Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *

Clima. Proteste nel giorno dell’assemblea «a porte chiuse» degli azionisti della multinazionale. A Ravenna il no al sito di stoccaggio di CO2

 

Ci si può dichiare «green» continuando a produrre CO2? Eni pensa di «sì», semplicemente mettendo il gas serra delle attività industriali sotto al mare. Lo farà in Inghilterra, nella baia di Liverpool, e ad Abu Dhabi. Lo farà anche al largo della costa di Ravenna, nel Mare Adriatico, utilizzando depositi ormai esausti di gas metano. Da tornare a riempire, questa volta con anidride carbonica. La tecnologia si chiama Ccs, acronimo che sta per «Carbon capture and storage», cattura e stoccaggio di anidride carbonica.

Un progetto strategico per l’azienda, ha detto l’amministratore delegato di Eni Claudio Descalzi che conta molto sul Ccs per raggiungere nel 2050 la tanto sbandierata neutralità energetica. Come? Puntando tutto sul gas (che resta un combustibile fossile inquinante) e provando a ripulire l’aria catturando la CO2 e nascondendola in maxi discariche sotterranee. Quella di Ravenna potrebbe essere la più grande del mondo. Un progetto che non piace agli ambientalisti e ecologisti di tutta Italia, in piazza a Ravenna e a Roma per dire No alla «grande opera».

AD APRIRE LE DANZE GREENPEACE, i cui attivisti ieri mattina a Roma hanno scalato il grattacielo sede generale dell’Eni e, nel giorno dell’assemblea degli azionisti, hanno dispiegato a 50 metri d’altezza uno striscione con la scritta «Eni killer del clima» e la testa del famoso cane a sei zampe che brucia il pianeta. Nel pomeriggio una manifestazione nazionale ha invece portato centinaia di persone a Ravenna per protestare contro il progetto di Ccs di Eni. Mentre a Milano, Napoli, e a Stagno, in provincia di Livorno, ci sono stati presidi contro le politiche energetiche del gigante degli idrocarburi. Un messaggio ai manifestanti è arrivato anche dagli ecologisti di Taranto, «siamo con voi, uscire dal fossile è l’obiettivo fondamentale di tutte e tutti noi».

Greenpeace davanti al quartier generale Eni a Roma

A SCENDERE IN PIAZZA A RAVENNA, a pochi minuti di distanza dal petrolchimico creato negli anni ‘50 del 900 da Enrico Mattei e che aspetta ancora un piano di riconversione, le maggiori sigle dell’ambientalismo italiano: Legambiente, Fridays For Future, Extinction Rebellion, e le 70 associazioni dell’Emilia-Romagna che si sono uniti sotto il nome di Rete emergenza climatica e ambientale Emilia-Romagna. Con loro anche attivisti del comitato Trivelle Zero delle Marche e i ciclo-ambientalisti veneti di Climate-Riders. «No al greenwashing e alla propaganda di Eni, sì alla giustizia climatica», hanno detto al megafono i manifestanti. «Il Ccs è sbagliato e non fa bene all’ambiente – ha attaccato Viviana Manganaro della Rete emergenza climatica – Permetterà di non smantellare gli impianti estrattivi esausti in mare, permetterà alle industrie inquinanti di apparire presentabili nascondendo la CO2 sotto terra, permetterà agli imprenditori e a Eni di non affrontare una vera transizione ecologica verso eolico e solare. Insomma tutti saranno felici e contenti tranne l’ambiente e noi che ci viviamo».

C’è poi il tempo dei soldi. Chi pagherà per il Ccs? Il progetto è stato depennato dal Recovery Plan, ma il ministro per la transizione ecologica Cingolani non ha chiuso definitivamente la porta. «Fino al 30 aprile – ha dichiarato – la Commissione europea ci aveva detto che nel Recovery non doveva esserci la Ccs. Poi il 3 maggio Timmermans (il vicepresidente della Commissione, ndr) ha detto che forse in fase transitoria si può fare. Spero che non ce ne sarà bisogno. Se saremo bravi a fare le rinnovabili, forse non dovremo farla».

