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Memoria. Parliamo di ben 49 anni fa e per gli altri di 40 anni fa; parliamo di persone che in questi lunghi decenni hanno ricostruito a fatica la propria esistenza lontano dalle luci della ribalta

Una riunione di gabinetto all'Eliseo

Una riunione di gabinetto all'Eliseo  © LaPresse

Pensavamo di essere noi quelli capaci di rievocare, con il nostro 50° anniversario, gli anni Settanta. E invece no, a suo modo- non da una prospettiva storica ma con una vendetta storica – si è mosso nelle stesse ore il governo italiano che ha ottenuto l’arresto in Francia di sette ex militanti delle Br – tre risultano in fuga – e uno di Lotta continua.

Protagonista questa coalizione onnivora di governo che, in pandemia, tiene dentro tutto, centrosinistra, centro, centrodestra e destra razzista, avvalendosi perfino dell’«opposizione di sua maestà» dell’estrema destra di Fratelli d’Italia. Tutti plaudenti l’operazione “Ombre rosse” che, è bene ricordarlo, è stata insieme battaglia populista-giustizialista di Salvini ministro degli interni nel Conte 1 e poi richiesta dal ministro dei 5Stelle Bonafede a riprova del giustizialismo populista.

A cosa possa servire un tale iniziativa se non a cementare questa coalizione indefinibile, il cui unico vanto per ora è la quantità del fondo europeo da spendere, non è dato capire. Senza naturalmente sottovalutare i crimini gravi che agli accusati vengono contestati, ci si chiede infatti che cosa rappresenti realmente una giustizia che scatta ad orologeria ma si rivela una giustizia senza tempo, infinita e politica.

Perché, esemplifichiamo sulla figura di Pietrostefani che ha 78 anni ed è gravemente malato – ma non riguarda solo lui la distanza temporale -, ci troviamo di fronte a vicende e crimini come l’omicidio Calabresi: è del 1972.

Parliamo di ben 49 anni fa e per gli altri di 40 anni fa; parliamo di persone che in questi lunghi decenni hanno ricostruito a fatica la propria esistenza lontano dalle luci della ribalta.

Mentre «trionfa Macron», sempre più in difficoltà al proprio interno, che cancella l’asilo concesso da Mitterrand ma avverte: «Vi ho inviato questi dieci, ora la vicenda è chiusa». Riecco dunque immancabili le Brigate rosse. Un abuso di memoria, una strumentalizzazione che si avvia con questa sceneggiatura dell’«arresto dei brigatisti», come se davvero fossero una minaccia cogente, ombre rosse sul nostro incerto presente e su quello dello Stato.

Insidiato invece da ben altre forze che hanno devastato e privatizzato i presidi pubblici. Viene allora legittima una domanda. Come mai sulle stragi fasciste degli anni 60-70 che hanno visto un coinvolgimento diretto di corpi dello Stato italiano, impera ancora una fitta nebbia che, nell’impunità, azzera ogni memoria – siamo il Belpaese delle stragi impunite, con tanto di Commissione parlamentare intestata – mentre per la lotta armata di matrice rossa tutto si conosce e tutti i colpevoli o sono morti o hanno scontato decenni di galera e li stanno ancora scontando?

L’operazione di decontestualizzare le vicende sembra completa e i crimini tutti eguali. No, quelli che hanno visto lo Stato connivente che invece della democrazia costruiva Gladio e finanziava la manovalanza nera stragista, sono archiviati – per non dire delle stragi nazifasciste della Seconda guerra mondiale, finite nell’«armadio della memoria» per le quali aspettiamo, come sa la Procura militare, ancora le riparazioni dalla Germania. La storia italiana dal dopoguerra oggi è stata questo.

Attenzione allora a perseguire una giustizia politica da fiction televisiva motivata con la ragion d’emergenza. Negli anni Settanta ad ogni emergenza seguì altra emergenza, e ciascuna di esse comportò una riduzione delle garanzie fondamentali, una compressione dello stato di diritto con violazione dei diritti soprattutto nelle prassi giudiziarie; fin allo snaturamento dei processi come luogo «terzo» e retrogradato a luogo di lotta a un fenomeno non altrimenti affrontato, soprattutto sul piano politico. Su queste ambiguità si attivò la «dottrina Mitterrand» dell’asilo, alla fine indirettamente accettata anche dall’Italia.

