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PALESTINA/ISRAELE. Non esiste strategia per il futuro, un’assenza surreale e dolorosa a 75 anni dall’espulsione forzata di quasi un milione di palestinesi dalle proprie terre e a 56 dall’occupazione militare di quel che restava della Palestina storica
Striscia spezzata in due. Ma Israele potrebbe non raggiungere l’obiettivo

Sono trascorsi trent’anni dagli Accordi di Oslo e dalla fondazione dell’Autorità nazionale palestinese, esecutrice dell’omicidio politico dell’Olp ed elefantiaca amministrazione senza sovranità che avrebbe dovuto condurre alla nascita di uno stato di Palestina.

Eppure, trent’anni dopo, la diplomazia occidentale non intende ancora intraprendere una strategia reale di soluzione della secolare questione palestinese. Non lo vuole soprattutto Israele che prosegue nella “gestione” del conflitto senza alcuno sbocco presente o futuro, in una corsa al massacro che pezzo dopo pezzo divora la legittimità di cui Tel Aviv poteva ancora godere in buona parte del consesso internazionale e delle opinioni pubbliche globali.

Domenica a Ramallah il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen con il segretario di stato statunitense Antony Blinken è stato chiaro, perché non è stupido: l’Anp è disposta a rientrare a Gaza solo all’interno di una cornice politica duratura, che comprenda lo status di tutti i Territori occupati, Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme est. Significa la fine dell’occupazione militare israeliana. Un’ipotesi campata per aria: la fine dell’occupazione non è nei piani di nessun decisore.

Israele non sa cosa farà di Gaza, non sa cosa significa «vincere la guerra». Non lo sa il governo e non lo sa quell’opinione pubblica che continua a ripetere che al destino di Netanyahu ci si penserà «a guerra vinta». Rioccupare mezza Gaza? Rendere Hamas un guscio vuoto o catturare il suo leader nella Striscia, Yahiya Sinwar? Cacciare più palestinesi possibile nel deserto del Sinai? Il senso della vittoria è vago nel gabinetto di guerra come nello Studio ovale. Non è vaga la cornice: l’occupazione militare non è in discussione.

In tale contesto di blackout politico e persistenza di un approccio colonialista verso il sud del mondo, la carta dell’Anp come cane da guardia altrui è l’ovvia risposta ma è esercizio futile. Non ha prospettive reali: perché l’Autorità non gode di alcun consenso tra la base né di legittimità nel mondo arabo che l’ha palesemente bypassata per normalizzare i rapporti con Tel Aviv; perché è proprietà privata di un’élite politica ed economica che ha allargato a dismisura il gap sociale con la popolazione; perché non intende rientrare in una Gaza devastata da un’offensiva crudele e senza precedenti a bordo dei carri armati israeliani; perché Israele – se pure si “piegasse” alla volontà statunitense – non la renderebbe altro che un fantoccio, al pari di quanto avviene dal 1993 in Cisgiordania.

Abu Mazen è anziano, malato e a capo di un’idrovora di denaro internazionale, ma non è stupido. Non solo sa che Gaza è un suicido politico, ma è consapevole che Gaza potrebbe essere già l’ultimo chiodo sulla bara dell’Anp. Che sopravviva a una crisi di tale portata non è scontato. Impossibile oggi prevedere il futuro, ma l’imbarbarimento dell’occupazione è lo scenario più realistico. La prova ce l’abbiamo già sotto gli occhi, si chiama Cisgiordania.

Non esiste strategia per il futuro, un’assenza surreale e dolorosa a 75 anni dall’espulsione forzata di quasi un milione di palestinesi dalle proprie terre e a 56 dall’occupazione militare di quel che restava della Palestina storica. Decenni dopo, la comunità internazionale occidentale non legittima ancora le aspirazioni di libertà palestinesi e si trincera dietro uno slogan – due popoli, due stati – che è solo uno scudo alla soluzione politica. L’occupazione non è davvero messa in dubbio, nemmeno oggi.

