Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *

Clima. Serve una «Costituzione che istituisca un demanio planetario con inventario non solo di diritti universali ma di beni comuni, inappropriabili da parte di nessuno

Non è una «giornata» che si può celebrare impunemente la «giornata della Terra» messa in calendario per oggi, 22 aprile. È infatti il secondo anno che cade in piena pandemia e non ci si può prendere cura della Terra senza far tesoro della lezione che ne è venuta: è sotto gli occhi di tutti come essa ci abbia preso di sorpresa e come sulla base delle risorse e delle culture disponibili non siamo minimamente in grado di reggere alla prova. Basta vedere le immagini della infinita distesa di morti malamente inumati nelle foreste a questo scopo disboscate del Brasile, per capire che senza una rivoluzione del sistema di governo e una conversione della maggioranza dei cuori la vita così com’è non può continuare sulla Terra.

La pandemia, concentrando su di sé tutta la cura del mondo, ha distolto l’attenzione da altre urgenze già presenti prima di essa e da questa aggravate. Basta pensare all’innalzamento delle acque a seguito della crisi climatica quando, come dice un documento “People and Oceans” delle Nazioni Unite, circa 145 milioni di persone vivono entro un metro sopra l’attuale livello del mare e quasi due terzi delle città del mondo, con una popolazione di oltre 5 milioni di abitanti, si trovano in aree soggette al rischio mentre quasi il 40% della popolazione mondiale vive entro 100 km da una costa. I movimenti migratori strutturali che ne deriveranno imporranno ben altre priorità alle politiche nazionali. E basta pensare al solo problema dello smaltimento delle acque contaminate dalle centrali nucleari sinistrate, come quella di Fukushima, che diventeranno inoffensive solo fra 24.000 anni, per comprendere la portata delle questioni da affrontare.

Si comprende allora lo sgomento del papa che nel messaggio di Pasqua ha definito come uno scandalo il rincrudirsi delle guerre e diffondersi delle armi nel confermato esercizio della lotta di tutti contro tutti. Ma non meno scandaloso è che mentre la ragione suggerirebbe l’immediata mondializzazione dei vaccini, enormi profitti derivanti dai loro brevetti e dall’esplodere delle tecnologie informatiche abbiano scavato nuovi abissi tra un pugno di ricchi e moltitudini di poveri, sottraendo immense risorse a bisogni vitali, nell’indiscussa obbedienza alla sovranità dei mercati.

Una risposta a queste sfide è la lotta per giungere all’adozione di una «Costituzione della Terra», come è concepita e promossa a partire dall’Italia da un movimento e una Scuola, di cui a suo tempo il manifesto ha dato notizia. Ora si è giunti al momento di cominciare a discuterne un progetto di base che sarà reso pubblico il prossimo 8 maggio in una apposita assemblea convocata per via telematica, a partire dalla Biblioteca Vallicelliana a Roma. A illustrarlo sarà Luigi Ferrajoli, che ne ha curato la stesura; si tratta di un testo aperto, in cui dovranno congiungersi il talento dei costituzionalisti, la logica dei filosofi del diritto e la poesia di uomini e donne concreti che vogliano farsi costituenti di un ordine di giustizia e pace sulla Terra.

Non si tratta solo di proclamare diritti e di porre vincoli e limiti ai poteri come fanno le Costituzioni degli Stati nazionali, si tratta anche di istituire nuovi ordinamenti che, nel pluralismo delle differenze, ne realizzino l’effettività e ne garantiscano il godimento. Si tratterà di una Costituzione ben altra rispetto a quelle vigenti, perché si tratta di dare risposte a «problemi sconosciuti ad altre età», per riprendere le parole con cui sognavano la nuova società gli spiriti grandi che già ne avevano concepito l’idea all’indomani della tragedia della seconda guerra mondiale, dopo i primi bagliori dell’arma nucleare e i sofferti genocidi, quando i popoli si riunirono a san Francisco e gettarono le basi del mondo nuovo di cui le Nazioni Unite furono l’embrione.

Ben al di là di quanto si fece allora si deve ora istituire un demanio planetario, fare un inventario non solo di diritti universali ma di beni comuni, inappropriabili da parte di nessuno, a cominciare dalle acque, dalle foreste, dalle rotte marine e spaziali, dalle medicine di base, stabilire un elenco di beni illeciti, fuori mercato, a cominciare dalle armi di offesa, abolire gli eserciti nazionali e stabilire la sola legittimità di una forza di polizia internazionale per la sicurezza e la pace, introdurre una fiscalità mondiale, debellare la fame omicida, tutelare lo storico patrimonio dei saperi e delle arti prodotto nei secoli.

