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LAVORO SOMMERSO. Ore 15, salta in aria una turbina 30 metri sott’acqua nell’impianto di Bargi, nel bolognese. È un massacro, tre morti e quattro dispersi

 La centrale idroelettrica di Bargi (Bologna) nel bacino artificiale di Suviana foto LaPresse

Tre morti, cinque feriti e quattro dispersi. È questo il bilancio provvisorio dell’incidente di ieri alla centrale idroelettrica di Bargi, sul lago di Suviana, nell’appennino bolognese. Mentre andiamo in stampa le operazioni di soccorso sono ancora in corso, ma il fumo, la polvere dei detriti e gli allagamenti le rendono difficoltose.

TUTTO HA INIZIO attorno alle 15:00 di ieri, martedì 9 aprile. Al piano interrato -8 della centrale idroelettrica, che sorge quasi interamente sotto il livello del lago, si verifica una violenta esplosione. A saltare in aria è probabilmente una delle turbine, spiega alla stampa il prefetto di Bologna Attilio Visconti. L’esplosione avrebbe portato ad un incendio e, immediatamente dopo, a un’inondazione al piano inferiore, il -9. Al momento dell’incidente erano a lavoro diversi operai, dodici secondo le stime, impegnati nell’adeguamento degli impianti.

La difficoltà per i soccorritori è data anche dalla struttura stessa della centrale, che si sviluppa per settanta metri sotto terra. «I corpi che stiamo cercando dovrebbero essere a circa meno quaranta metri» spiegano i vigili del fuoco. «Speriamo che siano ancora vivi, nonostante l’esplosione abbia causato un vasto allagamento. Speriamo che abbiano trovato ricovero in qualche altra parte della piastra, che è comunque molto ampia» dichiarava ieri in serata il direttore dei vigili del fuoco dell’Emilia Romagna Francesco Notaro.

DEI LAVORATORI coinvolti non si conoscono ancora i nomi. Da subito, però, è emerso come si trattasse non di dipendenti Enel, ma di operai assunti da ditte appaltatrici. Uno solo di loro – non è noto se morto, ferito o sopravvissuto – è un ex dipendente della compagnia, ora inquadrato come consulente di un’altra azienda che opera nel sito produttivo.

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La ricostruzione esatta degli eventi è ancora confusa. Enel ha fatto sapere di aver interrotto la produzione, e che l’erogazione di elettricità alla Regione non è in pericolo. La centrale nel suo insieme sarebbe stata salvaguardata, e la diga non ha subito alcun danno. In attesa di maggiore chiarezza e del bilancio definitivo in termini di vite umane, intanto,

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«Abbiamo fissato la data dell’attacco a Rafah»: macché ritirata, Netanyahu spegne subito le speranze nate dal ridispiegamento delle truppe di Israele, che hanno lasciato il sud di Gaza. Mentre i palestinesi tornano nelle case da cui erano fuggiti. E le trovano in briciole

STRISCIA DI SANGUE. Dopo il ridispiegamento delle truppe israeliane nel sud di Gaza, Khan Yunis riemerge in gran parte distrutta e invivibile

Netanyahu pronto all’attacco a Rafah. «Fissata la data» Gaza. Ciò che resta di Khan Yunis dopo l'invasione israeliana - Ap

La 98esima divisione dell’esercito israeliano è uscita da Khan Yunis dopo mesi di attacchi con la copertura dell’aviazione. Si è lasciata alle spalle una nuvola di polvere che ha avvolto e nascosto per qualche ora la distruzione del secondo centro abitato per importanza della Striscia di Gaza, fino al 6 ottobre scorso abitato da 400mila uomini, donne e bambini. La città che prende il nome dal caravanserraglio costruito dall’emiro Yunus an-Nuruzi, non c’è più. «È distrutta al 90%, irriconoscibile, sono state spazzate via anche le infrastrutture pubbliche, le strade e intere aree», ha riferito una troupe di Al Jazeera. Alcuni sfollati giunti da Rafah e altre località sperando di ritrovare ancora in piedi, danneggiata ma non distrutta, la propria abitazione, hanno detto che non riuscivano a riconoscere le strade dove avevano vissuto per tutta la vita. Maha Thaer, 38 anni, madre di quattro figli, ha detto a una agenzia di stampa che «la distruzione a Khan Yunis è ovunque, e anche l’odore della morte…Non è rimasto nulla, gli edifici residenziali sono stati distrutti, anche le strade con i bulldozer e tutti gli alberi sono stati sradicati…Ho visto gente tirare fuori dalle macerie i cadaveri, uccisi nei precedenti bombardamenti… non c’è più la città, solo rovine, non ho potuto trattenere le lacrime». Thaer tornerà nella sua abitazione. «Non ci sono più le finestre e i muri ma tornerò a casa mia, è comunque meglio di una tenda». Altri invece non andranno a Khan Yunis, almeno per ora. Non si fidano, temono che le truppe israeliane rientrino nella città all’improvviso. Preferiscono stare nelle tendopoli a Rafah, al confine con l’Egitto, sperando che Israele non attacchi anche quella città, come minaccia ogni giorno il premier Netanyahu deciso ad andare avanti fino in fondo «perché la vittoria totale è a un passo». Ieri sera ha confermato che l’attacco a Rafah si farà e che «è stata fissata una data». In questo modo Netanyahu ha

