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COMMENTI. La proposta di legge popolare (per la modifica dell’art. 116.3 e 117) tenta di bloccare la follia di una autonomia fuori controllo. Ma se passa il ddl Calderoli c’è solo il referendum

L’«autonomia» del governo Meloni frantuma l’unità nazionale Un’opera di Cinzia Ruggeri

La proposta Calderoli sull’autonomia regionale differenziata, approvata dal governo, ora è all’esame del parlamento. Calderoli ha anche nominato la commissione per definire i Lep (Livelli Essenziali di Prestazione).

La presidente del Consiglio mentre fa dichiarazioni per l’unità nazionale e afferma che i cittadini avranno tutti gli stessi diritti, ha dato il via libera a questo ddl che può portare alla frantumazione di pilastri su cui regge l’unità dell’Italia come sanità e istruzione.

Il ministro della Lega ha predisposto un supermercato di poteri, fino a 500 funzioni, a disposizione delle regioni che vorranno chiederle.

Perfino Confindustria ora si rende conto che regionalizzare le politiche energetiche o le comunicazioni ferroviarie e stradali creerebbe difficoltà alle imprese.

Il governo ha rinunciato ad indicare cosa è decentrabile e cosa no, basta chiedere, malgrado le Regioni non godano di appeal visto che ne Lazio e in Lombardia l’astensione è arrivata al 60 %.
Calderoli ha detto che resterà solo se il percorso dell’autonomia regionale differenziata procederà. Un evidente ricatto, che spiega il via libera del governo.

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Meloni, che tiene al piglio decisionista, ha concesso alla Lega un varco da cui l’Italia può uscire malissimo, subendo la «secessione dei ricchi».

Nel ddl i poteri li chiede la singola Regione interessata, se governo e Regione arrivano all’intesa chiederanno sul testo i pareri della Conferenza delle Regioni, della Camera e del Senato, ma ne terranno conto se vorranno perché l’aula parlamentare voterà solo il testo finale dell’intesa, un prendere o lasciare condizionato dalla possibilità per il governo di chiedere il voto di fiducia. Questa legge non potrà essere sottoposta a referendum popolare.

Questa diabolica procedura ha già evitato il voto del parlamento sui Lep, sulle altre tappe previste il voto del parlamento ci sarà solo a cose fatte. I Comuni sono semplicemente ignorati.

Il ruolo del Ministro dell’Economia è ridimensionato rispetto all’obbligo di garantire la tenuta dei conti e sono ignorate altre entità pubbliche con compiti istituzionali: la Ragioneria dello Stato, che «bollina» le leggi, l’Upb che garantisce l’Europa sui nostri conti pubblici.

Le decisioni vere sui trasferimenti finanziari e del personale sono prese da una commissione paritetica tra Regione e governo.

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Autonomia differenziata, i Comuni si fanno Stato e dicono No

Calderoli ha gonfiato la sua funzione di Ministro, comprimendo Presidente del Consiglio e governo. I Dpcm debbono essere firmati dalla Presidente del Consiglio e qui Calderoli ha dovuto abbozzare.

ùLa proposta di legge popolare costituzionale per modificare gli articoli 116.3 e 117 vuole contribuire a bloccare questo percorso che può portare ad un’autonomia fuori controllo.

Se durante il percorso parlamentare della legge Calderoli ci sarà anche questa proposta di legge costituzionale per bloccare questa follia contro i diritti e l’unità dell’Italia le possibilità di bloccare il percorso aumenteranno. Si può firmare sul sito www.coordinamentodemocraziacostituzionale.it.

Per capire la sostanza del ddl Calderoli basta seguire i quattrini. Si afferma che l’autonomia regionale differenziata non può comportare maggiori oneri per il bilancio dello Stato. Quindi i Lep sono esercizi astratti perché se dovessero stabilire che un certo servizio deve essere assicurato a tutti i cittadini, ovunque risiedano, dovrebbero essere previsti finanziamenti a favore di chi non li può garantire. Decine di miliardi. Se i Lep vengono definiti e non vengono finanziati a cosa servono ? Servono a stabilire i finanziamenti e il personale che le regioni più ricche potranno pretendere dallo Stato negli accordi a due. Le altre regioni, condizionate dalla minore spesa storica, per i Lep non avranno le risorse e dovranno aspettare nuove leggi che trovino i finanziamenti per loro.