INSOMMA NON È DETTO che soldi pubblici non saranno usati per finanziare il Ccs, e questo gli ambientalisti non lo vogliono. Forti anche di autorevoli pareri scientifici che smontano pezzo a pezzo il progetto di Eni. «Produrre CO2 per poi catturarla e immagazzinarla è un procedimento contrario ad ogni logica scientifica ed economica – hanno scritto gli scienziati di Energia per l’Italia – è molto più semplice ed economico usare, al posto dei combustibili fossili, le energie rinnovabili (fotovoltaico, eolico, idroelettrico) che non producono né CO2, né inquinamento». Il Ccs, secondo i ricercatori, non solo potrebbe provocare attività sismiche ma non eliminerebbe «nemmeno l’inquinamento causato da combustibili fossili, che ogni anno causa in Italia 80.000 morti premature». Dunque una tecnologia inutile, potenzialmente pericolosa e costosa.

Perché allora Eni, nonostante tutto, punta sulle maxi discariche sotterranee di anidride carbonica? Perché sono funzionali al suo business ancora basato sui combustibili fossili, spiega il chimico Leonardo Setti dell’Università di Bologna. «Il core business dell’azienda è vendere gas e petrolio, il Ccs allora serve solo per allungare la vita di quelle fonti fossili, iniziando con l’idrogeno blu (prodotto con la combustione del metano e poi «ripulito» mettendo sotto terra l’anidride carbonica). Dal punto di vista scientifico il Ccs non si giustifica in una transizione energetica che porti fuori dal fossile – spiega Setti – piuttosto si riconverta Eni attraverso la ricerca e produzione di batterie elettriche».

AD APPOGGIARE la manifestazione di Ravenna anche la politica. Dalla Regione Emilia-Romagna si fa sentire il consigliere di Coraggiosa Igor Taruffi, che chiede investimenti sull’eolico offshore e non su «un’opera che prolunga la vita delle fonti fossili». I Verdi con la consigliera regionale Silvia Zamboni, da sempre contrari al Ccs, chiedono che la transizione ecologica, quella vera e senza il Ccs, parta dalle industrie a maggioranza pubblica come l’Eni. Mentre da Roma si fa sentire anche il Movimento 5 Stelle. «Il progetto per la cattura e lo stoccaggio dell’anidride carbonica di Eni a Ravenna deve stare fuori dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) – dichiara per il M5s il deputato Alberto Zolezzi, membro della commissione ambiente – Le risorse in arrivo dall’Europa non vanno sprecate per questa iniziativa che non ha nulla di sostenibile. Con il governo Conte II il MoVimento 5 Stelle aveva buttato fuori il progetto dal Recovery Plan e ora non accetteremo che ricompaia».

Commenta (0 Commenti)

Israele/Palestina. Ma c’è anche un’altra novità: la «maturazione» della legge discriminatoria sulla nazionalità esplode con le proteste nelle città miste d’Israele - con forte presenza arabo-palestinese - come Lod, Aco e Ramble, dove mentre scriviamo sono in corso pesanti scontri

 

Nelle ultime ore è diventato tragicamente chiaro che il governo israeliano e Hamas, per ora, non sono interessati alla mediazione di attori internazionali per arrivare a una tregua.

Dopo anni di silenzio rispetto a un conflitto che sembrava dimenticato, tutti si sono svegliati e ammoniscono – adesso se ne accorgono! – che l’occupazione non è una routine accettabile e nasconde contenuti esplosivi. Fattori a lungo occultati o dimenticati sono esplosi ancora una volta, e nuovamente il prezzo da pagare sarà il sangue di entrambi i popoli.
Stati uniti post-Trump – quelli di Joe Biden – , Unione europea, Israele e paesi arabi: tutti si dichiarano «sorpresi». Fra gli israeliani serpeggia la domanda: «Ma come hanno potuto dirci che Hamas non era interessato allo scontro armato?».