Non si tratta solo di ecologia, si tratta di far continuare la storia. Occorre non violentare la Terra, spremendone e dilapidandone le ricchezze, ma riconoscendola come un pianeta vivente, una perla dell’universo, casa comune degli esseri umani, delle piante e di una grande quantità di animali, sede di storia e di lavoro, del diritto e della scienza, di amori e di illimitate speranze, come dice l’ «incipit» di questa nuova Costituzione. Si tratta di istituire una «Federazione della Terra». Naturalmente si tratta solo dell’inizio di un cammino. Ma il futuro passa anche da qui.

Commenta (0 Commenti)

Transizione ecologica. Inizia sul sito del manifesto un appuntamento fisso a cura del gruppo "Natura e lavoro"

Sciopero per il clima

Care lettrici e cari lettori de il manifesto.

Comincio così perché questo non è un articolo ma una lettera, cioè una richiesta di contatto diretto con chi fra voi abbia il tempo, e la voglia, di collaborare con quanto da ormai quasi un anno ci siamo messi a fare (il “ci” sta per una decina di ecologi scienziati e professionisti di alto livello, di cui io sono solo la portavoce): una task force chiamata “Natura e lavoro”.

Non mi dilungo qui sia perché è sul Manifesto, nel luglio scorso, che abbiamo pubblicato il nostro primo programma (un inserto intitolato “Attenti ai dinosauri”), sia perché da allora sono stati già parecchi gli articoli dei membri della nostra task force pubblicati da questo giornale. Adesso vi scrivo per informarvi che dai prossimi giorni daremo vita, sull’edizione on line del giornale, a una rubrica fissa in cui daremo conto con regolarità delle cose che andiamo facendo (già molte, siamo abbastanza soddisfatti), sia informando, e commentando quanto sta facendo il governo ma anche i tanti gruppi che operano sul fronte ecologico.

Il manifesto già da tempo sta dando un importante contributo con il prezioso inserto del giovedì, l’Extraterrestre. Noi affrontiamo nell’ambito assai largo delle cose da fare una tematica specifica, quella legata direttamente al lavoro, per aiutare in particolare i sindacati a condurre le indispensabili vertenze atte a promuovere i settori di occupazione nuova e utile che dovranno sostituire quelli che devono esser abbandonati perché aggravano ulteriormente il disastro che minaccia la Terra.

Il ricatto che pesa sui lavoratori, imposto da chi ritiene che ci si possa salvare senza una trasformazione profonda del modo di produrre e consumare, è pesantissimo e l’impegno deve andar ben oltre una generica protesta. Per questo, scopo della rubrica non è solo informarvi, ma sollecitare la vostra fantasia e il vostro impegno, qualcosa che ogni persona di sinistra – che si preoccupa oltre che di se stesso anche degli altri – dovrebbe cercare di fare.

Per questo stiamo cercando di attivare sul territorio, reti che mettano in rapporto soggetti sociali diversi per cominciare ad aprire a quel livello le vertenze necessarie. L’indicazione di Landini di costruire accanto ai sindacati di categoria, sempre meno esaustivi oggi che il lavoro è stato così frantumato, anche “sindacati di strada”, facilita la nostra iniziativa.

Per farvi un esempio: il 16 aprile stiamo preparando assieme al sindacato edili, la Fillea, e gruppi femministi, un primo incontro per riflettere sull’abitare oggi e su come usare bene i fondi per la transizione ambientalista nel ridisegnare immobili e quartieri.

Commenta (0 Commenti)

Decreto Sostegni. Il segretario Cgil: allungare il blocco da giugno a tutto ottobre, l’emergenza non è finita. In audizione al senato stoccata al governo sul condono: serve lotta all’evasione e una riforma fiscale

Un lavoratore con la mascherina in una fabbrica a Milano

Il blocco dei licenziamenti va allungato e nel frattempo serve «un piano straordinario del lavoro». Maurizio Landini in audizione al senato sul decreto Sostegni bacchetta il governo Draghi e lancia una proposta per battere gli effetti della pandemia sull’occupazione.

Per il segretario generale della Cgil la situazione è ancora troppo grave per consentire altre scelte: il blocco dei licenziamenti – che proprio il decreto Sostegni allunga da fine marzo al 30 giugno – va portato fino al 31 ottobre. «È importante – ha detto Landini in video collegamento con il senato –. Siamo ancora in piena emergenza».