La prospettiva di un rientro dell’Anp in una Gaza in macerie — umane, materiali, psicologiche, politiche – è utile solo a qualche titolo di agenzia perché non avverrà. E se anche dovesse realizzarsi, non avverrebbe in un territorio liberato. Si realizzerebbe in un territorio occupato, in un territorio su cui sarà presente ancora Hamas (che non è destinata alla scomparsa) e dove il grande rimosso dalle agende altrui sta vivendo un’umiliazione e un abuso difficili da superare: il popolo palestinese.

Privati della politica, privati di speranza, la rabbia dei palestinesi ribolle insieme alla convinzione che la libertà non passerà per una diplomazia schiacciata sulle ragioni israeliane e complice del massacro in corso

 

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Pietà l’è morta! Sono ossessionata da questa frase in questi giorni di dolore, rabbia, indignazione. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu continua a non essere in grado di chiedere almeno il cessate il fuoco. Veto da parte degli Usa e di Israele, con qualche isoletta del Pacifico.

Luisa Morgantini, Member of the European Parliament since...

 

La maggioranza dei governi europei, compreso il nostro, si astiene, mentre 120 paesi dell’altra parte del mondo (con qualche lodevole eccezione europea) votano a favore. L’ Onu è stata via via spodestata a partire dalla prima Guerra del Golfo, 1991, e da tutte le guerre successive, che hanno destabilizzato il Medio Oriente, provocato centinaia di migliaia di vittime, ristabilito il potere dei Taliban in Afghanistan, e stabilito ulteriori basi militari Usa.

Mi fermo qui. Ed anche noi da quel momento abbiamo visto la ferita delle nostre democrazie. Riusciremo a far svolgere all’Onu il compito affidatogli dopo la seconda guerra mondiale? Dovremo rilanciare la campagna per l’eliminazione del veto, imposto dai paesi vincitori!

Quando il Segretario generale dell’Onu, Guterrez, parla da Rafah di fronte ai camion di beni di prima necessità per Gaza, bloccati per i bombardamenti israeliani, viene deriso da giornalisti e opinionisti, che mostrano solo la loro ignoranza dei fatti e i loro pregiudizi. Perché afferma la verità: “È importante riconoscere che gli attacchi di Hamas non sono avvenuti nel vuoto. Il popolo palestinese è stato sottoposto a 56 anni di soffocante occupazione, hanno visto la loro terra costantemente divorata dagli insediamenti e tormentata dalla violenza; la loro economia soffocata; la loro gente sfollata e le loro case demolite. Le speranze di una soluzione politica alla loro situazione sono svanite. Ma le rimostranze del popolo palestinese non possono giustificare gli spaventosi attacchi di Hamas. E questi terribili attacchi non possono giustificare la punizione collettiva del popolo palestinese”.

L’ambasciatore israeliano all’Onu tuona chiedendo le dimissioni di Guterrez. Non è la prima volta, in altri interventi ha stracciato le risoluzioni Onu che chiedevano il rispetto dei diritti umani e il blocco della costruzione degli insediamenti coloniali. Ma Israele è impunita e sa che lo sarà ancora utilizzando il ricatto dell’antisemitismo e dell’Olocausto. Mentre si accinge a portare a compimento quello che Ben Gurion aveva iniziato, fermandosi: la pulizia etnica della Palestina, iniziata nel ‘48 con la cacciata di più di 750mila palestinesi, e continuata in tutti questi anni con la “deportazione silenziosa”, come l’ha chiamata BetSelem, ora affermata da ministri quali Ben Gvir e Smotrich con il beneplacito di Netanyahu.

A noi è ben chiaro che lo Stato di Israele non rappresenta tutti gli ebrei e invece uccide la cultura ebraica che tanto ha dato e dà all’umanità intera. Basti pensare agli ebrei americani di ‘Jewish voice for peace’, che hanno occupato il parlamento Usa per il cessate il fuoco subito e lo stop agli aiuti Usa ad Israele, ai giovani ebrei italiani del ‘Laboratorio antirazzista’ che chiedono la fine dell’occupazione e dell’apartheid, e soprattutto ai giovani refusnik israeliani, che vanno in carcere e si rifiutano di servire in un esercito invasore, agli attivisti che agiscono insieme ai palestinesi per difenderli dagli attacchi dei coloni, che, pur tramortiti dall’attacco di Hamas, continuano ad andare alla radice del problema: la colonizzazione, l’occupazione e l’apartheid praticata da Israele nei confronti della popolazione palestinese.