La verità è che tanto Netanyahu quanto i leader di Hamas – che aspettavano l’arrivo di altri dollari dal Qatar – proseguivano su una linea che non portava da nessuna parte ma assicurava uno statu quo relativamente vantaggioso. C’erano stati diversi incidenti violenti, durati un giorno o poco più, con un successivo cessate il fuoco mediato dall’Egitto, dal Qatar e dall’inviato delle Nazioni unite.

Ma stavolta, che cosa è accaduto?

Commenta (0 Commenti)

La Città Santa trasfigurata. Guida sintetica alle politiche urbane che hanno reso materiale il dominio israeliano sull’intera città. Per spiegare quanto sta accadendo oggi

 

Per comprendere quel sta accadendo in questi giorni a Gerusalemme è indispensabile avere contezza di come, a partire dal 1967, la Città Santa è stata fisicamente trasfigurata da una serie sistematica di politiche urbane finalizzate a rendere materiale il dominio israeliano dell’intera città. Guardare allo stravolgimento dello spazio urbano è infatti cruciale per capire le ragioni degli scontri di oggi, di ieri e, probabilmente, anche di domani – cogliendone la drammatica ordinarietà e ineluttabilità. A tal fine propongo qui una guida sintetica, per punti, al contesto “spaziale” dei fatti di questi giorni.

1. Al termine della guerra arabo-israeliana del 1948-49, Gerusalemme è stata suddivisa in due parti principali: Gerusalemme Ovest, sotto controllo israeliano e Gerusalemme Est, sotto controllo giordano. È questa la configurazione spaziale della città ancora oggi riconosciuta come legittima dalla gran parte della comunità internazionale.

2. Nel 1967 Israele ha occupato militarmente, tra i vari territori, anche Gerusalemme Est, dichiarando successivamente la Città Santa “unificata” capitale unica e indivisibile dello Stato di Israele. Le Nazioni unite non hanno mai riconosciuto tale annessione, chiedendo più volte il ritorno ai confini pre-1967.

3. All’indomani dell’occupazione di Gerusalemme Est, Israele ha messo in campo una serie di azioni finalizzata a consolidare materialmente l’annessione della parte orientale della città e rendere una futura ridivisione della Città Santa di fatto impossibile. Tali azioni si sono incarnate in un processo che il geografo israeliano Oren Yiftachel ha definito di simultanea «ebraizzazione» e «de-arabizzazione» dello spazio urbano.

4. Il processo di ebraizzazione ha preso corpo attraverso l’espansione fisica della città ebraica nelle aree palestinesi di Gerusalemme Est. In particolare, è stata promossa una poderosa operazione di edificazione residenziale che, nel giro di pochi decenni, ha permesso l’insediamento di più di 200.000 ebrei (pari a circa il 40% della popolazione ebraica della città) a Gerusalemme Est. La maggior parte di queste aree residenziali ebraiche è stata costruita grazie al supporto delle autorità pubbliche. Si tratta, in sostanza, di quartieri di edilizia pubblica, dove «l’uso del termine ‘pubblico’ rivela più di qualsiasi altra cosa il pregiudizio politico del governo: il ‘pubblico’ a cui venivano imposti gli espropri ha sempre compreso anche i palestinesi; il ‘pubblico’ che ha goduto dei frutti degli espropri è stato composto solo ed esclusivamente da ebrei» (Eyal Weizman, architetto israeliano). Le (blande) condanne internazionali di tale processo non hanno sortito alcun effetto concreto.

5. A ciò si è accompagnato a un implacabile processo di de-arabizzazione, finalizzato in primis a diminuire il controllo palestinese del suolo di Gerusalemme Est. Ciò si è inverato soprattutto in ostacoli quasi insormontabili all’espansione urbana dei quartieri arabi. La de-arabizzazione di Gerusalemme è stata perseguita anche tramite l’espulsione di palestinesi da aree da loro abitate da tempo, come nel caso di Sheikh Jarrah. Questi ultimi casi sono un tassello eclatante e drammatico, ma invero quantitativamente minoritario, del processo di de-arabizzazione, le cui forme ordinarie sono ben più sottili. Tra queste, per esempio, la mancata infrastrutturazione dei quartieri arabi con i più basilari servizi pubblici, fatto che ha reso la vita dei palestinesi in città estremamente complessa.