NEL CORSO DELL’AUDIZIONE il leader della Cgil ha anche ricordato che è aperto il confronto sulla riforma degli ammortizzatori e, dunque, «avere questo periodo che evita di aprire la strada dei licenziamenti – ha detto – credo sia un tema importante». Il decreto Sostegni, ha poi riconosciuto, è un «fatto nuovo e importante», anche se è necessaria «una strategia più generale che affronti un piano straordinario per l’occupazione sia nel settore privato che in quello pubblico».

I sindacati, dunque, pur sottolineando l’importanza del provvedimento da 32 miliardi, tornano in pressing, chiedendo modifiche durante l’iter parlamentare. «Pur apprezzando gli sforzi fatti, continuiamo a ritenere che la data del 30 giugno per lo sblocco dei licenziamenti sia troppo vicina – ha affermato Ignazio Ganga – la distinzione, presente nel decreto, tra datori di lavoro rientranti nel perimetro della cassa integrazione ordinaria (cigo) e cassa integrazione in deroga – rileva la Cisl – non trova riscontro nella situazione reale ancora molto grave sotto i profili sanitario ed economico-sociale, una situazione che non vede settore economico nel Paese che non sia direttamente o indirettamente colpito dagli effetti del virus». Per questo «rinnoviamo la richiesta di prorogare il blocco dei licenziamenti per tutti», prolungando in parallelo la cassa integrazione Covid, «fino a quando sarà terminata la campagna vaccinale e l’emergenza sanitaria», insiste il segretario generale della Cisl, Luigi Sbarra. l licenziamenti «vanno bloccati fino alla fine della pandemia», rimarca Proietti.

LANDINI NON HA POI PERSO occasione per parlare anche della vertenza Alitalia: «Non è accettabile che perdiamo una nostra compagnia così importante e che si subiscano una serie di diktat dall’Europa, che non ha lo stesso comportamento con tutti, come si vede per Air France», facendo riferimento al salvataggio della compagnia francese avallato dalla commissione europea. Il sindacato, proprio per questo, sta «chiedendo la convocazione al governo delle parti sociali per evitare una situazione di non ritorno e drammatica per i posti di lavoro e la capacità industriale, turistica e produttiva del nostro paese».

Infine un giudizio negativo sul condono fiscale che «non ci convince». Esiste il problema del cosiddetto «magazzino» – l’arretrato di cartelle esattoriali che lo stato difficilmente riuscirà a smaltire – , ha detto «ma un conto è cancellare ciò che è realmente irrecuperabile, altro è arrivare a forme che assumono carattere di condono fiscale». «Lotta all’evasione fiscale e una vera e propria riforma del fisco sono l’esigenza che poniamo, il tema che deve essere aperto – ha concluso -. Non può essere che chi paga le tasse debba sentirsi un cittadino si serie B o poco furbo. C’è la necessità di un intervento strutturato di riforma».

POSIZIONI CONDIVISE DA CISL e Uil che sono state audite, sebbene con i soli segretari nazionali e non generali. Per Ignazio Ganga, Cisl, è «necessario sedersi a un tavolo per la riforma fiscale e quindi – ha aggiunto – siamo contrari a un condono». E Domenico Proietti della Uil chiede «preliminarmente di stralciare dal decreto tutto quello che riguarda la rottamazione delle cartelle»: in primo luogo perché «è una vergogna e uno schiaffo in faccia ai lavoratori dipendenti, ai pensionati e alle imprese che fanno il loro dovere con il fisco. La seconda ragione è che non è coerente alle finalità del decreto che vuole sostenere le politiche attive. Chiediamo al Parlamento un atto preciso: stralciare la norma». Proietti si è detto a favore di una «riforma fiscale per la trasparenza e l’equità». E ha chiesto di «mantenere nella sua attuale forma il cashback (contestato da Fratelli d’Italia e da buona parte della destra, ndr) perché – ha detto – come dimostrano i dati dell’Agenzia delle entrate, ogni euro investito nella lotta all’evasione produce 4 euro».

