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ELEZIONI. Da una parte c’è un popolo di destra, dall’altra c’è un popolo che è improprio definire di sinistra, in quanto è costituito più che altro in negativo rispetto al popolo di destra e che potremmo perciò definire “non di destra”
Il colpo grosso contro l’unità del paese e la democrazia
 

In Italia convivono due popoli. Non convivono in verità troppo male. Ma hanno visioni del mondo diverse. Insieme a molti tratti in comune. Non sono l’uno superiore all’altro, anche perché tra i tratti in comune vi sono parecchi difetti. Da una parte c’è un popolo di destra, dall’altra c’è un popolo che è improprio definire di sinistra, in quanto è costituito più che altro in negativo rispetto al popolo di destra e che potremmo perciò definire “non di destra”. Le loro relazioni politiche dipendono dalle istituzioni che li rappresentano. Cioè dai partiti. Per un lungo periodo di tempo, la Democrazia cristiana ha fatto da trait-d’union tra i due popoli. Dai primi anni ’90 il trait d’union si è spezzato, promuovendo un’asperrima opposizione politica, anche se, per fortuna e finora, senza eccessive ricadute sulla convivenza civile.

Al momento, il popolo di destra ha una rappresentanza a tre punte, piuttosto collaborative tra loro. Il popolo “non di destra” ha invece una rappresentanza infinitamente più frammentata e decisamente litigiosa. Alle prossime elezioni, la rappresentanza del popolo di destra si presenta compatta e con un preciso programma di ridisegno radicale del regime democratico: presidenzialismo da una parte, regionalismo differenziato dall’altra. Sarà un colpo mortale all’unità del paese e alla democrazia come comunemente la s’intende.

A questa scadenza, la rappresentanza a tre punte si prepara dal lontano 2011, quando il governo Berlusconi IV fu fatto cadere dalle autorità dell’Unione europea. Senza troppo concertarlo, ha tenuto ben allertato il suo popolo. Ha incessantemente alimentato l’incompatibilità tra sé e la rappresentanza “non di destra”. L’ha fatto dall’opposizione e l’ha fatto anche quando ha collaborato al governo con le rappresentanze “non di destra”.

Altra è la storia del popolo “non di destra”. Perché è storia delle divisioni tra le formazioni politiche che gli fanno da portavoce. Grosso modo, si dividono in due. Da un lato i partiti che hanno archiviato la tradizione della sinistra socialista e socialdemocratica e quella del cattolicesimo sociale. Abbracciata la Terza via, si sono riconvertiti alla priorità dello Stato sul mercato. Il Partito democratico l’ha fatto tra mille oscillazioni, ma sembra chiaro con quale profilo (non parliamo, per carità, di programmi) intenda sottoporsi al giudizio degli elettori. L’intesa con Calenda, che non nasconde la sua opzione pro-market, derubrica a foglia di fico l’accordo stipulato con Articolo Uno e Verdi-Sinistra Italiana. È lo schema adottato nel 2008 da Veltroni, che – all’insegna del voto utile – gonfiò provvisoriamente il seguito elettorale del Pd, ma condusse a una trionfale vittoria dello schieramento guidato da Berlusconi.

Dal lato opposto, vi sono formazioni politiche rimaste fedeli alla tradizione: specie a quella del welfare State. Ormai prossimo ad esse è il M5Stelle, che in un dato momento della sua parabola ha attratto, provvisoriamente, una discreta quota di elettorato di destra, ma che ha costruito le sue fortune dall’inizio dello scorso decennio attraendo elettori proprio dal Pd e da altre formazioni collocate sul centrosinistra (Italia dei valori), avanzando un’offerta di rigenerazione morale della vita pubblica. Da ultimo, il Movimento parrebbe essersi collocato piuttosto tra le formazioni pro-welfare.

Sotto il profilo elettorale, i partiti che coltivano il primo orientamento, cioè il Pd, hanno più seguito. Gli altri hanno seguito modesto. Non sappiamo, per contro, come si potrebbe distribuire il popolo “non di destra”, una parte non secondaria del quale ormai da tempo testimonia la sua sfiducia nelle sue rappresentanze, astenendosi dal voto, ove gli fosse sottoposta una scelta dicotomica.

In politica contano molto le inerzie e l’elettorato del Pd, che ne ha già viste tante, sembra essergli affezionato, quali che siano le sue scelte politiche. È da vedere se in nome del voto utile resisterà alla presenza nelle sue liste anche della maggior responsabile delle terribili condizioni in cui versano la scuola e l’università in Italia.

I partiti fanno calcoli. Fondati, inutile nasconderlo, non su motivazioni ideali e progetti di società, ma su convenienze elettorali. Ciò che i partiti calcolano di rado, ed è gravissimo, sono i costi che il loro popolo pagherà ove fossero sconfitti. L’esperienza del governo Berlusconi durante il triennio 2008-2011 è stata terribile. La finanza pubblica fu devastata. Oltre a scuola e università, furono distrutte le amministrazioni locali, le amministrazioni pubbliche, la sanità e quant’altro.

I cittadini ne pagarono il costo due volte. La prima perché privati di importanti servizi, la seconda perché le condizioni della finanza pubblica li costrinsero ad ulteriori sacrifici. Questa volta, in ragione della vigente legge elettorale, che nessuno si è curato di modificare, la destra a tre punte potrebbe addirittura ottenere una maggioranza parlamentare che le consenta di stravolgere a suo piacere la costituzione, cui i partiti “non di destra” si dicono affezionati.

Ebbene, la responsabilità che incombe su questi ultimi è enorme. Quella che Thomas Piketty ha chiamato la “sinistra brahmina” come al solito se la caverebbe con poco. Mal che vada fuggirà oltre confine. La media degli italiani non potrà farlo. Va da sé che la responsabilità maggiore spetterebbe al partito più grande, cioè il Pd, ma una quota di responsabilità toccherebbe pure agli altri partiti.

Antonio Floridia e Gaetano Azzariti hanno avanzato più che ragionevoli proposte di collaborazione minimale, non per evitare i danni, ma per limitare quelli più gravi. Stiamo ancora aspettando che i partiti “non di destra” facciano la mossa giusta: sedersi intorno a un tavolo. Ci accingiamo a celebrare il centenario di un altro terribile errore.