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Riflessione collettiva. Non è sufficiente invocare una cultura politica di sinistra. E’ il punto di arrivo, non di partenza. Dobbiamo chiederci come nasce una domanda di sinistra nel quotidiano

Un’opera di Idelle Weber

La lettura del documento “Governare la società del dopo Covid”, a cura del network “Ripensare la cultura politica della sinistra”, è salutare. Una riflessione collettiva sui temi analizzati potrebbe rappresentare un buon punto di partenza per la costruzione di una piattaforma di sinistra.

Le proposte sono di alto profilo e all’altezza dei tempi. Stato, diseguaglianza/e, ricomposizione sociale, accumulazione e capitalismo, mobilitazione sociale: grandi questioni di sfondo, ricomposte in un quadro organico. Più politica che politiche, più coordinate di sfondo che proposte operative (pur non del tutto assenti), ma con una trama unificante.

La diagnosi di partenza è quella del deficit di idee: sono stati persi troppi decenni (non anni, decenni) inseguendo parole d’ordine e proposte che, semplicemente, non sono di sinistra. Occorre rimettere le cose al loro posto. Se nel paese manca una destra liberale, non può essere la sinistra a occuparne il posto. Servono idee di sinistra, che però non camminano da sole. Nel paragrafo dedicato alla mobilitazione sociale si ribadisce la necessità di rinforzare i corpi intermedi e la rappresentanza, contro la narrazione di una politica disintermediata. Obiettivo, questo, tanto importante quanto sconsolante.

Lo stato della rappresentanza politica e l’inconsistenza dei processi di selezione della classe dirigente sono la plastica rappresentazione del flebile raccordo tra la politica che decide nei luoghi del potere e la domanda di sinistra diffusa nel paese. Il tema, diciamolo con chiarezza, non è invocare la società “buona” e contrapporla alla politica “cattiva”.

È, piuttosto, riconoscere che quel (poco o tanto) di valore che c’è nella società non alimenta materialmente la classe dirigente e la composizione della rappresentanza. I saperi diffusi non diventano potere costituito. La domanda di sinistra radicata nella politica del quotidiano non trova un’offerta di partito e una classe politica all’altezza delle aspettative. Per questo, si rifugia nell’astensione o si fa sedurre da troppo semplici proposte.

Le ragioni di questo mancato raccordo sono, in parte, contenute nel documento programmatico, ma si tratta di risposte parziali, come scrivono gli stessi firmatari : “Come arrivarci è certo una domanda difficile, ma qualcosa sappiamo, benché sia lecito chiedersi se siano immaginabili altri vettori in grado di supplire alla debolezza dei partiti.

Sappiamo che un partito si riconosce in una cultura politica condivisa circa l’ordine possibile della società e si organizza per promuovere le sue idee”. Non è sufficiente invocare una cultura politica di sinistra. Questo è il punto di arrivo, non quello di partenza. Dobbiamo piuttosto chiederci perché e a quali condizioni nasce una domanda di sinistra, nel quotidiano e nei vissuti delle persone.

Quali sono le condizioni materiali, sociali e organizzative che stimolano una riflessività di sinistra e una domanda sociale rivolta alle idee contenute nel documento? La risposta non può che essere una: quando le persone articolano un discorso pubblico – quindi potenzialmente valido per tutti – atto a soddisfare contemporaneamente un bisogno/interesse privato e un progetto pubblico.

La domanda di sinistra non deve caratterizzarsi per il sacrificio degli interessi oggettivi, di classe, etnia o genere: ma deve negoziarli in modo trasparente alla luce della loro valenza collettiva e a salvaguardia di chi non può difendere tali interessi, vuoi perché marginale e privo di potere, vuoi perché non ancora nato.

La domanda di sinistra è costruita da un impegno congiunto orientato a un futuro condiviso, valido qui e ora per i miei bisogni/interessi e domani per il mio “io futuro” insieme a “voi”. Ci sentiamo parte di un progetto collettivo con queste caratteristiche solo se esistono luoghi, spazi e oggetti mobilitanti, piattaforme e processi dove i bisogni individuali qui e ora si intrecciano con soluzioni collettive proiettate nel futuro.

In quali occasioni, oggi, abbiamo questa possibilità? Quanto spesso abbiamo occasione di sperimentarci, insieme ad altri, in azioni pratiche dove i nostri interessi incrociano soluzioni che chiamano in causa gli assetti sociali più generali e i bisogni di chi è privo di voce?