Commenta (0 Commenti)

Novecento. Il 6 aprile 1941 l’invasione nazifascista della Jugoslavia. Un appello di storici chiede giustizia per le atrocità che furono compiute allora. La «continuità dello Stato» del dopoguerra: nessuno pagò per stragi e violenze. Mussolini annunciò già nel ’20: politica del bastone contro la razza slava, inferiore e barbara

Battaglione delle camicie nere entra in Jugoslavia nei primi giorni dell’invasione

Il 6 aprile 1941 divisioni tedesche e italiane invadevano la Jugoslavia dividendola in zone di occupazione. L’Italia monarchico-fascista costituì la «provincia italiana di Lubiana» in Slovenia annettendo al regno di casa Savoia, dal luglio 1941, anche il Montenegro.

Iniziò così l’occupazione della Jugoslavia che non solo completò l’aggressione del regime ai Balcani, iniziata nel 1939 in Albania e seguita nel 1940 in Grecia, ma rappresentò il correlato storico-politico del «fascismo di frontiera» emerso negli anni Venti con lo squadrismo e sintetizzato nei suoi obiettivi da Mussolini nella visita a Pola del 22 settembre 1920: «Di fronte ad una razza come la slava, inferiore e barbara non si deve seguire la politica che da lo zuccherino, ma quella del bastone (…) si possono più facilmente sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani».

IN LINEA con questo impianto ideologico le truppe del regio esercito, le autorità di polizia, i carabinieri e le milizie fasciste dei battaglioni «M» disposero su tutto il territorio le misure della «guerra ai civili», che lo stesso popolo italiano avrebbe poi drammaticamente conosciuto durante l’occupazione nazista. Fucilazioni di civili e partigiani, deportazioni di massa (100.000 jugoslavi trasferiti nei campi d’internamento italiani), incendio e saccheggio delle città e dei villaggi (nel febbraio 1942 l’intera città di Lubiana venne circondata da una «cintura» di filo spinato e posti di blocco e poi razziata), stragi (il 12 luglio 1942 a Podhum 108 fucilati e oltre 800 deportati; a Niksic e in altre città del Montenegro fucilazione di 95 comunisti e 200 civili tra il 20 giugno 1942 e il 25 giugno 1943) violenze e abusi sulla popolazione (nella sola Lubiana morirono 33.000 persone pari al 10% dei suoi abitanti) assunsero un carattere sistemico codificato dalle disposizioni della «circolare 3C» firmata dal generale Mario Roatta, già capo del Servizio Informazioni Militari, guida delle truppe fasciste in Spagna e poi al vertice della II Armata di occupazione in Croazia.

L’OCCUPAZIONE MILITARE costò alla Jugoslavia oltre un milione di morti mentre in tutta l’area dei Balcani i crimini di guerra compiuti dal regio esercito e dalle autorità italiane contribuirono da un lato al rincrudimento delle misure di repressione e controguerriglia antipartigiana e dall’altro ad alimentare la Resistenza militare e civile delle popolazioni in Albania, Grecia e Jugoslavia.

Nel maggio 1942 su La Voce del Montenegro il generale Alessandro Pirzio Biroli da «governatore» della regione scriverà: «Tutto il popolo sappia che ogni partigiano, ogni collaboratore, informatore e simpatizzante dei partigiani sarà fucilato sul luogo della cattura». Dal canto suo Mussolini il 31 luglio 1942 a Gorizia aveva ordinato ai generali: «Al terrore dei partigiani si deve rispondere col ferro e col fuoco. Deve cessare il luogo comune che dipinge gli italiani come sentimentali incapaci di essere duri (…) questa popolazione non ci amerà mai (…). Questo territorio deve essere considerato territorio di esperienza. Non vi preoccupate del disagio della popolazione, lo ha voluto! Ne sconti le conseguenze».

Al termine del secondo conflitto mondiale le Nazioni Unite stilarono un lungo elenco di criminali di guerra italiani che solo per la Jugoslavia comprendeva 750 nomi (generali, ufficiali dell’esercito, carabinieri, questori, camicie nere) a cui si aggiungevano i 142 iscritti nelle liste dell’Albania, i 111 della Grecia, i 12 dell’Urss.

Le ragioni della Guerra Fredda, la nuova collocazione geopolitica di Roma e la sistematizzazione dell’anticomunismo di Stato permisero ai governi dell’Italia post-bellica di non estradare i criminali nei Paesi che ne facevano richiesta; evitare processi presso un tribunale internazionale; non pagare i risarcimenti alle vittime ed agli Stati nonostante le disposizioni del Trattato di Pace di Parigi del 1947. Così la «mancata Norimberga italiana» rappresentò un vulnus storico nella stessa radice di nascita della democrazia repubblicana alimentando il falso mito degli «italiani brava gente», consentendo l’impunità dei criminali ed il loro reinserimento negli apparati delle Forze Armate, dei servizi segreti e delle forze dell’ordine sostanziando una «continuità dello Stato» che incise fortemente sul carattere e la qualità della nostra democrazia nei decenni successivi, tanto che diversi criminali di guerra furono coinvolti nelle stragi e nei tentativi di colpo di Stato degli anni Settanta.