La distanza de “Il manifesto” dai protagonisti della lotta armata è stata ed è profonda: per noi ogni processo rivoluzionario o è di massa e cambia la natura del potere o è sostituzione arbitraria di leadership; «A chi giova?» si chiedeva Rossana Rossanda nell’editoriale del 18 maggio 1972 sul delitto Calabresi, per il quale intravvedeva il tentativo di aprire un varco ad un sistema autoritario e insieme la disarticolazione del movimento di massa e la messa nell’angolo della nuova sinistra.

Questa è stata la critica durissima che noi abbiamo ripetutamente rivolto alla lotta armata, questa è la responsabilità che porta, insieme alla nostra incapacità a costruire una alternativa politica. Consapevoli di questo non abbiamo però mai nascosto in primo luogo a noi stessi, il fatto che ci trovavamo di fronte ad avvenimenti – certo sbagliati e scorciatoie scellerate -, ma di natura politica.

Per i quali trovare espedienti giustizialisti, come fu il “Teorema Calogero”, era vergognoso. La soluzione doveva e deve ancor essere politica. Una lacerazione nel tessuto sociale c’era effettivamente stata e una lacerazione politica si era consumata e andavano comprese le ragioni e riannodati i fili.

La «soluzione» che ora arriva con l’operazione “Ombre rosse” ad anni di distanza sembra aver dimenticato tutto ciò. Invece proprio la motivazione politica di quegli episodi richiede che il tema sia affrontato anche e soprattutto sul piano politico. La risposta carceraria a vicende di trenta o quarant’anni fa stride proprio con quell’impostazione di reinserimento sociale che ogni esecuzione penale, secondo la Costituzione, deve avere.

Occorrerebbe una capacità politica ‘lata’ – si parla di amnistia, ma questo parlamento non la voterebbe mai – per trovare quel necessario equilibrio tra l’affermazione della negatività di quanto vissuto da chi di tali vicende è stato vittima, e il riconoscimento che la stessa vita vissuta fuori dal proprio contesto e in maniera visibile al Paese di accoglienza nonché positiva e rispettosa delle sue regole non può non aver valore nella valutazione odierna, anche perché anch’essa non è stata priva di dolore.

Riconoscere insomma il principio di “verità senza vendetta”, penso all’insegnamento che ci viene dall’esperienza della lotta d liberazione in Sudafrica. Questo può dare oggi l’indicazione affinché ci si avvii lungo vie diverse, che non interrompano inutilmente percorsi di vita.

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50 anni. Il manifesto va oltre l’impegno informativo, è qualcosa di più di un semplice quotidiano. È una idea, una scuola, un sentimento, un cuore collettivo e pulsante

Allo scoccare del mezzo secolo, per quegli strani scherzi del tempo, succede che le infinite, piccole e grandi storie, che hanno attraversato gli anni, diventano Storia.

Così, un consueto compleanno può assumere un carattere speciale, un rilievo anche simbolico, a metà strada tra magica alchimia e concreta determinazione.

Con il passare del tempo, gli anni trascorsi al manifesto sono diventati via via sempre più preziosi. E mi sono resa conto che se il tempo consumava noi, che realizzavamo e facciamo ancora oggi il giornale, «lui» invece non invecchiava, perché in grado di rinnovarsi.

Ora, che compie 50 anni, ha poche rughe, è in forma, forte, tenace. Combattivo come il primo giorno, quel 28 aprile del 1971 che è ormai la data di una storia giornalistica così lunga da rendere il manifesto, tra i quotidiani nazionali, il più longevo dopo La Stampa e il Corriere della Sera.

Il suo intreccio di ideali vive nel cuore e nella mente di milioni di persone; una storia politica maturata nel 1969 con l’omonima Rivista e subito dopo con la nascita del gruppo extraparlamentare; una vicenda collettiva, di una comunità di donne, uomini, ragazze, ragazzi e esponenti della vecchia guardia, che ci sostengono nella indefessa convinzione che un mondo diverso sia possibile.

