra Stati ed eserciti regolari, bensì un crimine orrendo al quale occorreva rispondere con il diritto, cioè con un intervento diretto a colpire i soli colpevoli.

La risposta della guerra è stata invece esattamente ciò che volevano i terroristi: l’annullamento dell’asimmetria elementare tra guerra e violenza criminale, perché è come “guerra santa”, diretta a distruggere Israele, che essi concepiscono, legittimano e vogliono che siano riconosciuti e temuti i loro eccidi. Ovviamente la distinzione tra crimine e atto di guerra è una convenzione stipulata dalla nostra civiltà giuridica. Ma è una convenzione indispensabile a porre un limite alla guerra e a preservare la necessaria asimmetria tra l’inciviltà del crimine e la civiltà del diritto.

Ben altra sarebbe stata l’efficacia di una lotta al terrorismo ove questo fosse stato riconosciuto e perseguito come fenomeno essenzialmente criminale: innanzitutto l’identificazione, ovviamente con un uso adeguato della forza e con la mobilitazione solidale di tutte le polizie dei paesi civili, dei terroristi, della loro rete clandestina e soprattutto dei loro capi, molti dei quali non vivono a Gaza; in secondo luogo la prova di superiorità morale e politica che Israele avrebbe dato ai criminali e al mondo intero; in terzo luogo la netta distinzione, che dobbiamo tutti pretendere, tra Hamas e la povera popolazione di Gaza; in quarto luogo l’apertura di una prospettiva di pace ed anche, finalmente, di una soluzione politica della questione palestinese. Senza la quale la guerra non finirà mai, cresceranno gli odi, la disumanizzazione reciproca e la volontà di distruzione che accomuna entrambe le parti in conflitto. Biden, in un momento di sincerità, aveva avvertito il governo israeliano: non fate il nostro stesso errore, quando chiamammo atto di guerra il crimine dell’11 settembre e ad esso rispondemmo con due guerre che produssero centinaia di migliaia di morti innocenti, la nascita dell’Isis, gli attentati terroristici in mezzo mondo e la crescita dell’odio contro l’occidente.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

Blinken: «Un cessate il fuoco ora lascerebbe Hamas al suo posto»
Il risveglio della ragione sarebbe ancora possibile. Occorrerebbe la cessazione del fuoco – non una semplice tregua – e soprattutto dei bombardamenti dal cielo. Per non provocare una catastrofe umanitaria, ma anche per contrapporre ai terroristi il rispetto della vita e della dignità di persona di ogni essere umano, Israele dovrebbe inoltre aprire un varco nel suo confine con Gaza, onde prestare soccorso quanto meno ai bambini e alle donne e offrire cure mediche ai malati e ai feriti. Sarebbe, questa, un’iniziativa tanto costosa e generosa quanto inaspettata e vincente, che oltre a salvare migliaia di vite umane varrebbe a ristabilire l’asimmetria tra uno Stato che si vuole democratico e la brutalità fanatica del terrorismo. Sarebbe il miglior antidoto al veleno dell’antisemitismo. Indebolirebbe radicalmente il terrorismo jiadista, soprattutto di fronte al popolo palestinese. Faciliterebbe una trattativa e la liberazione degli ostaggi. Porrebbe fine, almeno da parte israeliana, alla logica della vendetta e del nemico da annientare, il cui superamento è il presupposto di qualunque soluzione politica.

Naturalmente, in politica, ciò che è razionale non è quasi mai reale e ciò che è reale non è quasi mai razionale. Naturalmente Israele sconfiggerà i terroristi che si trovano a Gaza, al prezzo di altre migliaia di morti innocenti. Ma non vincerà la guerra, ormai endemica e permanente, come ha scritto domenica 29 ottobre Tommaso Di Francesco. Dovrà, per sopravvivere, accentuare la politica violenta di oppressione nei confronti dei palestinesi, la quale a sua volta rafforzerà Hamas o altre formazioni terroristiche, costringerà la popolazione israeliana a vivere in uno stato di crescente insicurezza e paura e produrrà, inevitabilmente, nuove tragedie, in una spirale senza fine

Commenta (0 Commenti)