OTTANT’ANNI DOPO l’occupazione della Jugoslavia, un appello di centinaia di storici e studiosi chiede alle istituzioni e al Paese un atto di coraggio in grado di rielaborare sul piano pubblico questo tragico passato rimosso, assumendo come memoria storica collettiva le responsabilità per i crimini compiuti dal fascismo contro altri popoli in un’ottica di superamento dei nazionalismi, di valorizzazione del dettato costituzionale in ordine al ripudio della guerra, di liquidazione tanto etico-morale quanto politico-sociale del fascismo.

Devastazioni prodotte dall’esercito italiano. Un’immagine proveniente dal Museo nazionale di storia contemporanea della Slovenia

L’APPELLO

Alle istituzioni per un riconoscimento ufficiale dei crimini fascisti in Jugoslavia in occasione dell’ottantesimo anniversario dell’invasione da parte dell’esercito italiano.

QUEST’ANNO ricorre l’ottantesimo anniversario dell’invasione della Jugoslavia da parte dell’esercito italiano, avvenuta il 6 aprile 1941. Durante l’occupazione fascista e nazista, e fino alla Liberazione nel 1945, in questo territorio si contano circa un milione di morti. L’Italia fascista ha contribuito indirettamente a queste uccisioni con l’aggressione militare e l’appoggio offerto alle forze collaborazioniste che hanno condotto vere e proprie operazioni di sterminio. Ma anche direttamente con fucilazioni di prigionieri e ostaggi, rappresaglie, rastrellamenti e campi di concentramento, nei quali sono stati internati circa centomila jugoslavi.
La Repubblica Italiana non ha mai espresso una netta condanna, né una presa di distanza radicale da queste atrocità: non sono stati istituiti giorni commemorativi, né sono state compiute visite di Stato in luoghi della memoria dei crimini fascisti in Jugoslavia.

CHIEDIAMO DUNQUE al Presidente e ai rappresentanti delle principali istituzioni una presa di coscienza di questo dramma storico rimosso. L’ottantesimo anniversario sarebbe l’occasione ideale per farsi carico della responsabilità storica di pratiche criminali (…). Una dichiarazione pubblica o una visita ufficiale (per esempio al campo di concentramento di Arbe, sull’isola di Rab, dove morirono di fame e di stenti 1465 persone) avrebbero un notevole significato simbolico e dimostrerebbero il senso di responsabilità delle nostre istituzioni e il riconoscimento della sofferenza inflitta ai popoli della Slovenia, della Croazia, del Montenegro, della Bosnia e Erzegovina. Nel solco dei precedenti incontri ufficiali che hanno avuto luogo negli anni passati (…) questa dichiarazione rappresenterebbe un ulteriore passo in avanti sulla strada della riconciliazione europea e di una più ampia comprensione dei processi storici.

Il testo completo dell’appello, già sottoscritto da centinaia di storici e studiosi, sarà pubblicato da oggi sul sito dell’Istituto nazionale Ferruccio Parri, www.reteparri.it

Da oggi la mostra
«A ferro e fuoco»

Sarà presentata questo pomeriggio alle 17 la mostra virtuale «A ferro e fuoco» che racconta l’occupazione italiana della Jugoslavia tra il 1941 e il 1943 grazie a 200 immagini, 25 testimonianze d’epoca e 81 interviste ai maggiori studiosi dell’argomento: Giancarlo Bertuzzi, Giulia Caccamo, Štefan Cok, Marco Cuzzi, Costantino Di Sante, Filippo Focardi, Eric Gobetti, Federico Goddi, Brunello Mantelli, Luciano Monzali, Jože Pirjevec, Guido Rumici, Nevenka Troha, Anna Maria Vinci. Il progetto è stato curato dallo storico Raoul Pupo. Realizzata dall’Istituto Parri, dall’Istituto regionale per la storia della Resistenza del Fvg e dal Dipartimento di scienze politiche dell’Università di Trieste, la mostra è visitabile su www.occupazioneitalianajugoslavia41-43.it. Oggi la presentazione su https://zoom.us/j/93156396203 e www.youtube.com/user/IRSMLFVG