Oggi, la sfera privata del consumo e della riproduzione si è schiacciata sulla competizione di status, il cui valore sociale è la distanza guadagnata rispetto agli altri. La famiglia è il luogo per la mobilitazione di risorse private, il cui obiettivo è non precipitare lungo la stratificazione sociale o cogliere le poche buone occasioni offerte da un mercato del lavoro asfittico.

Per ripensare la sinistra, si sostiene nel documento, serve una nuova cultura politica basata su: “una capacità di critica dell’esistente e un impianto intellettuale predisposto a mantenere in campo un punto di vista alternativo. Il cambiamento delle cose si fa nelle cose, ma senza idee non si va da nessuna parte”. Ricordiamoci però che se le idee sono fondamentali, le condizioni quotidiane e materiali della loro genesi e diffusione lo sono anche di più.

Twitter: @FilBarbera

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Spagna . Il messaggio che viene lanciato dalla Ayuso al PP è netto: per seppellire il governo progressista di Sanchez e l’alleanza con Podemos su cui si basa è necessario far cadere ogni ambiguità e cavalcare la crescente rabbia popolare diffusasi in questo anno di confinamento

Murales

Ciò che è uscito dalle urne martedì scorso nella regione di Madrid è molto chiaro: ha vinto la destra e ha perso la sinistra. Meno evidente è forse la portata della sconfitta, che va detto con nettezza non riguarda solo il governo della regione, apparso fin dalla convocazione delle elezioni un dettaglio. Il voto della comunità di Madrid è destinato a scuotere tutti gli equilibri politici nazionali e forse avere anche conseguenze imprevedibili su quelli europei. Un po’ di chiarezza la fanno le dimissioni di Iglesias e il conseguente passaggio di consegne a Yolanda Diaz.

A lei è affidato il percorso e la responsabilità di ricostruire lo spazio politico di Unidas Podemos. Non sembra invece farsi largo fra i socialisti spagnoli, la forza che più è stata penalizzata dall’elettorato della comunità di Madrid, la consapevolezza che dalle urne emerge una nuova destra, guidata dal PP di Isabel Ayuso, un partito popolare che abbandona la sua faccia moderata e centrista, fondata sul rapporto con Ciudadanos, per assumere il volto di Vox, la destra neo franchista. Elettrici ed elettori hanno emesso un chiaro certificato di morte dell’operazione politica tentata nel 2014 dai poteri forti spagnoli, di dar vita, dopo la nascita e i successi di Podemos, a un partito moderato e di centro come Ciudadanos.

La crisi globale, ambientale, economica e sociale, che la pandemia ha solo fatto precipitare, ha ristretto, se non azzerato, gli spazi sociali, prima che elettorali, di una destra liberal e moderata. Il messaggio che viene lanciato dalla Ayuso al PP è netto: per seppellire il governo progressista di Sanchez e l’alleanza con Podemos su cui si basa è necessario far cadere ogni ambiguità e cavalcare la crescente rabbia popolare diffusasi in questo anno di confinamento. Una radicalizzazione la cui onda travolgerà oltre al governo anche la eterogenea maggioranza che lo sostiene, chiudendo la partita con l’indipendentismo non solo catalano.

Questo è il livello dello scontro con cui le sinistre, moderate o radicali che siano, devono fare i conti dopo questo voto di Madrid. Va detto con chiarezza che non è un fenomeno solo spagnolo, ma da Madrid parte un segnale a tutta la destra europea che può mettere rapidamente in crisi il tentativo di rilanciare il progetto europeo con il NextGenerationEU.

Sono quindi urgenti decisioni su come reagire a questa nuova destra e alla radicalizzazione dello scontro sociale che imporrà. Una prima scelta spetta a Sanchez e al governo che dirige: per fermare le destre conviene ridimensionare le ambizioni di trasformazione fin qui espresse dal governo progressista o al contrario rilanciarle ribadendo scelte programmatiche e alleanze? In altre parole facciamo di Sanchez il Draghi spagnolo in modo da ricreare spazi e credibilità ad una destra moderata o al contrario si rilancia l’accordo con Unidas Podemos e gli impegni presi con loro sulla transizione ecologica e sulla giustizia sociale?