Intanto quelle più ricche avranno vuotato la cassa.

Occorre costruire un’opposizione nel paese e in parlamento in grado di bloccare la legge Calderoli, ma se la maggioranza riuscisse malgrado tutto ad approvarla bisognerà trarne le conseguenze.

Nel percorso escogitato per impedire al parlamento di intervenire e agli organi di controllo di obiettare c’è un solo strumento da usare se si vuole bloccare questa follia: il referendum abrogativo sulla legge Calderoli. Non ci saranno altre occasioni per chiamare i cittadini al voto

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AUTONOMIA. Il ministro Calderoli cala un asso sul tavolo dell’autonomia differenziata con il Clep (Comitato per i livelli essenziali delle prestazioni) in cui spiccano non pochi nomi prestigiosi e di indiscussa […]

L’asso di Calderoli per spaccare la Repubblica Roberto Calderoli - Lapresse

Il ministro Calderoli cala un asso sul tavolo dell’autonomia differenziata con il Clep (Comitato per i livelli essenziali delle prestazioni) in cui spiccano non pochi nomi prestigiosi e di indiscussa competenza. È una iniziativa importante nella strategia del ministro, che definisce il Clep la sua mini-costituente. È grande l’entusiasmo nel loggione veneto.

Il ministro ha giocato una carta che rende ancora più difficile a Giorgia Meloni prendere le distanze, laddove ne avesse l’intenzione o la forza. È ormai evidente che l’autonomia è la sola partita davvero aperta per le riforme. Al tempo stesso, il Clep ribadisce l’emarginazione del parlamento, che sui livelli essenziali non tocca letteralmente palla.
Naturalmente una valutazione del Clep non può limitarsi al prestigio dei nomi. Il dubbio viene sulla funzione, essenzialmente perché sui Lep cadono scelte che più politiche non potrebbero essere. Già individuare le materie Lep e non-Lep è un primo discrimine che ha ben poco di tecnico, soprattutto considerando che nelle (molte) materie non-Lep la frammentazione autonomistica potrebbe partire immediatamente. Per non dire poi che nelle materie Lep bisognerà stabilire quali ambiti vedranno l’applicazione di livelli essenziali. Ad esempio, se i Lep della scuola debbano estendersi a coprire, e in che misura, laboratori, palestre, refezione e tempo pieno è forse questione tecnica? Ovviamente no. E lo è forse l’interazione tra i Lep e la sanità territoriale o la infrastrutturazione ospedaliera? No.

A ben vedere, la questione di principio in campo con l’autonomia differenziata e i Lep è quanta eguaglianza una parte del paese ritiene necessaria per l’unità, e per contro quanta diseguaglianza un’altra parte del paese ritiene un male necessario per consentire maggiore competitività in ambito europeo e globale. Non c’è proprio nulla di tecnico, è scontro politico tra interessi divergenti e persino contrapposti sulla destinazione delle risorse e sulla formulazione e implementazione di politiche pubbliche. Se vince la strategia Calderoli la Repubblica una e indivisibile che abbiamo conosciuto sarà – con o senza la copertura tecnica del Clep – un ricordo del passato. I diritti avranno letture in chiave di territorio. Le politiche pubbliche nazionali volte all’eguaglianza, alla riduzione dei divari, alla coesione sociale e territoriale saranno impedite o ridotte.