Cinquant’anni fa nessuno mai avrebbe immaginato che la grande corazzata del Pci sarebbe sprofondata e il fragile vascello del manifesto gli sarebbe sopravvissuto. Se questo è accaduto, verosimilmente è perché quel ramo, che si separava dal grande albero, già si predisponeva all’innesto, alla contaminazione feconda con l’onda d’urto travolgente del ‘68, coniando, con l’invenzione di un quotidiano, una nuova, originale forma della politica.

Fu un incontro di reciproco, ricambiato amore che, nonostante tutto, traguarda ora il mezzo secolo.

Arrivare fin qui è stato un laico miracolo: l’esistenza del manifesto è segnata da momenti duri, difficili, perfino traumatici. Non una, ma più volte, siamo stati sul punto di chiudere definitivamente la nostra avventura.

Certamente, come conseguenza della crisi della sinistra italiana – e mondiale – incapace di immergersi e nuotare nei cambiamenti ideologici, sociali, culturali, economici che hanno caratterizzato la fine del Ventesimo secolo e i primi venti anni dei Duemila; ma anche a causa di

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Ecco la lettera inviata da alcuni personaggi del mondo della politica, della cultura e dello spettacolo al segretario del Pd sulla questione dei migranti, che ogni giorno muoiono  nel Mediterraneo.

Caro Letta, mobilitiamo l’Europa per salvare le vite dei migranti in mare

Caro Enrico Letta,

ci rivolgiamo a lei nel ricordo dell’operazione Mare Nostrum che decise meritoriamente di promuovere nel 2013 quand’era presidente del Consiglio. Una scelta che fu dettata dall’urgenza di salvare delle vite umane, e che proprio per questo venne assunta unilateralmente, senza attendere il pur necessario concorso dell’Unione Europea.

Oggi nel Sud Mediterraneo si continua a morire annegati in assenza di una flotta di imbarcazioni dedicate al salvataggio. Un’omissione di soccorso che viola il Diritto internazionale del Mare e pesa sulle nostre coscienze. Non solo Frontex ha interrotto il presidio navale nel Canale di Sicilia, ma la preziosa attività delle ONG, che tentano di esercitare un ruolo di supplenza dacché Mare Nostrum è stata revocata, subisce continui ostacoli. 

Non si può indugiare oltre. In attesa che l’Europa intraprenda un’azione comune, in attesa che si realizzino gli auspicati corridoi umanitari dalla Libia, occorre che l'Italia ripristini subito unità di soccorso marittimo – composte, come fu per Mare Nostrum, da imbarcazione della Marina Militare e della Guarda Costiera - per fermare la strage in corso.

Nella sua veste di segretario del Partito Democratico, le chiediamo di farsi tramite presso il governo affinché non esiti ad avviare tale operazione umanitaria. Qualunque scelta in merito alle politiche migratorie del nostro Paese viene dopo. Prima viene l’obbligo del salvataggio. 

Firmato:

* Alessandro Bergonzoni, Rosy Bindi, Emma Dante, Carlo Ginzburg, Gad Lerner, Stefano Levi della Torre, Luigi Manconi, Emma Marrone, Valeria Parrella, Giuliano Sangiorgi, Elena Stancanelli, Sandro Veronesi 

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L’ìncipit di Mario Draghi ieri alla Camera, avrebbe potuto fare sperare a qualche ingenuo ascoltatore che si potesse aprire un varco nel grigiore dei discorsi dei capi di governo.

Quel suo contrapporre la viva sofferenza di milioni di persone all’aridità di cifre e tabelle, poteva lasciare intendere che finalmente si assumesse la drammaticità della situazione e le sue conseguenze sul piano umano come il centro del problema cui il Piano governativo dovesse porre rimedio.

L’illusione è durata un attimo. Persino l’accenno al 25 aprile, nel corso delle cui celebrazioni Draghi aveva fatto un discorso non retorico, è stato subito soffocato dalla scontata esortazione degasperiana all’abbandono degli interessi particolari per il bene del paese. Il resto del suo discorso ha chiarito che la matrice tecnocratica del governo, che Draghi più di Conte impersona, ma senza inversioni di tendenza, non ammetteva sorprese.