Ora l’urgenza è cessare il fuoco, portare gli aiuti umanitari, dare i visti a chi vuole uscire, impedire che i palestinesi vengano cacciati nel deserto del Sinai, liberare gli ostaggi così come richiesto dalle famiglie israeliane, con uno scambio di prigionieri (più di 10mila i prigionieri palestinesi nelle carceri israeliane, tra cui 370 minori e 1.200 in detenzione amministrativa). Ma Netanyahu bombarda anche gli ostaggi.

Vediamo Gaza morire momento dopo momento, rasi al suolo interi quartieri, i bambini estratti dalle macerie con gli occhi sbarrati e il corpo tremante, gli ospedali senza più medicinali, i bambini e gli uomini e le donne amputati o operati senza anestesia nei cortili degli ospedali. Anche nella Cisgiordania dal 7 ottobre i palestinesi sono chiusi nei villaggi e città senza potersi muovere, con la paura costante delle evacuazioni forzate, arresti di minori, case demolite, pogrom di coloni messianici che occupano le terre e attaccano villaggi e sparano, protetti dall’esercito. Anche in Israele non c’è sicurezza per i palestinesi. Alla Knesset è in discussione una legge che prevede, oltre il carcere, l’espulsione dal paese e la sottrazione della cittadinanza nel caso di post sui social che solidarizzano con Gaza o la Cisgiordania.

Il diritto internazionale è calpestato non solo da Israele, ma da tutte le istituzioni internazionali. La Corte Penale Internazionale dovrebbe agire urgentemente ed arrestare Netanyahu e i suoi generali. Ma dovrebbe anche indagare sulle responsabilità di Biden e dei leader europei, in primis von der Leyen, per complicità con Israele. 

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GAZA/MEDIO ORIENTE . Se la graduale normalizzazione del ruolo di Israele nella regione poteva far pensare a una semplificazione della mappa energetica e politica del Medio Oriente, ignorando del tutto la questione palestinese, adesso la guerra con Hamas e la minaccia di un conflitto regionale hanno rimescolato tutte le carte

Lo shock della nuova mappa dell’energia

Con la guerra di Gaza vedremo un altro shock petrolifero come nel 1973? Nel suo lungo discorso dal Libano il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha evitato di aprire la guerra con Israele ma ne ha evocata una economica. Per fermare la strage nella Striscia. «Non chiediamo le vostre armi, non i vostri missili… non voglio dare dei traditori a nessuno, ma dobbiamo inchiodare tutti alle loro responsabilità».

Dagli stati petroliferi Hezbollah vuole una mano per chiudere i rubinetti di Tel Aviv, come ha chiesto l’Alto consiglio di Stato della Libia con sede a Tripoli (preceduto dai rappresentanti della Cirenaica) «per tagliare i legami con i Paesi che sostengono l’entità sionista bloccando l’export di gas e petrolio». Nasrallah punta a scuotere Egitto, Arabia saudita e le monarchie del Golfo, che hanno rapporti con Israele per escluderlo dai rifornimenti energetici.

Un appello al boicottaggio quello del leader sciita che viene proprio dal Libano dove Hezbollah come membro del governo ha accettato di fatto nel 2022 l’accordo mediato dagli Stati uniti per la demarcazione del confine marittimo tra Israele e Libano (tecnicamente in guerra dal 1948) e lo sfruttamento del gas dei giacimenti sottomarini di Karish e Qana. Un’intesa che Nasrallah aveva presentato «non come il risultato della generosità di Usa e Israele ma della forza del Libano», Paese che versa in una crisi economica disastrosa.

Cosa aveva significato la guerra dello Yom Kippur il cui trentennale è coinciso con il massacro di Hamas ? L’embargo imposto dai Paesi arabi esportatori di petrolio dopo la crisi del 1973 aveva trasformato tutti gli equilibri e le dottrine geopolitiche, una tendenza che si era poi rafforzata con la rivoluzione khomeinista in Iran nel 1979, annus horribilis di Washington con la perdita di Teheran come alleato, seguita a fine anno all’invasione sovietica dell’Afghanistan. Da allora gli Usa si erano lanciati militarmente per decenni nelle guerre del Golfo e del Medio Oriente per disimpegnarsi poi con il disastroso ritiro da Kabul nel 2021.