Le parole di Teddy Kollek, sindaco di Gerusalemme per 28 anni, non lasciano spazio a equivoci: «Continuiamo a dire che vogliamo rendere i diritti degli arabi di Gerusalemme uguali a quelli degli ebrei… sono parole al vento… Gli arabi erano e rimangono cittadini di seconda, anzi di terza classe. Per gli ebrei di Gerusalemme negli ultimi 25 anni ho fatto moltissime cose. Cosa ho fatto per gli arabi di Gerusalemme Est? Niente! Marciapiedi? Nessuno. Centri culturali? Nessuno. Abbiamo installato un sistema fognario e migliorato la rete idrica. Ma sapete perché? Pensate che lo abbiamo fatto per il loro benessere? Scordatevelo! C’erano stati alcuni casi di colera in quelle aree e gli ebrei erano spaventati dalla possibilità di essere contagiati a loro volta. Abbiamo adeguato il sistema fognario e idrico delle aree arabe solo per questo motivo».

6. Il tassello finale di questa guerra di pietra e cemento, grazie alla quale Israele si è appropriata materialmente di Gerusalemme Est, è rappresentato dalla costruzione del Muro di Separazione, che solidifica i confini esterni della “Gerusalemme ebraica unificata e indivisibile”, operando al contempo selettive inclusioni ed esclusioni dal sapore squisitamente politico. Mentre include numerose colonie ebraiche in Cisgiordania ubicata nelle immediate vicinanze di Gerusalemme, taglia fisicamente via dalla Città Santa due popolosi quartieri arabi, da decenni parte integrante della municipalità, abitati da decine di migliaia di palestinesi – che, di conseguenza, sono stati nei fatti espulsi dalla città.

È sullo sfondo di questa lenta ma inesorabile conquista spaziale della città da parte di Israele che le vicende di Sheikh Jarrah di questi giorni vanno lette. In caso contrario, si rischia di guardare solo il dito e non la luna che esso indica.

* Università degli studi di Torino

Commenta (0 Commenti)

La protesta contro Eni

SULLA SCENA DEL CRIMINE: Fridays For Future in piazza per denunciare i crimini di Eni

Il 12 Maggio Fridays For Future manifesterà in tutta Italia per denunciare le responsabilità di Eni nella crisi climatica e nella devastazione ambientale dei territori in cui opera.

Il giorno dell’assemblea degli azionisti della prima azienda italiana di idrocarburi, che si terrà online e a porte chiuse, “torniamo a manifestare contro Eni, che cerca di ripulire la sua immagine mostrandosi in prima linea nella produzione di rinnovabili mentre continua ad investire in gasdotti, oleodotti e petroliere”, affermano le attivisti e gli attivisti, “nelle sue pubblicità si presenta come un’azienda green e al fianco delle persone ma nei territori in cui è attiva ha devastato ecosistemi e compromesso la salute delle persone che li abitano, basti pensare al Delta del Niger o, senza andare troppo lontano, alla Val d’Agri o a Gela”.

Nella stessa giornata saranno organizzati presidi a Ravenna, dove convergeranno attiviste e attivisti dall’Emilia Romagna e da tutta Italia per contrastare il progetto di cattura e stoccaggio di CO2, a Milano, a Licata per opporsi a nuove perforazioni in mare, a Stagno, su cui incombe l’ingannevole progetto di “bio”raffineria, a Presenzano contro la nuova centrale Turbogas e a Roma già da oggi.