Commenta (0 Commenti)

Cgil. Misurarsi con la grande questione ambientale comporta la definizione di un piano complessivo a partire dalla centralità dell’occupazione e di una sua trasformazione. Il «sindacato di strada» potrebbe essere uno degli strumenti importanti per rivitalizzare la mobilitazione. Perché oggi viviamo una condizione che non è più quella degli anni ‘60

Il segretario della Cgil Maurizio Landini

In questo anno di pandemia abbiamo tutti imparato molte cose che non sapevamo. Adesso sappiamo che la Terra è molto malata, che la stessa umanità è a rischio di estinzione. E anche il capitalismo, che fino a ieri appariva trionfante, è ormai privo delle sue arroganti certezze. Dello scenario apocalittico che si intravede noi non siamo più premonitori, siamo noi stessi, ci piaccia o meno, protagonisti. Ne parliamo con il segretario generale della Cgil Maurizio Landini.

Pensi che della particolarità del tempo che viviamo ci sia piena coscienza? Che il sindacato possa giocare in questo quadro un ruolo anche diverso da quello del passato ( o forse potremmo dire: recuperare in pieno il ruolo politico che ha giocato nella storia del nostro paese?).

La pandemia ha messo drammaticamente in evidenza l’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo che ha portato alla rottura degli equilibri con la natura. La diffusione del virus ha fatto emergere, in modo drammatico, contraddizioni peraltro presenti già da tempo e ha accelerato la crisi della democrazia già in atto. Il lavoro si è precarizzato e svalorizzato al punto che si è poveri anche lavorando. Il potere decisionale si è accentrato in mano di pochi. Contano di più grandi multinazionali che singoli Stati. Sono diventati sempre più lontani e impenetrabili i luoghi dove vengono assunte decisioni determinanti per tutti noi. Mi chiedi se di tutto ciò vi sia piena coscienza. Io sono certo di una cosa: di fronte alla portata della crisi che stiamo vivendo non si può tornare a fare, come pure qualcuno pensa, le stesse cose di prima. C’è bisogno di un cambiamento radicale: di pensare a un diverso modello di società. E anche il sindacato deve cambiare. È cresciuto in un mondo nel quale i termini crescita, sviluppo, progresso tecnologico, diffusione del benessere coincidevano. Oggi siamo di fronte a un quadro radicalmente nuovo: si è spezzato quel rapporto che sembrava scontato quanto lineare tra sviluppo e benessere. Inoltre la crescita deve misurarsi con un tema nuovo per il sindacato e non solo: il concetto di “limite”, che ci dice che le risorse naturali – aria, acqua, la terra stessa – non sono infinite.

Occorre prendere atto che il modello di crescita che si è affermato fino ad oggi mette in discussione la vita delle persone sul pianeta o quanto meno la sua qualità, innescando un nuovo meccanismo di selezione tra ricchi e poveri. E’ questo il terreno nuovo, difficile, su cui il sindacato deve operare. Il tema di “cosa produrre, come produrre, per chi produrre” diventa decisivo se non si vuole che a pagare il conto della crisi sia il mondo del lavoro.

Rider in sciopero, foto di Aleandro Biagianti

 

È specialmente nei tempi di transizione che il sindacato è stato coinvolto nel dibattito politico generale. Penso, innanzitutto, al Piano del Lavoro, proposto da Di Vittorio nel dopoguerra. Ma penso anche all’apice del “miracolo economico”, nei primi anni ’70, quando i metalmeccanici usarono la forza, accumulata anche dalla spinta sessantottina, per superare l’orizzonte puramente salariale delle rivendicazioni, per aggredire l’organizzazione stessa della produzione, intaccare il potere padronale in fabbrica e trascinare nel conflitto l’intera condizione umana del lavoratore – il suo abitare, la sua salute, la scuola. Fu quando i Consigli di fabbrica produssero anche i Consigli di zona che a loro volta spinsero la creazione di preziosi organismi: Medicina Democratica, Magistratura Democratica, finanche Polizia Democratica. La proposta che tu hai avanzato quando sei stato eletto segretario generale, di sperimentare, accanto a quelli tradizionali di categoria, anche un “sindacato di strada”, mi ha sollecitato a rivisitare quelle memorie. Tanto più interessanti oggi che nuovi movimenti, nati dalle nuove contraddizioni prodotte dal sistema, hanno fatto nascere sul territorio inedite e dinamiche figure sociali che hanno proprie specifiche forme di mobilitazione. Mettere in rete questi soggetti potrebbe arricchire il potere contrattuale di tutti, conferendo al sindacato una nuova preziosa centralità. L’urgenza di definire un progetto adeguato alla difficoltà che presenta la transizione ecologica non avrebbe forse bisogno, per esempio, di un nuovo Piano del lavoro, non affidato agli uffici studi, ma definito coinvolgendo ”la strada”?