L’impressione è che ridimensionare alleanze e programma aprirebbe le porte ad una sconfitta definitiva e di lungo periodo delle due sinistre. Si snaturerebbe non solo la svolta che Sanchez impose al Psoe vincendo le primarie e che mise fine ai governi di unità nazionale. Soprattutto liquiderebbe quella nuova Spagna invocata dal moto di indignazione che percorse tutte le città spagnole nel 2011 e a cui Podemos ha dato prima rappresentanza politica e poi portata al governo nazionale. Insomma i socialisti spagnoli non possono dopo il voto di martedì mantenere una ambiguità su questo terreno.

Comunque la si giudichi la scelta di Pablo Iglesias di abbandonare gli incarichi prima di governo e ora la guida del partito contiene una coerenza di fondo e cioè che lo spazio politico conquistato con la nascita di Podemos non lo si difende vivacchiando, ma compromettendolo con lo scontro sociale e politico che decide il futuro del paese. Nelle stesse dimissioni c’è la convinzione che l’alleanza fra il nuovo Psoe di Pedro Sanchez e la nuova Unidas Podemos guidata Yolanda Diaz va rilanciata. Ciò che soprattutto va evitato è svolgere questa discussione nel chiuso dei due partiti.

Essa per essere efficace e dare risposte all’altezza della nuova sfida che le destre lanciano, non può che aprirsi all’intera società spagnola, intrecciando le decisioni organizzative con quelle programmatiche. Va cioè ricostruita nella popolazione fiducia e speranza. Aprire una discussione di massa sulla transizione ecologica sul fatto che incamminandosi su quella strada può garantire non solo assistenza, ma anche giustizia sociale e lavoro stabile e con diritti è ciò che serve.

La sfida delle destre non si può vincere ridimensionando il progetto politico che ha unito le due sinistre. Va rilanciato e soprattutto bisogna farlo organizzando una grande partecipazione popolare.

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Nel giorno della festa dei lavoratori i dati Istat certificano una perdita di 900 mila posti di lavoro dall’inizio della pandemia.

Sono donne e giovani i più colpiti. La battaglia dei settori più sfavoriti per avere diritti e tutele: dai rider agli addetti dello spettacolo ai migranti.

Riders al Primo Maggio

Riportiamo da il manifesto del 1° Maggio 2021:
Lunedì 2 maggio sono quattro anni dalla morte di Valentino Parlato. Gli rendiamo omaggio con questo straordinario editoriale che scrisse il Primo maggio del 1972. Conserva intatta la sua valenza, anche in pandemia.

Nel testo fa riferimento alle polemiche suscitate dal primo editoriale del quotidiano “il manifesto” sul 1° maggio del 1971: era titolato “Contro il lavoro” non aveva la firma, era collettivo, ma venne scritto da Lucio Magri

Contro il capitale (di Valentino Parlato 1° maggio 1972)*

1° maggio. I problemi aperti dalla crisi del capitalismo, la stessa disoccupazione e la crescita enorme della popolazione inattiva si possono superare solo liberando la società da questo lavoro, che è il riflesso speculare, ma imposto con l’oppressione, del meccanismo di produzione e riproduzione del capitalismo

1° maggio. I problemi aperti dalla crisi del capitalismo, la stessa disoccupazione e la crescita enorme della popolazione inattiva si possono superare solo liberando la società da questo lavoro, che è il riflesso speculare, ma imposto con l’oppressione, del meccanismo di produzione e riproduzione del capitalismo

Il primo maggio dell’anno scorso pubblicammo un editoriale dal titolo «Contro il lavoro», «contro il lavoro – scrivevamo – per ciò che esso è e sempre sarà in una società capitalistica, in una società divisa in classi». Quell’articolo suscitò incomprensioni e molte reazioni negative: fummo accusati di luddismo, scarso rispetto delle forze produttive, marcusianesimo, pre o post marxismo a seconda delle letture dei nostri critici.

Quell’articolo aveva, forse, il torto di apparire un tantino ideologico. Ma, a un anno di distanza e con l’occhio più attento alla profondità dell’attuale crisi del capitalismo italiano, non verifichiamo forse che è proprio su questo lavoro che si incentra lo scontro di classe? Che questo lavoro è stato messo in questione dalle lotte operaie e che ora padroni e governo vogliono restaurarne la compiutezza, mentre gli operai vogliono rivoluzionarne la determinazione storica, cioè capitalistica?