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ISRAELE/PALESTINA. A sei mesi esatti dal 7 ottobre, oggi riparte il dialogo indiretto tra Hamas e Israele, ma la distanza è enorme. Mentre Gaza tocca quota 33.137 uccisi, a Tel Aviv a migliaia manifestano contro Netanyahu: un'auto di sostenitori del premier investe cinque manifestanti, uno è grave

 Folla sugli aiuti umanitari lanciati dal cielo a Gaza - Ap/Mahmoud Issa

Li ha chiamati un «tradimento dell’umanità» i sei mesi in cui Gaza è stata cancellata. Su X Martin Griffiths, il capo di Ocha (l’agenzia Onu per gli affari umanitari) ha parlato di oltraggio globale a cui, però, non pare esserci fine. A sei mesi esatti dal 7 ottobre, dall’attacco di Hamas e l’inizio dell’offensiva su Gaza, sono ridotte al lumicino le speranze che oggi al Cairo i negoziati indiretti tra Hamas e Israele conducano a una via d’uscita.

Il leader politico del movimento palestinese Ismail Haniyeh ha detto che aderirà alla «posizione presentata il 14 marzo»: «Cessate il fuoco completo, ritiro delle forze israeliane, ritorno degli sfollati nelle zone di provenienza, libertà di movimento e un serio scambio di ostaggi».

LA PALLA, dice Hamas, «non è nella nostra metà campo» ma in quella di Tel Aviv che, da parte sua, continua a subire la pressione delle famiglie degli ostaggi (ancora 133 quelli a Gaza). Ieri in conferenza stampa hanno di nuovo accusato il premier Netanyahu di «avere le mani sporche di sangue».

L’ultima goccia è stata l’ammissione dell’uccisione, il 7 ottobre stesso, in un raid israeliano di una donna rapita, Efrat Katz, 68 anni, ma soprattutto il ritorno in Israele del corpo di Elad Katzir, morto a Khan Younis prigioniero della Jihad islami: poteva essere salvato se ci fosse stato uno scambio con Hamas, hanno detto. «Netanyahu – ha aggiunto Einav Zangauke (un figlio ostaggio) – sta deliberatamente deragliando l’accordo».

E chi protesta rischia. Ieri, durante nuove manifestazioni a Cesarea per chiedere elezioni anticipate, la polizia ha distribuito volantini in cui minacciava con due anni di galera i responsabili di «disordini». Ma le scene peggiori si sono viste a Tel Aviv, dove un’auto guidata da degli israeliani filo-Netanyahu ha investito cinque dei migliaia di manifestanti riuniti contro il governo. Uno dei feriti è in grave condizioni.

Intanto, al di là del muro, il bilancio degli uccisi palestinesi raggiungeva quota 33.137. Quelli accertati: altre migliaia, forse 10mila, sono ancora sotto le macerie. Quasi 76mila i feriti, in un pezzo di terra in cui gli ospedali semi-funzionanti sono solo dieci. Lo Shifa, il più importante di Gaza, è «un guscio vuoto con tombe umane», ha detto ieri il capo dell’Organizzazione mondiale della Sanità, Tedros Adhanom Ghebreyesus, dopo che un team dell’Oms ha potuto visitare la struttura in macerie.

Lì si sono consumati crimini inimmaginabili, durante le due settimane di assedio israeliano: centinaia di uccisi dalla fame o da esecuzioni, taglio dell’acqua, demolizioni di interi reparti, arresti arbitrari. Che continuano, seppur sotto silenzio, anche in Cisgiordania e a Gerusalemme. Ieri altri 45. In sei mesi, ai 5mila prigionieri politici palestinesi precedenti, se ne sono aggiunti quasi 8mila.