Cosa possiamo aspettarci dal Clep? A voler essere onesti, un non liquet, con richiesta che siano altri a decidere, in primis il parlamento. Calderoli è stato abile. Laddove dovrebbero le opposizioni far emergere contraddizioni nello schieramento di maggioranza, il ministro punta a un effetto esattamente opposto. Il senso dell’iniziativa è ovvio. E può meravigliare che a destra non sia accolto da unanimi applausi. Maurizio Belpietro (La Verità, 28 marzo) attacca vedendo tra i membri Clep «rodati esperti dello status quo», e chiedendo come sia possibile fare la rivoluzione «con gente che per decenni ha rappresentato la conservazione». Parole ingenerose. Il tecnico in carriera non si valuta per il merito di quel che dice, ma per come decide cosa dire. E la tecnica di fondo che adotta è quella del «ni», in rapporto all’oggetto dell’expertise che il politico gli richiede.

Il tecnico in carriera non dirà mai un sì, senza se e senza ma, sulla posizione del politico. Se così fosse sarebbe inutile per il politico chiamarlo in causa, e/o dannoso per l’esperto, assunto a foglia di fico del volere altrui. Né dirà mai un no, senza e senza ma, perché in tal caso il politico metterebbe il nemico in casa. Il «ni» consentirà al tecnico di individuare tra l’essere e il dover essere una distanza colmabile, ovviamente con il sapere che l’esperto stesso mette in campo.
Alternative? Sì, quando l’esperto non si considera in carriera, ed è consapevole di poter esprimere convinzioni vere, univoche, radicate. Ma allora non è utile al politico chiamarlo in causa. Anzi, è potenzialmente pericoloso, perché imprevedibile. Di questo possiamo assumere che Calderoli sia bene consapevole. L’analisi di Belpietro è troppo semplicistica per poter valutare a fondo la mossa del ministro. La griglia da applicare al Clep è più complessa.

Certo, può suscitare un sussulto di sorpresa che personaggi ragionevolmente immuni alle lusinghe di una facile notorietà per l’età, la gloria e le medaglie già conquistate consentano ad essere i necrofori della Repubblica una e indivisibile

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ISRAELE. Intervista all'analista Meir Margalit: «Viviamo in un’etnocrazia, una democrazia per un solo gruppo etnico. Questa è una protesta conservatrice, in un contesto in cui la società ha ormai assorbito la violenza di Stato»

 Manifestanti anti-apartheid ieri a Gerusalemme - Michele Giorgio

«Netanyahu deve fare scelte difficili. Se il governo dovesse cadere, non ha molte opzioni: o si torna alle urne o nasce un esecutivo di unità nazionale». La giornata di ieri per Meir Margalit è stata quella di tanti israeliani: attaccato a radio e tv per capire cosa avrebbe tirato fuori dal cilindro l’immortale Benyamin Netanyahu.

Ebreo israeliano nato in Argentina, dal 1998 al 2014 Margalit è stato membro del consiglio comunale di Gerusalemme per il partito della sinistra sionista Meretz. È tra i fondatori di Icahd, il comitato contro la demolizione delle case palestinesi da parte delle autorità israeliane.

Che effetti avrà il congelamento temporaneo della riforma della giustizia?

Secondo quanto detto finora, Netanyahu avrebbe l’intenzione di sospendere la riforma per un tempo limitato. Ma ha paura, molta paura che l’ala di ultradestra del governo possa far cadere la coalizione. Ben Gvir e Smotrich in particolare, i membri del partito fascista, hanno minacciato di abbandonarla se la riforma sarà fermata. Il governo cadrebbe. Dall’altra parte il sindacato nazionale Histadrut parla di sciopero generale se la riforma dovesse essere portata avanti. Uno sciopero molto pericoloso per Netanyahu, guardate cosa succede all’aeroporto Ben Gurion: i dipendenti minacciano di non far decollare e atterrare nessun aereo, un colpo serio per l’economia israeliana. Netanyahu è chiamato a prendere una decisione molto complessa: o il paese soccombe a un caos sociale e economico mai visto nella sua storia o lui perde il controllo dell’attuale governo. Se dovesse cadere, il premier potrebbe aprire ad alcuni partiti di opposizione per creare una maggioranza nuova, un governo di unità nazionale. Anche questa una scelta difficile, condividere l’esecutivo con chi lo sta criticando da anni. Ma non ha molte altre opzioni: unità nazionale o elezioni.