È contro questo lavoro che si indirizzano le lotte alla organizzazione capitalistica del lavoro e quindi ai cottimi e ai ritmi, agli orari e ai turni, per l’ambiente e la salute, contro la determinazione padronale delle carriere e delle mansioni.

Ma oggi si verifica anche che i problemi aperti dalla crisi del capitalismo, la stessa disoccupazione e la crescita enorme della popolazione inattiva si possono superare solo liberando la società da questo lavoro. Questo lavoro è il riflesso speculare, ma imposto con l’oppressione, del meccanismo di produzione e riproduzione del capitalismo. Del meccanismo del profitto in fabbrica, dell’organizzazione del consenso e del mercato fuori fabbrica.

È attraverso questo lavoro che il meccanismo capitalistico genera le classi, la divisione tra gli uomini, un sistema piramidale di ineguaglianze. Un sistema generalizzato di diseguaglianza, che si riflette nella diversificazione della qualità dei beni che il capitalismo dà da consumare, nella diversificazione dei modi di vita che il capitalismo impone, nella gerarchizzazione, apparentemente razionale, di questa società.

 

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Recovery plan. Non c’è una svolta verde, ma un collage di iniziative legate agli interessi più importanti

 

Ci sono anche delle misure positive: investimenti nelle smart grid, elettrilizzatori per l’idrogeno, agrivoltaico e per le «comunità energetiche» (ma limitate i piccoli Comuni). Ma non c’è quella svolta verde che era attesa per questa occasione storica di voltare pagina verso un futuro più sostenibile.

L’obiettivo di riferimento per le rinnovabili nel settore elettrico, citato dal Ministro Cingolani (in attesa del nuovo Piano energia e clima) è ambizioso e condivisibile del 72% al 2030 e richiederebbe di installare impianti rinnovabili per circa 6 Gw all’anno, oltre sei volte quanto fatto nel 2020.

Questo obiettivo è di fatto demandato al 90% e più al mercato: cioè a una riforma per accelerare le autorizzazioni ed evitare, ad esempio, che per un impianto eolico ci vogliano anni e anni per autorizzarli. Ma una riforma non basterà da sola, perché il settore per anni è stato bloccato con norme retroattive sugli incentivi, burocrazia lentissima e dunque incertezza.

Un trattamento mirato (con successo) a bloccare il settore e a spaventare gli investitori, che è riuscito in questi anni a riportare una quota del mercato elettrico al gas fossile, inizialmente danneggiato dai pochi anni di crescita delle rinnovabili (2008-12). In questo modo il Piano lascia lo spazio a gas e idrogeno blu (da gas con Carbon Capture and Storage proposto da Eni) mentre per l’idrogeno verde sarebbe indispensabile una spinta ben più forte e certa alle rinnovabili.

In tema di mobilità urbana le cifre sono al di sotto di quello che servirebbe per far decollare il mercato dell’auto elettrica, mentre sulla mobilità urbana collettiva le cifre sono minimaliste e ai treni locali vanno una quota marginale rispetto all’alta velocità. Siccome gran parte delle emissioni di Co2 dal trasporto passeggeri si produce proprio in ambito urbano e metropolitano, l’ispirazione del Piano non sembra esattamente quella di dare priorità agli investimenti che riducono di più le emissioni (mobilità urbana elettrica pubblica e privata).

Sull’efficienza, mai citata nei capitoli riferiti all’industria, si proroga il superbonus per il settore edile senza vincolarlo, come sarebbe necessario, a un salto di almeno tre categorie di efficienza e non alle due attuali. L’agricoltura evidentemente non è considerata affatto un capitolo importante per gli aspetti ambientali e la parola agricoltura biologica non è mai nemmeno citata, eppure sarebbe un elemento qualificante di un «piano verde».

Così mentre si continuano ad autorizzare nuove trivellazioni a mare e impianti a gas, il rilancio delle rinnovabili necessarie a raggiungere gli obiettivi deve attendere una riforma che speriamo sia efficace: dunque la parte «green» è sospesa a questi cambiamenti. Nel frattempo, il Ministro Cingolani continua a far dichiarazioni scorrette sulla mobilità elettrica: certo, quando avremo il 72% di rinnovabili sulla rete sarà ancora meglio, ma già oggi con il mix energetico attuale, le auto elettriche consentono di ridurre le emissioni sia di Co2 che evitare quelle che sotto i nostri nasi attentano ai nostri polmoni. E questo vale anche in termini di ciclo di vita. Un messaggio, non nuovo da Cingolani, che suona come una dissuasione e, dati gli impegni limitati nel Piano, a rallentare il settore e a perder tempo. Forse è quello che serve a chi non ha mai puntato sulla mobilità elettrica e ora è in affannoso ritardo?