Misurarsi con la grande questione della transizione ecologica vuol dire battersi non per una sommatoria indifferenziata di progetti e investimenti. Comporta la definizione di un piano complessivo a partire dalla centralità del lavoro e di una sua trasformazione. Questo vuole dire cambiare radicalmente l’attuale modello di produzione e di consumo; passare dalla produzione di beni di consumo individuali a quella di beni collettivi. Vuol dire occuparsi di risanamento delle aree urbane, della mobilità collettiva, di suolo, aria, sanità, formazione, ricerca, cultura. E soprattutto di energie rinnovabili e di riuso per impedire lo spreco. L’economia circolare, ad esempio, che tutti citano ma nessuno sembra prendere realmente sul serio, vuole dire una nuova politica industriale che implica però il passaggio dalla logica dell’ ”usa e getta” a quella basata sulla manutenzione.

ÈFgovernab un campo che offre grandi potenzialità per nuovi settori di occupazione. Naturalmente un nuovo modello di sviluppo non è un progetto illuministico che si cala dall’alto. Si può attuare a condizione che ci sia un grande progetto di cambiamento generale che nasca dalla contrattazione nei posti di lavoro e nelle vertenze territoriali. E che coinvolga quelli che tu chiami nuovi soggetti, movimenti, figure sociali, frutto delle contraddizioni di questo sistema. E che, non c’è dubbio, bisogna provare a “mettere in rete”, arricchendo così la capacità contrattuale di tutti. In secondo luogo per un cambiamento di tale portata serve il protagonismo delle lavoratrici e dei lavoratori. Bisogna investire sul lavoro e sulla sua qualità, a partire dal superamento della precarietà e dal diritto alla formazione permanente e alla conoscenza.

Un diritto fondamentale se non si vogliono subire le nuove forme di disuguaglianze, di cui l’esclusione dal sapere rappresenta la forma più discriminatoria. I lavoratori devono poter dire la loro, con competenza, sulla natura degli investimenti, sugli indirizzi delle imprese. Si tratta perciò anche di pensare a nuove forme di democrazia economica, di sperimentare nuove forme di codeterminazione nelle imprese, consapevoli che oggi è anche più acuta l’esigenza di una riflessione sulla contraddizione tra il diritto di proprietà e la libertà della persona nel lavoro. In sostanza si deve far si che la Costituzione non rimanga fuori dai cancelli dei posti di lavoro. Penso sia il momento di un sostegno legislativo alla contrattazione collettiva che dia validità erga omnes ai contratti collettivi nazionali. E di una legge sulla rappresentanza che recepisca gli accordi interconfederali, sancisca il diritto di voto delle lavoratrici e dei lavoratori per approvare gli accordi che li riguardano, che certifichi la rappresentanza delle controparti datoriali.

Il progetto di transizione rende necessarie riforme profonde. Sarebbe grave se pensassimo che dovrà pensarci il Parlamento. In quella sede si misurano i rapporti di forza in base ai quali si definiscono i possibili compromessi che poi le caratterizzeranno. Così è stato in passato, quando la sinistra ha avuto la forza, pur non stando al governo, di strappare conquiste decisive. Se oggi non otteniamo più quasi niente è anche perché c’è stata una delega che ha sottratto la politica ai cittadini e ha insterilito lo stesso scontro parlamentare.