Se la graduale normalizzazione del ruolo di Israele nella regione, voluta con il Patto di Abramo sponsorizzato dagli Usa, poteva far pensare a una semplificazione della mappa energetica e politica del Medio Oriente, ignorando del tutto la questione palestinese, adesso la guerra con Hamas e la minaccia di un conflitto regionale hanno rimescolato tutte le carte. Anche per l’Italia e per quel vago Piano Mattei delineato confusamente – e soprattutto senza risorse – da questo governo.

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L’Italia ha aperto due dossier cruciali con la Tunisia (migrazioni) e l’Algeria (gas), che hanno dichiarato il loro sostegno alla causa palestinese e a Hamas. Anzi, la Tunisia intende approvare una legge che renderà illegale ogni rapporto economico con Israele. Anche l’Algeria ha assunto una posizione apertamente filo-Hamas: Algeri con il 40% è il nostro principale fornitore di gas e la Sonatrach è un socio strategico dell’Eni. Insieme alle posizioni dei libici, il quadro dei nostri principali partner del Mediterraneo appare alquanto problematico per il governo di Roma, astenuto all’Onu sulla risoluzione, votata da Francia e Spagna, che chiedeva una tregua a Gaza. E queste sono cose che sulla Sponda Sud si notano…

Cinquant’anni dopo la guerra del Kippur, l’insicurezza energetica per gli stati importatori di gas e petrolio è di nuovo all’ordine del giorno, a maggior ragione dopo l’invasione russa dell’Ucraina. Ma la vulnerabilità di Israele – come sottolinea Helene Thompson, docente di Cambridge su Le Grand Continent – non si ripeterà come fu nel 1973. Grazie ai giacimenti offshore di Leviathan, Tamar e Karish, Israele è autosufficiente per il gas, anche se lo sfruttamento del giacimento di Tamar è stato sospeso il giorno dopo l’attacco di Hamas. Più della metà delle importazioni israeliane di petrolio proviene dall’Azerbaigian, in cambio di consistenti esportazioni militari che, insieme a quelle turche e italiane, sono servite a Baku per cacciare gli armeni dal Nagorno Karabakh.

Israele ha inoltre stretto importanti partnership energetiche con diversi Stati arabi. Ha iniziato a esportare gas in Giordania nel 2017 e in Egitto nel 2020. In seguito agli accordi di Abramo – che hanno normalizzato le relazioni con Emirati, Bahrein, Marocco e Sudan – ha concordato una strategia energetica con gli Emirati che consente alla monarchia del Golfo di vendere petrolio attraverso l’oleodotto Eilat-Ashkelon. Uno dei fondi sovrani di Abu Dhabi detiene una partecipazione del 22% nel giacimento di gas Tamar.

Ironia della sorte ora è l’Iran che con Hezbollah, in nome della solidarietà islamica, chiede agli stati arabi di imporre sanzioni petrolifere a Israele, anche se lo Stato ebraico si rifornisce fuori dal Medio Oriente. Ma una guerra tra Iran e Israele cambierebbe di nuovo le carte in tavola per tutti.

Il fatto che la Cina, che ha sostituito gli Usa come maggiore importatore di petrolio al mondo, dipenda dall’Iran rende difficile per Washington rafforzare, o solo applicare rigorosamente, le sanzioni esistenti contro Teheran senza provocare un confronto con Pechino. Diversi stati europei, tra cui Gran Bretagna, Francia, Germania e Italia, dipendono per il gas liquido dal Qatar, sostenitore di Hamas e grande investitore in Europa nell’immobiliare e nel calcio. Forse non ci sarà uno shock energetico come nel 1973 ma si apre una un’epoca di paradossi e compromessi impensabile 50 anni fa

 

 

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Consumo di suolo e piani urbanistici incompiuti: i casi Emilia-Romagna e Campania a confronto

Venerdì 13 ottobre si è svolto l’incontro “Emilia Romagna e Campania a confronto. Visioni, leggi, prassi sul governo del territorio e consumo di suolo” promosso dalle Associazioni Il Manifesto in rete, Infiniti Mondi e OsservaBO, ne hanno discusso insieme urbanisti e ambientalisti delle due realtà. Il modello di urbanistica bolognese ed emiliano romagnola, orgoglio e vanto della classe dirigente di un tempo non troppo lontano, si mette a confronto con quello senza dubbio storicamente più discutibile di un territorio importante come la Campania che deve assolutamente cambiare strategia se non vuole subire ulteriori declassamenti. Entrambi i posti sono di fronte all’evidenza di una crisi climatica e ambientale che non può più essere elusa e non ammette più rinvii.