Dunque, non c’è una svolta verde, ma un collage di iniziative legate agli interessi più importanti. Così ieri gli attivisti di Greenpeace in una azione di protesta hanno rinominato i diversi ministeri, a partire dal «Ministero della finzione ecologica». La speranza è sempre quella di vedere qualche seria correzione di rotta.

L’autore è direttore Greenpeace Italia

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L'incontro. Bettini battezza l’alleanza. C’è anche Elly Schlein: «Dobbiamo unire le nostre lotte»

IL MANIFESTO di LE AGORA'

L'incontro via Zoom con Enrico Letta e Giuseppe Conte

 

«Giuseppe, io vorrei che tu, Elly ed io…». Enrico Letta, in una inusuale veste lirica, utilizza un sonetto di Dante per descrivere la coalizione che dovrà sfidare Salvini e Meloni alle politiche. Perché, come dice il leader Pd, «una maggioranza come quella di Draghi è unica e irripetibili, non dovrà ripetersi mai più».

OSPITI VIA ZOOM DELL’AGORÀ di Goffredo Bettini, i due leder di Pd e M5S – più la giovane promessa della sinistra ecologista Elly Schlein e Massimiliano Smeriglio – discutono per oltre due ore del centrosinistra che verrà, e delle ricette con cui renderlo appetibile a un’Italia sempre più disuguale, rassegnata, impoverita. Bettini parla dei due «decolli paralleli» di Pd e M5S che «devono avere un obiettivo comune di unità a partire dalle comunali», e assegna i compiti: bisogna mantenere «connotazioni distinte per evitare sovrapposizioni».

«Ognuno deve arare i terreni a lui più congeniali», avverte, ricordando la necessità comune di «mettere in forma politica i conflitti sociali», di «ridurre le distanze tra alto e basso, tra inclusi ed esclusi». C’è, grazie anche alla spinta radicale di Biden negli Usa, una condivisone con Letta e Conte sulla necessità di superare i vecchi paradigmi del centrosinistra, la sbornia liberista, di recuperare una funzione sociale, di «tornare a occuparsi del popolo, dei precari, dei non garantiti», come ricorda Nadia Urbinati che dà atto al M5S di aver cercato di interpretare «le emozioni di rabbia e disperazione» degli strati popolari».

CONTE LA SEGUE NELLA CRITICA al «primato dell’economia sulla politica», assicura che «non partiamo da zero, abbiamo condiviso con Pd e sinistra l’esperienza sul campo del mio secondo governo», ricorda che su alcune tipiche distinzioni destra/sinistra (come progresso vs conservazioni o egualitarismo vs gerarchia) il M5S è stato storicamente più a sinistra che a destra, ma rilancia la vocazione «trasversale e popolare» del suo nuovo M5S. «Non lasceremo alla destra il tema dell’identità, delle tradizioni popolari, o il blocco sociale dei lavoratori autonomi».

Alla fine, dopo un black out della connessione internet (Bettini evoca ironicamente un «complotto» contro Giuseppi) torna per dire che «avrete un M5S rigenerato, che ci sarà, col suo Dna». La connessione cade ancora, Letta sorride: «Ha detto che il Movimento ci sarà, ottimo risultato». E Bettini: «Senza Casalino le piattaforme di Giuseppe non funzionano…».

Il leader Pd è il più esplicito nel disegnare un campo largo progressista, che ribattezza «Piazza Grande» in omaggio al suo predecessore Zingaretti. «Questa piazza si costruisce con empatia, innanzitutto tra di noi, tenendoci per mano. Gli italiani si fideranno solo se vedranno persone che si stimano, si vogliono bene, il contrario dell’odio che ha abitato tante volte nel centrosinistra».