L’invito è a “partecipare numerose e numerosi per difendere il nostro presente e il nostro futuro da coloro che si stanno arricchendo a discapito della tutela delle persone e dell’ambiente, devastando territori e posticipando pericolosamente l’azzeramento delle emissioni con progetti insostenibili. Per uscire dall’ economia estrattivista e promuovere una società in cui poter vivere e lavorare in un nuovo rapporto con gli altri esseri umani e con il pianeta. È ora che anche lo stato, che è azionista di maggioranza di Eni, si renda conto dell’urgente necessità di abbandonare il modello fossile e le multinazionali che lo perpetuano, interrompendo ogni forma di finanziamento e legittimazione nei loro confronti e investendo in un reale processo democratico di transizione ecologica. Non un euro del Next Generation EU dovrebbe finire nelle mani di chi inquina e distrugge, che ad oggi dovrebbe unicamente occuparsi di bonificare le aree che ha devastato.”

Appuntamenti

RAVENNA 17.00 manifestazione nazionale, piazza Kennedy

ROMA 9:00 – 13:00 presidio metro fermi eur

STAGNO 15.30 – 17:00 presidio + realtà toscane, bioraffineria

NAPOLI (Presenzano, Caserta) h.18.00 presidio – nuova centrale a turbogas

MILANO (San Donato) – 15:00 – 18:00 presidio (performance, striscionata)

LICATA – 17:00 presidio

 

Extinction Rebellion il 12 maggio presidia l’assemblea degli azionisti di ENI e si rivolge al Governo

No a una transizione energetica di facciata con soldi pubblici!

Appuntamento a Roma sotto il palazzo di vetro e a Ravenna in P.za Kennedy contro il CCS.

Mobilitazioni anche a Milano, Torino e altre città in Italia.

 

Mercoledì 12 maggio Extinction Rebellion Italia (XR) presidia l’assemblea degli azionisti di ENI per chiedere al Governo di cessare la connivenza con il cane a sei zampe, principale responsabile italiano delle emissioni di gas serra e del collasso climatico ed ecologico.

A Roma, dalle 9.00 alle 13.00, in Piazza della Stazione Enrico Fermi appuntamento per “far rumore” e pretendere dagli azionisti l’eliminazione definitiva delle fonti fossili dai piani energetici di ENI.

A Ravenna, dalle 17:00 in Piazza Kennedy manifestazione nazionale “Il futuro non si (s)tocca! – NO CCS” per denunciare l’ipocrisia green malcelata dietro il progetto di ENI per la cattura e lo stoccaggio della CO₂ a largo della costa ravennate.

Mobilitazioni anche a Milano, Napoli e in altre città italiane. Tutti appuntamenti che vedranno schierati, accanto a XR, cittadin* e attivist* dei maggiori schieramenti ecologisti locali, nazionali e internazionali tra cui GreenPeace, Fridays for Future e Rise Up for Climate Justice.

I progetti pilota sul CCS nel mondo raccontano una tecnologia con una grossa inefficienza nella cattura, molto costosa, non consolidata, energivora e che perpetua lo sfruttamento dei pozzi e del fossile.

Un dato su tutti: a fronte delle attuali 400 milioni di tonnellate di CO₂ emesse all’anno dall’Italia, ENI prevede di stoccare 7 milioni di tonnellate di CO₂ all’anno sotto il mare di Ravenna entro il 2030 e 50 milioni di tonnellate all’anno entro il 2050, per una capacità complessiva di stoccaggio del sito fino a 300-500 milioni di tonnellate di CO₂.

ENI stima un costo di circa due miliardi di euro per il CCS ravennate e lesina finanziamenti pubblici per realizzarlo. L’Ente Nazionale Idrocarburi è partecipato al 30% dalla Cassa Depositi e Prestiti (controllata dal Ministero dell’Economia e delle Finanze), di fatto è sostenuto dal settore pubblico italiano, con i soldi di tutt*. Questo impone scelte collettive e condivise su come attuare una reale transizione energetica e abbandonare il vigente sistema tossico della finanza fossile.

Il Governo deve rispondere al mandato costituzionale che gli impone di proteggere la salute della popolazione. Il Governo deve fare scelte coraggiose e introdurre le assemblee dei cittadin*, reale strumento di democrazia deliberativa su questioni che, come il CCS, riguardano il benessere e il futuro di tutt*. Sulla base delle migliori evidenze scientifiche, le assemblee delibereranno su strategie e percorsi da attuare per trasformare la società in chiave di neutralità di emissioni e rispetto dei sistemi ecologici, in equità con tutti gli esseri viventi.