L’Emilia Romagna, colpita dalla recente tragica alluvione e dai precedenti terremoti, scopre quanto sia fragile ed esposto il proprio assetto idrogeologico in conseguenza di eventi calamitosi, non più imprevedibili e sempre più frequenti, mentre la Campania – che di emergenze ne patisce da sempre per molteplici diverse ragioni – si misura con l’assoluta necessità di strumenti di pianificazione e intervento adeguati e non trova corrispondenza nei progetti legislativi regionali.

L’Emilia Romagna è alle prese con la necessità di modificare non poco, dopo sei anni di applicazione, una legge urbanistica che – direbbe Jovanotti – “procede per eccezioni” e si ritrova così ai vertici nazionali del consumo di suolo e pure nel titolo della stessa legge, (con una buona dose di manicheismo) si propone di raggiungere “il consumo di suolo a saldo zero entro il 2050”.

La legge regionale 24/17, è un modello per uscire dalla crisi dell’urbanistica? È la domanda retorica che si pongono gli urbanisti. La legge, a sei anni dall’approvazione e dall’entrata in vigore, non è stata ancora oggetto di una valutazione effettiva, dal momento che buona parte dei comuni non hanno ancora dato corso al principale adempimento prescritto, ovvero la definizione del proprio Piano Urbanistico Generale, sulla base della misurazione del territorio urbanizzato, al fine di poter computare il limite del 3% di edificabilità consentita entro e non oltre il 2050.

In sostanza la legge che pure introduce obiettivi qualificati in relazione all’implementazione della rigenerazione energetica degli edifici, non interviene adeguatamente se non negli ambiti del territorio urbano, dove pure lascia mano libera alle proposte dei privati, per la definizione degli interventi, mentre lascia pressoché incontrollate le aree rurali dove l’assenza di qualsiasi riferimento alla legge, sta determinando uno sviluppo edilizio esteso e polverizzato, molto preoccupante. Non si possono affidare al sistema degli accordi con i privati le decisioni che richiederebbero capacità di valutazione tecniche che molti Comuni non possiedono mentre si è indebolita la funzione di pianificazione provinciale.

 

L’alluvione di maggio e giugno, con tutta la sua carica distruttiva, ha messo in evidenza la necessità di una riprogettazione del sistema idrogeologico, di monitoraggio dei rischi di frane e di una viabilità più rispondente a criteri di sicurezza, ma soprattutto di intervenire dove gli argini dei fiumi, le insufficienti casse di espansione e le edificazioni in zone inappropriate determinano rischi ancor più gravi come si è avuto modo di constatare, quindi una predisposizione a cambiare impostazione e priorità.

In Campania si è cominciato tardi a legiferare in materia urbanistica e la prima legge regionale la numero 16 del 2004 fu varata dalla giunta Bassolino. Del resto la Campania, forse anticipando i tempi, ha sempre avuto riluttanza a pianificare, in primo luogo attraverso la sistematica proroga dei termini di sostituzione dei vecchi piani regolatori comunali con quelli urbanistici previsti dalla legge, per il poco rispetto dell’obbligo di redigere i piani paesaggistici, oltre che per l’assoluta penuria di risorse economiche nei comuni per consentire di ottemperare agli obblighi. Fatto sta che la Campania è la terza regione d’Italia per consumo di suolo, le caratteristiche di questo sviluppo sono prevalentemente finalizzate ad accrescere la rendita immobiliare e un terziario dequalificato.