Ed ecco quindi, dopo le correzioni dell’ultima ora, che hanno spinto le poche opposizioni parlamentari presenti a chiedere un rinvio negato per la lettura di un testo di più di trecento pagine, che abbiamo assistito all’illustrazione di un Piano senz’anima.
Non differisce nella logica dalle versioni precedenti, se non nello spostamento di qualche allocazione delle risorse disponibili. Ribadisce le sei note «missioni».

Parla delle riforme di «contesto» -– Pubblica amministrazione, Giustizia, semplificazione della legislazione (quindi dei controlli su appalti e concessioni), promozione della concorrenza – su cui Draghi avrebbe impegnato la sua parola con Bruxelles, vista la loro indeterminatezza. Ma nulla dice su quella più necessaria e urgente: la riforma fiscale.

Ne emerge un quadro in cui le riforme sociali sono espunte, restano gli ammodernamenti di sistema. Non a caso la vexata quaestio della governance (il pudore di Draghi a usare la terminologia inglese è più comico che ipocrita) viene risolta sotto il comando del Mef e un’articolazione decisionale affidata ai Ministeri a guida tecnica. Le parole conclusive del suo discorso sono dedicate a un ottimismo di facciata sulla realizzabilità del Piano.

Resta un mistero come possa generare entusiasmo un progetto che in partenza, se tutto dovesse andare bene, compresa la congiuntura internazionale e il quadro sanitario, prevede che ci serviranno quattro anni e 191,5 miliardi dalla Unione europea per raggiungere la situazione occupazionale che avevamo nel giugno del 2019, già in fondo alle classifiche europee, soprattutto in tema di occupazione giovanile e femminile. Non sarà certo una visione familistica – il citato Family Act – ad annullare le nostre distanze su questi due fronti.

Per farlo servirebbe un’attivazione generale delle energie della società, a cominciare dai punti di maggiore sofferenza. Facendo di questi la rampa di lancio per un modello alternativo di sviluppo. In sostanza le missioni verticali quali la trasformazione ecologica, come la digitalizzazione, come la sanità devono incrociarsi ed essere lette attraverso la dimensione orizzontale dei territori. Si scoprirebbe allora che il centro di questo piano dovrebbe essere la rinascita del Mezzogiorno.

La ministra Carfagna si mostra felice del 40% delle risorse del Recovery indirizzate al Sud. Ma ce ne vorrebbero assai di più. Dice che 82 miliardi che sarebbero ora impiegati in cinque anni non si sono mai visti. Strano modo di fare i confronti. L’intervento della Cassa per il Mezzogiorno – con tutti i suoi difetti – si è articolato lungo 58 anni con diverse intensità per un complesso di 342,5 miliardi di euro e il Sud, anche e sebbene con la dolorosa migrazione al Nord, è stato motore decisivo dello sviluppo del nostro paese, particolarmente tra il 1950 e il 1973, accorciando le distanze in termini di Pil pro capite con il Nord. La Svimez calcola che ogni euro di investimento al Sud generi circa 1,3 euro di valore aggiunto per il Paese, e che circa il 25% di questo ricada al Centro-Nord. Molto meno avviene all’incontrario.

Comunque, dati i rendimenti decrescenti al crescere dello stock di capitale, si determina un moltiplicatore in discesa al Nord e in salita al Sud. Quale migliore territorio che non il Sud per una vera trasformazione ecologica che punti all’idrogeno verde, ad una riconversione produttiva a cominciare dall’Ilva di Taranto, superando l’aspro conflitto fra salute e lavoro?

Non si tratta di collegare qualche porto, ma di pensare a un’altra politica, in tutti i sensi, dell’Italia e dell’Europa nel Mediterraneo. Anche negli Stati uniti si è aperto un dibattito sull’«American Rescue Plan», proprio sul concetto di infrastruttura.

Bernie Sanders ha detto che non bisogna solo garantire le risorse per la infrastruttura fisica, «ma altresì per quella umana a lungo trascurata». Ma per farlo anche da noi, non bisognerebbe puntare sulla istruzione «professionalizzante» ma su quella che forma dei cittadini capaci di pensare oltre l’esistente.