UN MESSAGGIO QUASI prepolitico. Cui segue una riflessione sulla svolta di Biden: «I democratici Usa, e anche io, hanno creduto che bastasse investire sulla locomotiva e i vagoni avrebbero seguito. Invece i vagoni- in senso sociale e geografico- si sono staccati e ora bisogna modificare l’ordine delle cose, la locomotiva deve stare in fondo e spingere». Per Letta, dopo la «convergenza di azione» tra Pd e M5S avvenuta sotto il governo Conte, ora serve una «convergenza di pensiero». E assicura: «Noi ascolteremo con umiltà, il nostro non deve più essere un partito antipatico, ma che soffre e spera con le persone».

Le spine delle mancate alleanze alle comunali d’autunno sono un convitato scomodo, che rischia di appannare il pomeriggio di amorosi sensi. «Sarebbe un peccato se, rispetto alle amministrative, non si riuscisse a concordare alcuni passaggi insieme, anche se credo che i tempi non siano ancori maturi per poter varare un’alleanza a tutto tondo col Pd», aveva detto Conte in mattinata. «Le amministrative sono solo una tappa intermedia del percorso che deve portarci uniti alle politiche del 2023 per avere la maggioranza», risponde Letta.

SCHLEIN PROPONE: «Bisogna ricostruire un campo nel suo insieme, le singole ristrutturazioni dei partiti non bastano. Su lavoro, ambiente e disuguaglianze abbiamo idee comuni, i giovani ci chiedono di unire le lotte, una visione comune» A Renzi ci pensa Bettini. «Non dialogheremo con chi mette in discussione la nostra alleanze, con chi fa azioni di disturbo per rafforzare il suo orticello». Conte e Letta, entrambi cacciati da palazzo Chigi dal rottamatore, non hanno bisogno di aggiungere una virgola. Il ticket dei due ex premier verso il 2023 è partito.

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L'intervista. «Il capitalismo va riformato, lo dice anche il Papa, solo in Italia chi lo afferma crea scandalo. La casa della sinistra è il Pd, ma siamo da troppo silenti. È ora di battere un colpo»

 

Goffredo Bettini. Che giudizio dà sul testo finale del Pnnr Recovery? Ci sono differenze sostanziali rispetto a quello di Conte?

È un testo buono. Riprende sostanzialmente l’ultima stesura del piano del governo Conte II, con alcuni rafforzamenti e miglioramenti. Apprezzabile quello sulla garanzia dei mutui per i giovani. Il poco spazio per un dibattito pubblico e istituzionale, dipende anche dal fatto che abbiamo perso tre mesi, per una crisi politica irresponsabile. Ora, si tratta di valutare bene la destinazione dei 30 miliardi che si aggiungono alle risorse del Recovery. Vanno rafforzati gli investimenti al Sud, per le aree interne, per l’adeguamento e l’innovazione di alcuni servizi fondamentali, come gli asili nido. E poi c’è il capitolo delle riforme. Decisiva rimane quella del fisco; che deve essere progressivo, difendere i ceti che producono, stroncare l’evasione fiscale, limitare e bonificare le rendite e il parassitismo. Si può fare entro luglio. E questa volta mi fa piacere dirlo: ce lo chiede l’Europa!

Renzi adesso non critica lo scarso coinvolgimento del Parlamento. Dimostra quanto fossero strumentali le critiche a Conte?

Si. Molte critiche più che al merito, appartenevano ad una sorta di “guerriglia” politica. Renzi, e non solo lui, dicevano: “Mes o morte”. Sente più parlare del Mes?

Chiariamo un punto. C’era dietro la crisi del Conte II solo la necessità di cambiare il timoniere, metterne uno con una reputazione più solida in Europa? E chi oltre a Renzi, Lega e Forza Italia ha lavorato in questa direzione?

Si è svolto tutto alla luce del sole. Non solo alcuni partiti hanno spinto per la caduta di Conte. Ma anche le proprietà di molti grandi giornali, la nuova direzione di Confindustria, la rete fittissima di interessi imprenditoriali e professionali del Nord. Ma non vorrei che il solo parlare di forze sociali ed economiche che si sono mosse, riproponga l’accusa di fantasticare su possibili “complotti”. Termine che non ho mai usato. Quindi mi tengo prudente: il governo Conte II è morto di freddo.

È ragionevole e opportuno che Italia Viva sia considerata parte del centrosinistra, a partire dalle comunali?

Il campo democratico e antisovranista più è largo e meglio è. Solo chi coltiva pregiudiziali o mira a fomentare conflitti, è estraneo alla sua natura pluralista ma unitaria. Dire: ci sto, ma non voglio i 5Stelle è inaccettabile.