Meir Margalit

Nella scelta di sospendere la riforma che ruolo hanno avuto l’esercito e i moderati del Likud, il partito del premier?

Un ruolo fondamentale. Pur essendo una società molto militarizzata, l’immagine pubblica dell’esercito è decaduta, non è più quella del passato, i super eroi capaci di miracoli militari. Ma nel momento in cui le forze armate dicono di non voler obbedire agli ordini o i riservisti rifiutano di presentarsi in caserma, agli occhi dei manifestanti sono portatori di legittimità sociale contro un primo ministro concepito come un «anarchico» nel senso negativo del termine. E poi c’è il Likud. La base del partito di Netanyahu è divisa in due: i veterani e i nuovi attivisti. I primi sono molto più moderati della nuova generazione. Tanti politici e sostenitori del partito, la cosiddetta «sinistra del Likud», hanno guardato con favore o preso parte alle manifestazioni. Sono coloro che hanno come modello Begin, considerato un liberale che rispettava il sistema di poteri interni.

La stessa mobilitazione è un movimento conservatore: non mette in dubbio lo status quo né lo stato d’eccezione dovuto alla questione palestinese. La magistratura, oggi difesa in piazza, ha da sempre avuto un ruolo centrale nel «legalizzare» sia l’occupazione dei Territori sia la discriminazione dei palestinesi in Israele.

Molte persone dicono che questa crisi è nata dalla necessità di salvare la democrazia israeliana. Io penso che qui non esiste un sistema democratico. Abbiamo un sistema di potere che io chiamo etnocrazia: una democrazia per un solo gruppo etnico, quello ebreo, mentre i palestinesi in Israele e nei Territori occupati non ne godono affatto. È dunque una mobilitazione liberale ma secondo il concetto di liberismo proprio di Israele, che è di tipo conservatore. È vero che ci sono dei piccoli gruppi progressisti nelle piazze, ma la maggioranza è composta di persone che vogliono mantenere lo status quo, quello che abbiamo vissuto finora: una situazione di apartheid, di violenza interna, in cui il militarismo è parte del dna della società israeliana. Io partecipo alla mobilitazione perché credo che quello che il governo propone sia molto peggio di quanto visto finora ma a differenza della maggioranza dei manifestanti non idealizzo il passato. Temo soltanto che arriverà di peggio.

A novembre 2022 Israele ha eletto il governo più a destra della sua storia, oggi lo contesta. Una contraddizione?

Alle ultime elezioni si sono confrontati due blocchi politici, una destra estrema e una destra moderata. La società israeliana è di destra, la sola distinzione è nel suo grado: c’è una destra religiosa, fascista, fondamentalista e c’è una destra più o meno moderata. La sinistra non esiste più, Meretz è sparito dal parlamento. Israele si posiziona sul lato destro della mappa politica globale, Netanyahu è vicino a Bolsonaro, Trump, Orbán. È questo il dramma vero di Israele: l’utopia socialista sionista delle origini non esiste più. In tale contesto, non sarà il caos attuale a produrre il collasso della società israeliana. Al contrario, questa crisi si produce perché la società ha già collassato da tempo: la sua base è deteriorata da anni, ha perso ogni etica. La violenza che Israele usa nei Territori occupati ha superato qualsiasi linea rossa, si è infiltrata nella società israeliana. Siamo diventati una società violenta che permette a partiti fascisti di entrare al governo

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IL LIMITE IGNOTO. Intervista al veterano Vincenzo Riccio presidente dell’Associazione nazionale delle vittime e all’avvocato Angelo Fiore Tartaglia

 