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Movimenti. La protesta a piazza Montecitorio del movimento "Per la società della cura": «Il piano di ripresa e resilienza non cambia l’economia che ha prodotto la pandemia. Sono politiche economiche ispirate alle vecchie ricette di stimoli tipiche degli anni Novanta che non producono lavoro dignitoso né qualità della vita». Condanna dell'esautoramento del parlamento e della discussione pubblica sulle soluzioni contenute nel piano di oltre 330 pagine anche da parte dei deputati in piazza

Davanti alla Camera che ha ricevuto il piano del secolo, quello di «ripresa e resilienza» solo dopo le 14 per votarlo senza conoscere la versione definitiva in serata, ieri si è radunato un puzzle di movimenti, associazioni e sindacati che anima la rete «Per una società della cura». Insieme hanno redatto il «Recovery PlaNet» alternativo a quello che il 30 aprile il governo invierà alla Commissione Europea. Prossimi appuntamenti: a Roma per il Global Health Summit del 21 maggio e il ventennale del G8 di Genova.

«QUESTO MODO di fare politica la dice lunga sulla concezione della democrazia di questo governo – sostiene Marco Bersani di Attac – Il piano insegue i miti della crescita competitività e concorrenza con il presidente del consiglio Mario Draghi che spinge alla sua attuazione senza una discussione pubblica perché sostiene che ogni ritardo provoca perdite di vite umane. Farei presente che le 116 mila vittime sono la conseguenza di un modello di sviluppo che ha provocato la pandemia del Covid e che potrebbe produrne altre se non lo si cambia. Nel Pnrr non c’è un’alternativa a questo modello».

«SI STANNO AFFRONTANDO i problemi del mondo del 2021 come le pandemie e l’emergenza climatica con le politiche economiche degli anni novanta – sostiene Monica Di Sisto di Fair Watch – Pensano che gli investimenti si traducano in punti di Pil da portare a Bruxelles come un trofeo. Ma gran parte di quelli prospettati nel piano rispondono a politiche di stimolo che rischiano di finire in nulla se il mercato interno e il tessuto sociale sono impoveriti come oggi. Gli incentivi non si traducono in lavoro dignitoso e qualità della vita. La storia dell’altra crisi dovrebbe averlo dimostrato. E invece si procede nello stesso modo, più di prima. Abbiamo votato un parlamento perché esami il piano, altrimenti parliamo di ristrutturazione autocratica del paese».

«QUELLA CHE SI VOTA in queste ore è una grande spartizione di risorse che quasi tutti i partiti stanno aspettando da mesi e li ha rapidamente convinti a imbarcarsi in un governo di destra-centro-sinistra, un’“ammucchiata” senza precedenti in Italia e in Europa- ha detto Piero Bernocchi (Cobas) – Senza un reddito di base, beni comuni come scuola e ricerca, trasporti e sanità sottratti al mercato non ci sarà nessuna transizione».

ANCHE SULLA SANITÀ è il piano è stato giudicato insufficiente. «La sofferenza usata per altre esigenze economiche per fare ripartire il modello di sviluppo che è alla base di queste pandemie – ha detto intervenendo online Vittorio Agnoletto di Medicina Democratica e della campagna “Nessun profitto sulla pandemia” – Abbiamo bisogno di cambiare il paradigma della sanità, di assumere medici e infermieri, una medicina territoriale, strutture ospedaliere intermedie, i Lea devono essere garantiti da un servizio pubblico e di un’azienda sanitaria pubblica a livello europeo. Altrimenti alla prossima pandemia rincorreremo le multinazionali per avere altri vaccini».

CRITICHE sono state rivolte da Rossella Muroni (Verdi) al la visione estrattivistica delle politiche energetiche, alla politica di transizione alle energie rinnovabili non democratica e non priva di problemi sull’idrogeno; sulle grandi opere e sui commissariamenti. «C’è un deficit di partecipazione democratica – ha detto in piazza Stefano Fassina (LeU) che ha votato la fiducia al governo -La storia non finisce oggi, le leggi delega passeranno in parlamento e i progetti vanno definiti, è importante continuare la mobilitazione». «Voterò contro questo scandalo – ha detto Nicola Fratoianni (Sinistra Italiana) in piazza- Il governo precedente è caduto perché aveva permesso la partecipazione al piano. Ora il Parlamento lo discute a scatola chiusa».