Che giudizio dà della coabitazione al governo con le destre? È una situazione che paralizza il Pd e la sua azione politica?

È una condizione di emergenza e transitoria. Guai a dargli un valore strategico. Oggi è necessario uno sforzo comune per vaccinare gli italiani e mettere al sicuro la ripresa economica. Poi occorre prepararsi alla fase successiva, che inevitabilmente contrapporrà i progressisti ai sovranisti. E poi come ci si può affidare ad un governo di lunga durata con dentro Salvini, che vuole sfiduciare Speranza e raccogliere firme contro i provvedimenti del primo ministro che dovrebbe sostenere?

Forza Italia si sta dimostrando intrinsecamente diversa dai sovranisti e quindi potenziale vostra alleata?

Ho sempre pensato che Fi sia diversa dai sovranisti. Ma vedo che ogni volta che Salvini alza la voce si adeguano.

Sulla gestione Covid ha visto un cambio di passo? La sinistra rischia di essere considerata troppo lontana dalla disperazione delle categorie costrette alla chiusura?

Si devono aprire al più presto le attività, sulla base della curva dei contagi. Oggi si impongono restrizioni. Se la situazione cambia in meglio esse andranno superate. Occorre evitare la confusione che crea la Lega, cantando vittoria su ovvietà ripetute più volte da Speranza: che le decisioni sono suscettibili di progressive modifiche.

Letta è alla guida del Pd da un mese e mezzo. Grandi segnali sulla parità di genere e sui diritti civili, nel partito sembra però offuscata la questione sociale.

Letta sta lavorando bene. Ha confermato la strategia politica del precedente gruppo dirigente, con alcune innovazioni positive. L’attenzione ai valori costitutivi del Pd e alla riforma del partito. Ha anche difeso l’impianto socialmente avanzato del Recovery, ponendo il tema direttamente a Draghi.

C’è bisogno nel Pd del 2021 di un ritorno ad una critica del capitalismo? Come si fa uscire realmente il Pd dalle ZTL?

Ho parlato più volte dell’esigenza di riformare il capitalismo. Sono le questioni che si discutono in tutte le socialdemocrazie occidentali, tra i democratici di Biden e nel mondo cattolico guidato da Papa Francesco. Solo in italia suscitano qualche scandalo. Siamo vittime di 30 anni di egemonia liberista. Senza un ruolo regolatore della politica, le logiche spontanee del turbocapitalismo porterebbero all’insostenibilità sociale per le troppe disuguaglianze e allo scasso dell’ecosistema.

Il Pd è ancora il contenitore adatto per una sinistra che si pone queste sfide?

Letta ha riproposto un Pd inclusivo. Una sinistra moderna e rinnovata ne è parte fondamentale. Invece, è da tempo troppo silente e deve battere un colpo più forte. L’area politica e culturale delle Agorà si muove in questa direzione: si trova pienamente a suo agio nel Pd, fiduciosa in un reciproco ascolto delle sensibilità diverse che lo costituiscono, che non c’è stato nei due anni passati.

Che futuro politico vede per Nicola Zingaretti?

Mi pare ora convintamente impegnato nel governo della Regione Lazio con risultati eccellenti.

Pd-M5S. Anche Letta parla di alleanza strategica. Eppure sul campo non si vedono chiari segnali in quella direzione. Anzi, alle comunali solo a Napoli è verosimile un’intesa.

Il processo è difficile. Va conquistato città per città. Mantenendo l’obbiettivo unitario nazionale, ma rispettando il grado di maturità delle intese possibili in ciascun territorio.

Conte farebbe meglio a farsi un partito suo dopo le vicende di Casaleggio e Grillo e il caos che regna sovrano? Oppure deve ristrutturare il Movimento?

Conte rende un servizio a tutti se guida proprio in questa fase difficile il Movimento 5Stelle. Quello che lei definisce caos potrebbe portare invece ad un soggetto politico più forte, consapevole e di governo. Che non disperda le innovazioni migliori del suo percorso passato.

Fuori da Palazzo Chigi lei vede realmente un futuro politico per Conte? O la battaglia politica nel fango è fuori dalle sue corde?

Fuori da Palazzo Chigi lo vedo sereno e voglioso di fare. Tenace e combattivo. Corretto, ma per nulla restio a misurarsi con la durezza della politica.

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