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di Tomaso Montanari martedì 8 agosto 2017  

La nuova legge urbanistica della regione Emilia-Romagna, una volta all'avanguardia del buongoverno del territorio, legittima l'abusivismo della speculazione immobiliare. la Repubblica, 8 agosto 2017


L'altra faccia dell’abusivismo speculativo che sfigura l’Italia è lo stravolgimento della legislazione del territorio, non di rado tesa a sanare preventivamente gli abusi, anzi a trasformare l’abuso in legge, sostituendo alla pianificazione pubblica l’iniziativa dei costruttori. È successo con la Legge Obiettivo e il Piano Casa di Silvio Berlusconi, e poi con lo Sblocca Italia di Matteo Renzi, in una continuità ideologica garantita dal fatto che tutti questi provvedimenti furono voluti e costruiti da Maurizio Lupi, mai pentito apostolo del cemento.

 

Ma ora, e la notizia è clamorosa, questa tendenza rischia di raggiungere l’apice in Emilia-Romagna: cioè nella regione rossa che è stata la culla della migliore urbanistica italiana. È quanto succederebbe se il Consiglio Regionale emiliano approvasse la legge urbanistica licenziata dalla Giunta Bonaccini. L’articolo cardine di questa legge è il 32, che al comma 4 stabilisce che il Piano Urbanistico Generale dei comuni emiliani «non può stabilire la capacità edificatoria, anche potenziale, delle aree del territorio urbanizzato né dettagliare gli altri parametri urbanistici ed edilizi degli interventi ammissibili». Tradotto vuol dire che i cittadini non potranno più decidere, attraverso i loro eletti come, dove, quanto cresceranno le loro città. È l’idea antitetica a quella del piano, cioè di una crescita sostenibile, governata ed equa.

 

Ma se non decide la comunità chi decide? Semplice: decide la speculazione. Il futuro del territorio emiliano è affidato - denuncia un documento firmato dai migliori urbanisti italiani - «agli accordi operativi derivanti dalla negoziazione fra l’amministrazione comunale e gli operatori privati che hanno presentato al comune un’apposita proposta (art. 37, c. 3), da approvare in 60 giorni, tempo proibitivo per i comuni. E siffatti accordi “sostituiscono ogni piano urbanistico operativo e attuativo, comunque denominato” (art. 29, c. 1, lettera b). La conseguenza è un piano urbanistico comunale privo di contenuti dimensionali e localizzativi: non si sa quante saranno e dove saranno ubicate le nuove residenze, le attività produttive, le attrezzature e i servizi».

 

La stessa legge prevede che ogni comune emiliano possa continuare a consumare il suolo, nella misura del 3% del territorio urbanizzato. Per capire la gravità di questo dato bisogna ricordare (come fa l’Ispra: il nostro massimo istituto di ricerca sull’ambiente, un ente pubblico occupato dai ricercatori precari che il governo non riesce, incredibilmente, ad assumere) che dal 2012 ad oggi è come se in Italia si fosse costruita una città grande quanto Roma. Ora, non solo il 3% è assai lontano da quel consumo di suolo zero che l’Unione europea fissa come obiettivo inderogabile per il 2050, ma soprattutto la legge contiene tali deroghe (assai vaghe: per opere d’interesse pubblico per le quali non sussistano «ragionevoli alternative»; per «ampliamenti di attività produttive»; per «nuovi insediamenti produttivi d’interesse strategico regionale»; nonché gli interventi previsti dai piani urbanistici previgenti autorizzati entro tre anni dall’approvazione della nuova legge) da indurre a conteggiare che il consumo di territorio reale sfiorerà, in Emilia, il 10%.

 

Aggiungiamo che la legge prevede che si possano «individuare le parti del centro storico prive dei caratteri storico architettonici, culturali e testimoniali, nei quali sono ammessi interventi di riuso e rigenerazione, ai fini dell’eliminazione degli elementi incongrui e del miglioramento della qualità urbanistica ed edilizia dei tessuti urbani, ed è ammesso l’aumento delle volumetrie preesistenti». Una misura che segna la fine di quella dottrina, emilianissima, che vede nei centri storici organismi vivi e unitari, che non si possono distruggere selettivamente, magari per speculazioni che spingono, a seconda dei casi, verso una gentrificazione del lusso (la direzione di Venezia, e ora di Firenze) o verso la moltiplicazione di supermercati o fast food.

 

Al fondo, l’idea di questa legge è che il territorio non vada governato, ma affidato al mercato, cioè alla legge del più forte: un abusivismo di Stato. O di Regione.