 

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Mediterraneo. Le immagini dei gommoni che si aggirano tra i corpi senza vita di uomini e donne che speravano di salvarsi mettendosi nelle mani dei trafficanti, ancora l’unica possibilità di scappare, dovrebbero spingere governi e Ue ad attivare subito un piano di evacuazione delle migliaia di persone prigioniere delle milizie, per evitare che debbano scegliere tra la violenza e il pericolo di morte

Una vittima del naufragio di giovedì

Chissà se il premier Draghi sarà ancora soddisfatto del suo accordo con la Libia dopo la strage di esseri umani causata proprio da quell’accordo. Chissà se il nostro governo europeista interverrà per richiamare l’Ue, dato che Frontex sapeva e non è intervenuta.

Se tutto il mondo ha potuto vedere quali sono le conseguenze del cinismo italiano ed europeo è grazie ai «buonisti» della Ong Sos Mediterranèee, che hanno provato ad aiutare quelle imbarcazioni in fuga.

Il leader dei sovranisti nostrani, il «duro» Salvini, che accusa chi salva vite umane di essere responsabile di quelle morti, dovrebbe vergognarsi insieme ai tanti che, con responsabilità diverse, hanno contribuito in questi anni a consegnare alle milizie e ai trafficanti libici il destino di migliaia di persone in fuga da una guerra civile che abbiamo contribuito ad alimentare.

Per chi si ritrova prigioniero in Libia le opzioni sono due: tentare la fuga, rischiando la morte, o restare alla mercé della violenza organizzata, sdoganata anche dal Memorandum siglato dal nostro governo.

I governi europei, quelli che si ergono a giudici di chi vìola i diritti umani, davanti alla cancellazione di quei diritti si girano dall’altra parte e lasciano che siano le milizie ad occuparsi di questa umanità evidentemente per loro «meno umana».

La Libia non è un porto sicuro, ha ribadito più volte l’Alto Commissario Onu Filippo Grandi. Solo nel 2021 più di 6 mila persone sono state catturate con imbarcazioni libiche pagate dal nostro governo e riportate in lager dove è noto a tutti, anche ai nostri ministri, che le persone subiscono trattamenti disumani e degradanti.

Ma il Governo continua a fare affari con quel Paese, dichiarando che fermare quelle persone in fuga è nel nostro interesse, anche sapendo a che destino vanno incontro. Argomenti non dissimili dalla «difesa delle frontiere della patria» proclamata dal leader leghista per giustificare il sequestro di persona di cui dovrà rispondere ai giudici di Palermo.

Il Parlamento italiano deve istituire subito una Commissione d’inchiesta sull’accordo Italia – Libia e sulle responsabilità del governo nelle stragi e nelle violenze perpetrate.

Le immagini dei gommoni che si aggirano tra i corpi senza vita di uomini e donne che speravano di salvarsi mettendosi nelle mani dei trafficanti, ancora l’unica possibilità di scappare, dovrebbero spingere governi e Ue ad attivare subito un piano di evacuazione delle migliaia di persone prigioniere delle milizie, per evitare che debbano scegliere tra la violenza e il pericolo di morte.

Purtroppo finora ha prevalso il calcolo elettorale e l’assenza di coraggio e intelligenza politica, oltre che di un briciolo di coscienza, anche nelle forze democratiche.

Servono a poco quote simboliche per i cosiddetti corridoi umanitari, praticati peraltro dalle associazioni religiose e non dai governi. Dimostrano che si può fare, si possono salvare le persone, ma che a farsene carico devono essere i governi, con programmi adeguati. L’Ue si è arresa, e il Patto Europeo su migrazioni e asilo lo dimostra con chiarezza, all’ideologia dei partiti sovranisti e razzisti. Era l’aprile del 2015, solo 6 anni fa, quando a seguito dell’ennesima strage il Consiglio Europeo fu convocato d’urgenza.

Iniziò con un minuto di silenzio e si concluse con l’impegno di fermare le stragi. Il minuto di silenzio dura da 6 anni e non servono lacrime di circostanza e finte promesse. Bisogna agire subito: evacuazione e chiusura dei campi per migranti in Libia e un programma di ricerca e salvataggio europeo. Fermare la strage è possibile!

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