L’uranio impoverito è uno scarto delle centrali nucleari trasferito anche all’uso militare. È un grande business: le multinazionali dell’energia nucleare risparmiano milioni di dollari per lo stoccaggio sicuro passandolo alle multinazionali delle armi che lo utilizzano come «materia prima» praticamente gratuita per produrre le munizioni anticarro. Gli eserciti di alcuni Paesi acquistano munizioni così prodotte e poi chiudono il ciclo dello smaltimento criminale utilizzandole nei teatri di guerra. Un affare, che porta con sé una devastante pandemia tumorale che colpisce sia civili che militari.
L’annunciata intenzione da parte del Regno Unito di fornire munizioni all’uranio impoverito alle forze armate ucraine ha scatenato un fuoco di paglia mediatico che però sorvola sulle responsabilità dirette degli alti vertici militari e del ministero competente del nostro Paese che volta le spalle alle vittime di questo metallo pesante. Abbiamo raggiunto due persone che da vent’anni si occupano in maniera sistematica della questione: Vincenzo Riccio, veterano e presidente dell’Associazione nazionale vittime dell’uranio impoverito e Angelo Fiore Tartaglia, legale delle vittime e consulente giuridico dell’associazione.

Presidente Riccio come giudica la scelta del governo britannico di inviare in Ucraina munizioni all’uranio impoverito?
È una scelta sbalorditiva che ci amareggia. Noi abbiamo provato sulla nostra pelle pericolosità e conseguenze che l’uso di questo munizionamento provoca.

Quali le conseguenze?
Sappiamo purtroppo che quei territori già duramente provati da oltre un anno di guerra in cui sono stati usati già diversi tipi di armamenti saranno irrimediabilmente contaminati dalle nano polveri frutto delle esplosioni di proiettili all’uranio impoverito, ammesso che non siano già stati usati dalle forze armate russe. Le conseguenze saranno pagate dalla popolazione civile e dai militari che stanno operando sul terreno, soprattutto negli anni a venire com’è successo in Bosnia, Serbia, Iraq e negli altri teatri di guerra dove queste armi sono state usate negli ultimi 30 anni e dove l’incidenza dei tumori è salita a livelli altissimi.

Anche i media mainstream scoprono questa pericolosità…
Leggere in questi giorni i titoli dei maggiori quotidiani italiani ci ha amareggiato molto, per più di vent’anni abbiamo lanciato l’allarme sulla pericolosità di questi armamenti ma tranne rarissime eccezioni siamo stati quasi sempre ignorati, anzi le poche volte che il mainstream ha dedicato qualche trafiletto al problema è stato quasi sempre per avvalorare le tesi negazioniste del ministero della Difesa.

È un cambio di passo?
In realtà si sta strumentalizzando la notizia perché non si ha il coraggio di fare una battaglia seria in parlamento per fermare l’invio di queste terribili armi e metterle al bando. Diversi Paesi Nato continuano ad utilizzarle. La stragrande maggioranza del parlamento ha continuato a votare a favore dell’invio di armi in Ucraina. Purtroppo siamo convinti che finita la buriana la questione sparirà dai giornali e continuerà a rimbalzare sul muro di gomma eretto dal ministero della Difesa. Spero di sbagliarmi.

Avvocato Tartaglia, il ministero della Difesa ha perso in centinaia di sentenze di fronte alle vittime che lei ha rappresentato nei tribunali italiani…
È stato un percorso molto difficile che è durato venti anni. È stato necessario far formare una giurisprudenza del tutto nuova che assumesse il nesso causale tra insorgenza di gravi patologie tumorali ed esposizione all’uranio impoverito. Oggi grazie a questa giurisprudenza quando nelle cause di servizio si dimostra l’esposizione del militare ai fattori di rischio fra cui l’uranio impoverito e le nanoparticelle di metalli pesanti scatta l’inversione dell’onere della prova. Nel senso che se il ministero non vuole riconoscere la causa di servizio deve provare che la patologia è insorta per altre cause. E il ministero viene sistematicamente condannato a riconoscere la causa di servizio non essendo in grado di dimostrare alcunché di diverso dalla realtà.