Nelle carceri israeliane spazio non ce n’è più. Per cui, oltre ad affollare celle già piccole, il governo ha preparato un decreto per finanziare con 154 milioni di dollari l’espansione delle prigioni esistenti

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LA DISMISSIONE. Dagli ingegneri di Modena ai 1.560 di Torino, «uscite volontarie» che nascondono esuberi veri e una produzione in picchiata del 24%

Stellantis manda via 4 mila lavoratori. E il milione è un sogno Operai Stellantis al lavoro in uno stabilimento italiano - Foto LaPresse

Gli ultimi in ordine cronologico sono stati i 130 – su 509 – dell’area Engineering di Modena: si tratta di un quarto dei progettisti che dovevano disegnare le prossime Maserati. E arrivano dopo i tagli pesantissimi agli Enti centrali di Torino che hanno ridotto il settore «Ricerca» dell’ex Fiat a livelli infimi.

Il conto delle «uscite volontarie» da Stellantis in Italia si aggiorna continuamente. Funziona così: l’azienda comunica «esuberi» in ogni stabilimento, i sindacati cercano di ridurne il numero e poi trovano lavoratori disposti ad accettare la lauta buona uscita che Stellantis elargisce loro. Così in teoria di «esuberi» non ce ne sono, in realtà però la dismissione dell’unico produttore di auto in Italia procede spedita.

COME DARE TORTO a ognuno dei 45 mila dipendenti rimasti negli stabilimenti italiani che decidono di lasciare? «Si tratta di uscite volontarie, ma, in assenza di prospettive credibili, quale lavoratore non si guarderebbe intorno?», attacca la Fiom, l’unico sindacato che ha deciso di non firmare gli ultimi accordi in materia di «uscite volontarie».

Il ceo di Stellantis Carlos Tavares

Da quando è nata Stellantis – finta fusione, in realtà acquisizione da parte del gigante francese Psa della piccola olandese-americana Fca – nel 2022 il conto è impressionante: le «uscite volontarie» sono state 1.560 a Torino, 850 a Cassino, 500 a Melfi, 424 a Pomigliano, 121 a Termoli (dove deve ancora vedere la luce la mitica Gigafactory delle batterie che doveva aumentare l’occupazione), 100 a Pratola Serra e 30 a Cento (dove si producono ancora motori diesel senza nuovo futuro produttivo), 23 ad Atessa, 12 a Verrone. Sommati ai 173 di Modena – oltre ai 130 ingegneri ci sono altri 43 operai – il totale è di 3.793, pari a oltre l’8 per cento del totale dei dipendenti italiani.

Va poi tenuto conto che gli «esuberi» richiesti da Stellantis sarebbero stati molti di più e l’idea che la «transizione elettrica prevede un terzo di dipendenti in meno» è un’altra sparata che non ha riscontri in Francia, Germania, Polonia, Serbia e cioè in tutti i paesi europei dove il gruppo produce e l’occupazione è rimasta uguale o perfino aumentata.

CHI NON VUOLE VEDERE la dismissione in atto, continua a bersi la favola del «milione di auto l’anno». Un obiettivo completametne irrealistico anche nel 2024.

Il ministro delle Imprese e made in Italy Adolfo Urso

Ogni tre mesi dall’ormai lontano 2012, Ferdinando Uliano, da poche settimane promosso segretario generale della Fim Cisl, produce un precisissimo «Report sulla produzione» in Italia. L’ultimo è di questa settima e recita: «Nei primi tre mesi del 2024, dopo due anni di crescita c’è un’inversione di tendenza rispetto al trimestre dell’anno precedente: meno 9,8% rispetto al 2023. Nello specifico sono state prodotte, tra autovetture e furgoni commerciali, 170.415 unità contro le 188.910 del 2023. La produzione di autovetture segna un -23,8%, pari a 105.255. Negli stabilimenti di produzione delle auto abbiamo riscontrato una situazione particolarmente negativa. Fatta eccezione per Pomigliano, gli altri quattro stabilimenti dimezzano la produzione con flessioni molto significative». Numeri che «allontanano l’obiettivo di 1 milione di veicoli», prevede Uliano, che dà un giudizio molto negativo del comportamento di Stellantis: «Senza un piano preciso e condiviso per la transizione industriale attivabile immediatamente, il rischio licenziamento e desertificazione industriale diventa certezza».

LO STESSO ULIANO, insieme anche alla Uilm, da tempo chiede a Stellantis di portare in Italia produzioni di modelli di classe B, le ex utilitarie, come furono la Punto per Melfi e la Panda per Pomigliano, chiesta a gran voce perfino dal vescovo Beniamino De Palma ai tempi di Marchionne.