Extinction Rebellion chiede al Governo di agire ora, di dire la verità, di andare oltre la politica.

Commenta (0 Commenti)

L’arresto di alcuni latitanti italiani rifugiati in Francia da decenni e protetti dal “lodo Mitterrand” è sì un’applicazione “rigorosa” della legge, attribuendo però alla pena una finalità “retributiva”, cioè “afflittiva”, del tutto estranea alla Costituzione, che le attribuisce solo finalità rieducative (quelle che, come ha scritto Sofri, la Francia aveva ampiamente raggiunto).
E’ stato così aggiunto un miserabile tassello alla versione che da decenni connota gli eventi di cinque decenni fa come “Anni di piombo”, dominati dal “terrorismo rosso”: cancellando sotto questa dizione sia la “Strategia della tensione” e le sue stragi sia le lotte e le conquiste di studenti, operai e popolo contro cui quella strategia era diretta. Una guerra – ancorché “non ortodossa”, come era stata definita dai suoi promotori – che lo Stato italiano ha condotto contro movimenti di massa, colpendo nel mucchio con sequele di stragi, mentre le formazioni armate, nate ai margini di quei movimenti, decidevano di “contrattaccare” con agguati contro uomini simbolo. Crimini da entrambe le parti: superfluo, ormai, fare comparazioni.
Ma nella strategia della tensione sono stati coinvolti molti corpi dello Stato, politici e istituzionali; e tutti ne hanno a loro modo approfittato, trovando poi conveniente non chiudere più quella fase, come sarebbe stato possibile e opportuno. Oggi Draghi e Cartabia non fanno che intascare la loro quota della rendita politica che quella non-decisione ha generato. E la “pena retributiva” sostituisce, per molti parenti delle vittime di un tempo, quel “risarcimento” che lo Stato avrebbe dovuto offrir loro con un processo di “riconciliazione”.
Condivido il dolore dei parenti delle vittime (tutte) del terrorismo, a partire dalla moglie e dalle figlie di Pinelli, vittime del terrorismo di Stato; e senza escludere la vedova e i figli del commissario Calabresi: so che cosa significa crescere senza un padre, anche se il mio

Commenta (0 Commenti)

Brevetti. In difesa di Big Pharma è rimasta fino all’ultimo la Commissione europea e i Paesi dell’Ue, tra questi il governo italiano. Draghi non ha ancora risposto al Comitato italiano

La decisione dell’amministrazione Biden è di estrema importanza e potrebbe rappresentare una svolta storica nella lotta contro la pandemia. È altresì il risultato dell’enorme pressione organizzata in tutto il mondo dalle reti associative attive in difesa del diritto alla salute, che hanno costruito alleanze con ampi settori del mondo scientifico, artistico e culturale. Vi è stato un susseguirsi impressionante di appelli in sostegno della moratoria: l’Oms, l’Unaids, l’Unitaid, la “Commissione Africana per i Diritti Umani”, 243 Ong e 170 personalità, fra cui numerosi premi Nobel. Prese di posizione che hanno rafforzato l’azione dell’ala sinistra del Partito Democratico statunitense verso il presidente.

Alla base della decisione di Biden vi sono anche ragioni di opportunità mediatica ed economica: nello scenario interno può rivendicare la propria coerenza con quanto dichiarato in campagna elettorale sulla necessità di una risposta globale alla pandemia; nello scenario internazionale si pone come il salvatore dell’umanità, rimette gli Usa al centro dello scenario mondiale e contemporaneamente risponde agli allarmi lanciati da diversi centri studi di economia, secondo i quali il crollo del sud del mondo – geografico ed economico – con la conseguente contrazione del mercato globale, avrebbe prodotto una danno economico enorme nei Paesi maggiormente sviluppati, primi tra questi gli Usa.

QUESTE REALI contraddizioni interne all’attuale capitalismo neoliberista, nulla tolgono né all’oggettività importanza delle decisioni della Casa Bianca, né alla possibilità che, grazie a tale scelta, molte, forse milioni, di vite umane possano essere risparmiate.