Ma allora perché il ministero si ostina a negare verità e giustizia alle vittime?
Perché i responsabili, per le spese legali, utilizzano e sprecano i soldi dei contribuenti: il ministero si permette di sborsare copiosi interessi sui risarcimenti che è condannato a riconoscere ma che tarda anche anni a versare. Una costosa strategia da muro di gomma. Anche per questo il mio lavoro è incessante e necessita di una dedizione assoluta. Ad ogni ostacolo che si presenta bisogna essere in grado di trovare il modo di superarlo

Avvocato, cosa pensa di quelli come il generale Tricarico che ancora oggi negano o mettono in dubbio il nesso causale tra esposizione e patologia?
Penso che dovrebbero leggersi le sentenze dei tribunali italiani e smetterla di giocare a nascondino. La giurisprudenza che abbiamo creato in Italia prima o poi varcherà i confini del Paese e aiuterà anche le vittime civili

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CRISI UCRAINA. Pure assolutamente convinti della necessità di una forza di sinistra alternativa in questa rovinosa crisi italiana, consideriamo l’avvento di Elly Schlein alla segreteria del Pd come una occasione importante per […]

Il nodo scorsoio del riarmo

 

Pure assolutamente convinti della necessità di una forza di sinistra alternativa in questa rovinosa crisi italiana, consideriamo l’avvento di Elly Schlein alla segreteria del Pd come una occasione importante per tutti per una opposizione in questo Paese precipitato nell’epoca dell’estrema destra al governo. Tuttavia accadono cose che è impossibile non sottolineare. Soprattutto in queste ore drammatiche, di fronte al discorso minaccioso di Putin che annuncia il dispiegamento di armi nucleari tattiche in Bielorussia, bontà sua dichiarando «nel rispetto del Trattato Start», come se la cosa non mettesse lo stesso il mondo nel terrore.

Parliamo di quello che è accaduto giovedì 23 scorso a Bruxelles alla riunione del Pse, le forze socialiste europee. Dove, e non è chiaro a quale titolo, insieme a Schlein, al premier spagnolo Sanchez e alla premier finlandese Marin e a tanti altri, ha partecipato Jens Stoltenberg, il segretario generale della Nato. La cosa è sorprendente per diversi ordini di motivi. Il primo è che nessuno dei presenti ha avuto a quanto pare niente a che ridire. Sarà stata una sorpresa per molti, oppure era invitato – ma ripetiamo, a che titolo visto che Stoltenberg è stato sì dirigente laburista norvegese ma fino al 2014? Oppure siamo di fronte alla strategia dell’«ospite ingrato»: dare la tribuna a quello che dovrebbe essere un avversario per essere legittimati?

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Schlein a Bruxelles. Poi il nodo capigruppo

Oppure meglio ancora, un revival di memoria, annoverando la triste storia dei leader neoliberisti di sinistra Clinton, Blair e tanti altri che hanno avviato tutte le guerre sporche che

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INTERVISTA. L’ex eurodeputato Pd: «Non c’è nessun automatismo tra il sostegno a Kiev e la crescita al 2% del pil delle spese in armi. Quell'accordo va rinegoziato. Bene che i vertici Ue vadano a Pechino per una soluzione diplomatica». «Giusto che l'Europa ricordi al nostro governo l'obbligo di registrare all'anagrafe i figli delle famiglie arcobaleno. La proposta di legge della destra è solo mostruosa propaganda, la contrasteremo con fermezza»

Majorino: «Sulle spese militari il Pse non si farà dettare la linea dalla Nato»

Pierfrancesco Majorino, ex eurodeputato Pd e ora capogruppo in Regione Lombardia. Giovedì alla riunione dei socialisti europei il segretario generale della Nato Stoltenberg ha chiesto più spese militari, anche oltre il 2% del Pil. Si è notato il silenzio della vostra segretaria Schlein.

Sono sempre stato contrario all’aumento delle spese militari e ho votato in questa direzione all’europarlamento. Ora confermo la mia contrarietà.

Se però si mandano nuove armi all’Ucraina è fisiologico che gli arsenali vadano riforniti.