ESATTAMENTE IL RIBALTAMENTO della filosofia dello stesso Marchionne che con la fusione con Chrysler decise di puntare tutto sulle auto di alta gamma – le Jeep in primis, assemblate a Melfi e spedite negli States – sulle quali il margine di guadagno è superiore. Ma se il margine di guadagno è superiore rispetto alle utilitarie, il numero di auto vendute è molto inferiore e proprio quella «rivoluzione» nella nazione della Cinquecento, della Seicento e poi della Uno ha prodotto riduzioni drastiche delle produzioni e un decennio di cassa integrazione per i lavoratori.

LA SVOLTA DEL RITORNO dell’unità sindacale è dunque figlia della presa d’atto da parte dei «sindacati firmatari» che la rivoluzione di Marchionne è fallita e va totalmente ribaltata: tornare a produrre auto per tutti, non solo per i ricchi.

L’idea va di pari passo con la fine dello storico monopolio Fiat in Italia. Anche in questo caso era stata la Fiom la prima a proporlo proprio durante il referendum di Mirafiori nel 2011. L’allora responsabile auto Giorgio Airaudo parlò della necessità di avere un secondo produttore. Quattordici anni dopo ora lo propone il ministro Urso. Che però non ha ancora trovato veri pretendenti. E che non sembra avere il coraggio di rompere il tabù torinese di abbattere il monopolio degli Agnelli. La famiglia che continua a guadagnare miliardi mentre i torinesi continuano a perdere lavoro

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TRIPOLITALIA. Le autorità italiane accusano la Mare Jonio di aver creato il pericolo in mare, senza chiedere prove ai partner libici che giovedì avevano aperto il fuoco verso naufraghi e soccorritori. Nel verbale della detenzione le parole del capitano Buscema: «Una vergogna che il governo del mio paese sostenga e finanzi questi criminali»

 Un momento del soccorso della Mare Jonio, con i naufraghi in acqua dopo l’arrivo della motovedetta Fezzan - Mediterranea

Libici finanziati dall’Italia a bordo di una motovedetta appartenuta alla guardia di finanza creano il panico durante un salvataggio, sparano verso naufraghi e soccorritori, minacciano con i mitra l’equipaggio di una nave che batte bandiera tricolore. Il governo Meloni non protesta con gli sparatori, al contrario: punisce gli sparati. Questo è successo negli ultimi tre giorni tra le acque internazionali del Mediterraneo centrale e Pozzallo, dove venerdì sera la Mare Jonio ha ricevuto un fermo di 20 giorni.

Il messaggio è chiaro: la premier Giorgia Meloni, il ministro degli Esteri Antonio Tajani, quello dell’Interno Matteo Piantedosi, il titolare delle Infrastrutture Matteo Salvini sono disposti a coprire qualsiasi cosa alla sedicente «guardia costiera» di Tripoli. È un gioco pericoloso, perché garantire impunità a chi negli ultimi mesi si è mostrato sempre più aggressivo rischia di aggiungere morti ai morti, responsabilità a responsabilità. Da entrambi i lati del mare.

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Mediterranea soccorre, i libici sparano. È caos

QUALCUNO LA VITA potrebbe averla persa già giovedì scorso. «Ho visto i libici passare sopra a un uomo in mare, con il loro motore», ha raccontato ieri nella conferenza stampa dalla Mare Jonio Iasonas Apostolopoulos. È il coordinatore delle operazioni di salvataggio, quello che nel video diffuso dalla Ong grida: «Non sparate, non sparate, è un soccorso». Raggiunto dal manifesto Apostolopoulos specifica di aver notato sia la Fezzan sia il gommone nero dei militari passare sopra due diverse persone, «ovviamente non posso sapere se

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CAMPO LARGO. Il leader M5S: «Consultazione impercorribile, noi mai sleali». Schlein: «Si vede che ha cominciato a fare politica dai palazzi»

Giuseppe Conte ed Elly Schlein Giuseppe Conte ed Elly Schlein - Ansa

Il tema non sono più, o almeno non solo, le primarie baresi. Lo spareggio tra Vito Leccese, capo di gabinetto del sindaco uscente Antonio Decaro e il civico di sinistra Michele Laforgia è ormai saltato. Il che ha conseguenze sui rapporti dentro al campo largo, che finiscono (di nuovo) per incartarsi dopo l’inchiesta giudiziaria per corruzione elettorale e lo spettro della compravendita dei voti. Da qui si arriva allo scontro tra i due leader Giuseppe Conte ed Elly Schlein, esplicito e diretto come non si era mai visto finora.