 

Gli ultimi drammatici eventi disastrosi accaduti in Campania come a Ischia, hanno posto con evidenza il rischio crescente che costituisce l’impermeabilizzazione di aree contigue ai corsi fluviali, è necessario un cambiamento radicale di politiche di governo dei sistemi fluviali e dell’assetto idrogeologico, il consumo di suolo soprattutto nelle aree contigue a corsi fluviali non può essere più consentito, è necessario realizzare progetti di rinaturalizzazione dei corsi d’acqua oggi costretti in alvei innaturali, non rinunciando anche ad opportune desigillazioni di aree importanti per il corretto defluire delle acque. Non è più solo un problema di intervenire nell’emergenza ma bensì di prevenzione attraverso una politica urbanistica orientata a al riassetto delle intere aree interessate.

Questi sono i problemi che quotidianamente i sindaci sono costretti ad affrontare, in una situazione in cui si avverte l’assenza dello Stato, il disorientamento delle Regioni, la mancanza di apparati tecnici. Le alluvioni hanno reso evidente come anche tutto il sistema viario in zone pedemontane deve essere programmato considerando alternative funzionali agli assi viari principali che possono essere interessati dai fenomeni franosi, sempre più frequenti e diffusi, così come non è più consentito che gli interessi privati condizionino scelte di localizzazioni che non sono compatibili con l’esigenza di sicurezza del territorio.

 

Ciò rappresenta molte volte per i sindaci che hanno il coraggio di esporre la realtà delle cose, di fronte a contestazioni e a pressioni di ogni tipo, come se una sorta di irresponsabilità collettiva che obnubila le opinioni negando la realtà, soprattutto dei principali “portatori di interesse”.

Oggi noi siamo subissati di raccomandazioni e norme dei diversi organismi europei per adottare le misure necessarie a fronteggiare l’emergenza climatica per contrastarne e mitigarne gli effetti: l’European Green Deal e il Nextgeneration.eu, le legge europee sul clima, ma le risposte vanno in direzione del tutto contraria. Le condizioni dei piani incompiuti e in eterna transizione, il depauperamento degli strumenti di pianificazione, l’inadeguatezza delle risorse degli enti locali, la spinta alla edificazione e al consumo illimitato di suolo come testimoniano le ultime rilevazioni Ispra, 77 km quadrati in più in un solo anno sono ben di più che un grido d’allarme. È necessario, indispensabile invertire la rotta.

Qui la video registrazione del dibattito

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Zerocalcare – Bao Publishing

 

Guardate e leggete il fumetto e le considerazioni di Zero Calcare sul sito di Internazionale:

https://www.internazionale.it/reportage/zerocalcare/2023/11/03/zerocalcare-lucca-comics-fumetto

 

 

Zerocalcare è un autore di fumetti romano. Il suo ultimo libro è No sleep till Shengal (Bao Publishing 2022).

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa ne pensi di questo articolo. Scrivici a: Questo indirizzo email è protetto dagli spambots. È necessario abilitare JavaScript per vederlo.

 

 

 

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RIFORME. Nella bozza di riforma, lo sforzo per lasciare la forma dei poteri del capo dello Stato ed eliminarne la sostanza è stato straordinario. Ma del tutto ipocrita

Il «premierato» del governo Meloni è l’anticamera dell’autocrazia 

La bozza sul premierato è presentata come una riforma soft, in grado di rafforzare il governo senza stravolgere gli equilibri costituzionali. È invece pericolosa, contiene un falso ed esprime la confusione della maggioranza in materia di forme di governo e sistema costituzionale

L’aspetto più temibile è legato alla previsione dell’elezione contestuale del presidente del Consiglio e delle camere, assicurando una maggioranza pari al 55% dei seggi da assegnare ai candidati e alle liste collegati al presidente eletto. In un colpo solo si garantirebbe ad una minoranza del paese di conquistare, grazie ad una distorsione elettorale, tanto il governo quanto il parlamento.

Si tratterebbe di un premierato assoluto che – pur passando per una finta fiducia iniziale – ci allontanerebbe sia dalle forme di governo parlamentare, dove sono le camere a dare la fiducia reale al governo, sia da quelle presidenziali, dove gli equilibri sono garantiti da una netta separazione dei poteri.