A difendere gli interessi di Big Pharma è rimasta fino all’ultimo la Commissione europea e i Paesi dell’Ue, tra questi il governo italiano; il 19 aprile il Comitato italiano impegnato nella raccolta di un milione di firme sull’Ice- l’Iniziativa dei cittadini europei – “Diritto alla cura. Nessun profitto sulla pandemia” aveva inviato al presidente Draghi una lettera con le firme di oltre cento associazioni nazionali, tra le quali tutti i principali sindacati, chiedendo che il governo appoggiasse la moratoria sui brevetti richiesta dall’India e dal Sudafrica con l’appoggio di un centinaio di Paesi, e che esercitasse tutta la sua influenza per obbligare la Commissione europea a modificare la propria posizione.

Stiamo ancora aspettando la risposta. Ora, dopo la decisione di Biden, dalla presidente della Commissione europea ai ministri italiani è un susseguirsi di dichiarazioni di disponibilità alla trattativa. Non esprimo alcun giudizio, saranno i lettori a valutare l’eticità di simili comportamenti; mi auguro solo che a queste tardive dichiarazioni seguano comportamenti conseguenti.

Fino ad ora ci siamo battuti perché avesse inizio la partita, ossia la discussione sulla moratoria; ora che la partita ha inizio il gioco si fa estremamente duro e c’è bisogno di tutti. Big Pharma si è già scatenata alternando dichiarazioni minacciose “con queste decisioni sarà più difficile sconfiggere la pandemia”, a lacrime di coccodrillo sulle conseguenze economiche di queste scelte, dimenticandosi non solo che questi vaccini sono stati prodotti con ampi finanziamenti pubblici – ad esempio secondo quanto riportato dal the Guardian il vaccino AstraZeneca è stato prodotto con il 97% di soldi pubblici o provenienti da enti di beneficenza – ma anche ignorando i profitti stratosferici realizzati in questi mesi e nei prossimi. Infatti, la proposta di moratoria non prevede un esproprio, ma anzi un risarcimento, da definire in ambito Wto, alle aziende possessori del brevetto.

PER CONTRASTARE questa azione lobbistica sarà fondamentale, nelle prossime settimane, il ruolo della società civile nel premere per una rapida e soddisfacente soluzione per la salute dell’umanità. E’ importante rafforzare da subito la raccolta di firme “Diritto alla cura. Nessun profitto sulla pandemia” per obbligare la Commissione e gli stati europei a modificare a 180° la propria posizione. Il tempo è un fattore fondamentale; è diverso raggiungere un accordo tra una settimana o tra sei mesi, ogni giorno che passa ci sono delle morti evitabili.

E’ necessario vigilare perché l’accordo non sia una semplice dichiarazione d’intenti che rimane poi irrealizzabile, come fu la dichiarazione di Doha del 2001, nella quale il Wto affermava che la tutela dei brevetti non avrebbe mai dovuto impedire ai governi di fornire la miglior assistenza sanitaria possibile ai loro cittadini. Parole sante, ma solo parole.

Quello per cui ci battiamo è l’affermazione del diritto alla salute per tutti, non un aumento dell’intervento caritativo. La carità è importante, ma non può sostituire la fruibilità di un diritto, può eventualmente rafforzarlo.

AI TEMPI DELLA pandemia da Aids, pur di mantenere i brevetti fu attivato il “Fondo Globale Aids Tbc Malaria” attraverso il quale raccogliere fondi da privati e da Stati per distribuire farmaci ai Paesi poveri. In questi casi è sempre il “ricco” che decide a chi dare e cosa dare: in Africa sono ancora milioni le persone Hiv+ che non possono curarsi. E’ la filosofia proposta dalla Fondazione Gates e sostenuta anche da Big Pharma, che oltretutto potrebbe capitalizzare un’immagine di buon mecenate.
Quello di ieri è un passo importante, forse storico, ma la strada è ancora lunga.

Commenta (0 Commenti)