IL MERITO PASSA quasi in secondo piano di fronte alle questioni di metodo: due giorni fa Conte, poco prima di salire sul palco di piazza Prefettura insieme agli esponenti di tutte le altre forze che sostengono Laforgia, aveva annunciato che quelle primarie non avevano più senso. Su questa forzatura, si è consumato un primo scontro. Laforgia, nei fatti scavalcato dall’ex premier, ci ha tenuto a precisare che l’idea di sospendere la consultazione è stata sua. «Dopo l’esecuzione della seconda ordinanza di custodia cautelare per corruzione elettorale nella prima mattinata del 4 aprile, ho immediatamente rappresentato alle forze politiche della Convenzione per Bari 2024, che sostiene la mia candidatura a sindaco, che non vi sono più le condizioni per tenere le primarie il 7 aprile», ha spiegato. Fatto sta che quell’annuncio, pare all’insaputa di molti dei diretti interessati, l’ha fatto Conte. Il quale ci ha tenuto a difendere la sua posizione. «Non accettiamo mancanze di rispetto e nessuno si può permettere di dire che il Movimento 5 Stelle è sleale», ha sbottato dopo che alcune voci trapelate dal Pd lo accusavano di essersi negato al telefono con la segretaria Pd Elly Schlein.

LE PAROLE del leader M5S suonano come un ultimatum: «Se non ritirano le accuse di slealtà diventerà sempre più difficile lavorare con il Pd – dice ai cronisti – Non possono pretendere che possiamo sottoscrivere tutto quello che viene dal passato. Noi siamo per la legalità, se il Pd è disposto a fare un nuovo percorso senza buttare a mare tutto il passato va bene, altrimenti ne prendiamo atto». La traduzione è semplice, e Conte la ribadisce nel pomeriggio parlando con il M5S barese: si va avanti fino alle elezioni dell’8 e 9 giugno con la candidatura di Laforgia. Gli risponde lo stesso Vito Leccese: «C’è qualcuno a cui non interessa niente della città di Bari ma solo di speculare sulla città di Bari per un calcolo elettorale – dice il candidato appoggiato dal Pd – E la risposta è quella che abbiamo scritto: andiamo avanti, perché non abbiamo paura, non abbiamo nulla da nascondere, andiamo avanti perché vogliamo bene a questa città».

C’È POCHISSIMO margine di manovra per i pontieri. Quelli di Avs (che alle primarie avrebbero marciato di comune accordo su fronti opposti) chiedono che i due aspiranti candidati a sindaco si prendano la responsabilità di trovare una soluzione. È la strada che si fa strada sotto il nome in codice di «terzo uomo». Tra i pochi ad indicarla, nel Pd, c’è Andrea Orlando. «Penso che in questo momento si debba gettare acqua sul fuoco – ragiona l’ex ministro – Bisogna respingere le strumentalizzazioni di Conte, è evidente stia facendo una operazione smaccatamente strumentale perché pone una questione, che ha l’epicentro in regione, in comune. È chiaro che c’è un elemento di furbizia perché spara nella direzione sbagliata». Eppure, prosegue, «per dimostrare la buona volontà delle forze in campo il passo da fare è cercare una terza figura che dia anche il segnale di una capacità di reagire. Più che il tema di chi vince o perde in una coalizione c’è il tema di far vincere la coalizione».

IN SERATA a Bari è prevista la manifestazione in sostegno a Leccese. C’è anche Elly Schlein, che risponde a Conte rivolgendosi al suo candidato: «Avrai il nostro supporto anche se vorrai continuare a cercare con Laforgia quella unità che ieri altri hanno rotto – scandisce la segretaria dem – Anche ieri noi avevamo avanzato la proposta di fare entrambi un passo indietro, per fare insieme un passo avanti. Ma la risposta è stata negativa, evidentemente quella risposta era già stata architettata». Poi un riferimento polemico all’«avvocato del popolo» che ha debuttato nel palazzo: «Io sono qui con voi perché a differenza di altri mantengo la parola data. E mi dispiace per la decisione presa ieri da Giuseppe Conte, unilateralmente, perché così aiutano la destra. Forse chi ha iniziato a far politica direttamente da palazzo Chigi non ha dimestichezza con il lavoro e lo sforzo collettivo della comunità». Parole pesanti, che difficilmente passeranno senza lasciare traccia. Anche perché, come suggerisce l’intuito corsaro di Matteo Renzi, il prossimo step della crisi pugliese riguarda la Regione retta da Emiliano. Con il M5S in maggioranza

 

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