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In effetti, tanto negli Stati uniti, quanto in Francia è proprio la possibilità che il legislativo abbiano maggioranze politiche diverse da quella presidenziale (nelle forme delle cosiddette «anatra zoppa» ovvero «coabitazione») che evita la torsione autoritaria del sistema. Lo dimostrano gli ordinamenti dove tale possibilità è esclusa in via di principio o di fatto (come in Turchia o in Russia) e proprio l’elezione diretta del capo del governo è all’origine della natura totalitaria del regime politico.

Si afferma che in fondo non è altro che la trasposizione a livello nazionale del sistema comunale e regionale. Tralasciando ogni giudizio o critica su tali modelli, mi limito ad osservare che in tal modo si mostra di non saper distinguere la responsabilità e il complesso sistema di controlli politici e amministrativi che gravano sugli amministratori locali dal potere e la relativa responsabilità di determinazione delle politiche nazionali e internazionali dei capi di governo. Asservire il parlamento al governo tramite una forzata omogeneità di maggioranza politica vuol dire concentrare il potere sovrano nelle mani di un eletto del popolo. L’anticamera dell’autocrazia. Un pericolo che non ci è permesso di correre.

Ed è qui che si innesta la storia di un falso. La leggenda secondo la quale non c’è da preoccuparsi poiché i poteri di controllo e garanzia verrebbero esercitati – se non più dal parlamento – dal garante politico della nostra Costituzione, il presidente della Repubblica. Nella bozza sul premierato lo sforzo per lasciare la forma dei poteri del capo dello Stato ed eliminarne la sostanza è in effetti straordinaria. Ma, nondimeno, ipocrita.

Che senso ha lasciare al capo dello Stato il potere di «conferire» l’incarico al premier eletto quando è escluso che possa esercitare alcun ruolo di intermediazione e stimolo, così com’è oggi, per la nomina del presidente del Consiglio da incaricare? Puro notaio di un esito elettorale. Così è anche per il potere di scioglimento delle camere: che senso ha lasciare la decisione al presidente della Repubblica dopo aver tipizzato in costituzione la durata di governo del premier e aver rigidamente delimitato persino l’eventuale passaggio di una crisi di governo senza possibilità di mutamento di maggioranza? Anche in questo caso i margini dell’azione autonoma del garante della Costituzione appaiono minimi se non inesistenti.

Infine, proprio la previsione di una crisi di governo e la possibilità di nominare un nuovo premier scelto tra i soli parlamentari di maggioranza (della ex maggioranza?), con l’obbligo per quest’ultimo di continuare ad attuare l’indirizzo politico e rispettare gli impegni programmatici del precedente, dimostra lo stato di confusione in cui versa il disegno di legge costituzionale che si vuole proporre.

Dopo aver scelto la via della legittimazione popolare, si torna a quella parlamentare? Dopo avere sottomesso il parlamento alla volontà del capo eletto dal popolo, si permette al primo di prevalere sul secondo? Non sono sovrapponibili le legittimazioni popolari e quelle parlamentari. Tantomeno possono vincolarsi i governi che ottengono una (nuova) fiducia agli indirizzi e ai programmi dei precedenti. Che si è fatta a fare la crisi? Solo per sostituire il leader eletto dal popolo. Ma è come ammettere che è meglio non eleggere nessuno, riaffermando – magari razionalizzando – i principi del parlamentarismo e i ruoli di un governo parlamentare e di un garante con funzioni di «risolutore degli stati di crisi». Molto altro ci sarebbe da dire, ma ho lo spazio solo per una altra considerazione.

Mi sembra un vero azzardo volere inserire in Costituzione una specifica formula elettorale che unisce le votazioni di parlamento e presidente del Consiglio, che indica le modalità di voto (unica scheda e collegamento di liste con indicazione del premier), che fissa il premio pari al 55% dei seggi senza alcuna previsione di una soglia minima di consenso ottenuto dalle coalizioni.

Si toccano principi supremi (il principio di rappresentatività, ma anche le modalità di espressione della sovranità popolare) con una disinvoltura sorprendente. È stata la Corte costituzionale e ricordare che così si rischia «un’alterazione profonda della composizione della rappresentanza democratica, sulla quale si fonda l’intera architettura dell’ordinamento costituzionale vigente». Altro che riforma soft

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