Non è così per due ragioni. L’accordo in sede Nato sul 2% è stato fatto molto prima della guerra in Ucraina, prevede tempi medio-lunghi e non c’è nessun automatismo con il sostegno a Kiev. Ricordo inoltre che con un sistema di difesa comune europea si potrebbero razionalizzare le spese e risparmiare. L’aumento su base nazionale è un errore, e non c’è alcuna necessità di procedere in questa direzione. Faccio un esempio: l’Italia dovrebbe raggiungere il 2% entro il 2028 ed è assai probabile che questa guerra sia finita. Dunque è possibile tenere separati i due piani.

Stoltenberg ha detto cose diverse al vertice dei socialisti.

Non mi scandalizza che lui difenda i propri interessi, mi sta a cuore che i socialisti non si facciano dettare la linea in politica estera e di difesa dalla Nato. Ognuno faccia il proprio mestiere.

Finora la linea l’ha dettata la Nato.

Si, siamo stati troppo fragili e permeabili sul tema dell’aumento delle spese militari. Il nostro compito è fare di tutto per rinegoziare quell’accordo. E non cedere alla richiesta della Nato che sta usando questa guerra per giustificare un aumento strutturale delle spese militari che è inaccettabile e che era stato pianificato anni prima.

Lei parla di difesa europea. Sull’Ucraina l’Ue è stata finora assai poco incisiva, l’auspicio di chi spingeva per un ruolo diplomatico è rimasto lettera morta.

Diciamo che il negoziato è stato frenato in primo luogo dall’aggressività di Putin. Ma è evidente che l’Ue deve percorrere ogni strada per arrivare almeno ad una tregua.

Nelle prossime settimane andranno in Cina prima il presidente spagnolo Sanchez, poiMacron con von der Leyen. Il piano di pace cinese è stato liquidato troppo frettolosamente?

Se si dice che quel piano non va bene bisogna però sforzarsi per trovare altre strade. Mi rifiuto di credere che tra la resa di Kiev e la sconfitta sul campo della Russia non ci siano altre soluzioni possibili. E dunque sono lieto che l’Europa al suo massimo livello istituzionale assuma una iniziativa rimanendo sempre al fianco del popolo ucraino, senza alcuna terzietà. L’attuale debolezza dell’Unione è colpa di chi l’ha voluta debole, e cioè i nazionalisti, compresi quelli italiani, Meloni e Salvini.

Gli elettori che hanno votato Schlein alle primarie si aspettavano una linea più pacifista?

Il Pd si sta muovendo correttamente. Sul sostegno anche militare a Kiev siamo in continuità, ma c’è una sottolineatura più forte della necessità di una soluzione diplomatica. E di un maggiore protagonismo europeo.

Così facendo il principale riferimento politico di chi non vuole inviare armi sarà il M5S.

Non si fanno scelte come queste sulla base dei sondaggi o dell’inseguimento del consenso. Putin rischia di spazzare via l’Ucraina, le armi servono anche a guadagnare tempo per aprire una fase diversa.

Il commissario Ue Reynders chiede al governo italiano di riconoscere i figli delle famiglie arcobaleno. La destra invece vuole arrestare chi utilizza la maternità surrogata (gpa) all’estero.

Noi siamo per tutelare i diritti dei bambini e per far sì che i sindaci possano continuare a registrarli all’anagrafe. La proposta di legge dlle destre sulla gpa è solo propaganda, non sta in piedi dal punto di vista giuridico, non si può intervenire sulle leggi di altri paesi dove questa pratica è legale. Non è solo una proposta mostruosa, ma anche inattuabile e la contrasteremo con fermezza.

La legalizzazione in Italia della gpa è possibile? Il Pd cosa ne pensa?

Non è all’ordine del giorno e la destra ne parla ossessivamente solo per impedire ai sindaci di registrare i bambini che già ci sono. Noi vogliamo tutelarli, a prescindere da quello che ognuno di noi pensa sulla gpa

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