Il “sindacato di strada” potrebbe in effetti esser uno degli strumenti importanti per rivitalizzare la mobilitazione della società. Perché oggi viviamo una condizione molto diversa da quella, ad esempio, degli anni ‘60. Allora c’era una omogeneità nelle condizioni di lavoro. Oggi non è più così. Le catene degli appalti e dei subappalti, le esternalizzazioni, le delocalizzazioni hanno prodotto un mondo del lavoro frammentato e diviso. E ciò produce disuguaglianze di reddito e di diritti. La stessa solidarietà fra lavoratori non è più un dato scontato ma un elemento da ricostruire. Oggi giocano un ruolo decisivo strutture sindacali confederali, orizzontali oltreché categoriali, indispensabili per riunificare ciò che è stato diviso. Occorre riscoprire il ruolo fondamentale delle Camere del lavoro, rinnovando la straordinaria funzione che ebbero alla loro nascita, quando furono la sede della costruzione della solidarietà tra persone che facevano lavori diversi o che lavoro non lo avevano affatto, il luogo della mutualità, della formazione e dell’impegno per dare una risposta collettiva a problemi diversi. Proprio per via della frammentazione, il territorio diventa il luogo dove si possono incontrare i lavoratori, in particolare quelli che vivono le condizioni di maggiore disagio. Inoltre, la presenza sul territorio consente di aprire vertenze su servizi, casa, trasporti, cultura, tempo libero. È da lì che si guarda al lavoratore e alla lavoratrice non solo in rapporto al loro lavoro ma anche alla loro complessiva condizione sociale. Significa vedere la connessione tra luoghi di lavoro e ciò che sta fuori, coglierne tutte le dimensioni.

 

Protesta dei rider, foto di Aleandro Biagianti

In questo contesto non pensi che il “sindacato di strada” potrebbe in qualche modo costituire anche un’indicazione positiva nell’ormai asfittico dibattito che tormenta la sinistra: sulla forma partito, se servono o non servono, se contano ormai solo i movimenti o le organizzazioni di volontariato, sulla società civile spesso mitizzata. Insomma: il “sindacato di strada” potrebbe essere il seme che dà forma alla sperimentazione di nuove forme di democrazia organizzata che colmino il pericoloso vuoto che la crisi dei partiti di massa ha lasciato. Un lavoro aggregante, di rete, che potrebbe costituire il terreno su cui proviamo a ridar sostanza alla democrazia, a dare alla partecipazione continuamente invocata un riferimento chiaro. Che è comunque la premessa per ridar senso ai partiti. Non voglio volare troppo alto, ma penso che a partire da questo tipo di esperienza si potrebbe rilanciare la proposta di Gramsci di far crescere sul territorio “consigli”, organismi emersi dal consolidamento dei movimenti in grado di ridurre l’autoreferenzialismo dei partiti e di condizionare gli effetti dello storico esproprio della gestione della società operato dalla burocrazia statale. Nel senso che consentirebbe via via di riappropriarsene, anche rilanciando l’esperienza cooperativa, in qualche settore (l’acqua, per esempio?) oggi abbandonato all’arbitrio delle istituzioni statali. Poiché in questi giorni si celebrano i 150 anni della nascita di Rosa Luxemburg, anche lei, come Gramsci, convinta della necessità di accompagnare con nuove forme di democrazia diretta l’assetto politico, ho provato a buttar lì nelle conferenze che in sua memoria sono state promosse, il tema “Rosa Luxemburg e il sindacato di strada di Landini”. Ho incontrato grande entusiasmo dei compagni.

Come ho già detto, il “sindacato di strada” può aiutare a ricostruire un protagonismo del mondo del lavoro, indispensabile a far fronte dei grandi problemi che abbiamo fin qui delineato. Tanto più quando veniamo da anni durante i quali la partecipazione democratica è stata mortificata da una visione della politica che ha considerato come unica bussola la “governabilità” e “la manutenzione tecnica” del sistema. Le molteplici riforme istituzionali e costituzionali hanno tutte implicitamente espresso un obbiettivo: accentrare la decisione politica negli esecutivi, “liberare il campo da tutte le reti dei poteri intermedi”. Le stesse forze progressiste e di sinistra sono state dentro questo processo e hanno via via spezzato i fili della rappresentanza con il mondo del lavoro. La loro afasia dipende anche da questa rottura.

Io penso invece che cambiamento voglia dire dare vita ad un progetto di trasformazione sociale che si sostanzia del rapporto concreto con le persone. Anche per questa ragione riteniamo fondamentale la tenuta del rapporto unitario con Cisl e Uil. È un rapporto che va rilanciato e che, nel vivo dell’esperienza concreta, deve saper prospettare un nuovo sindacato confederale unitario, plurale, partecipato, democratico. Oggi tra l’altro, c’è una condizione nuova, non scontata, ma che potrebbe consentire di andare in quella direzione: non esistono più le divisioni prodotte dalla guerra fredda. D’altronde, la stagione più intensa della partecipazione democratica, quella degli anni ’70, ha coinciso proprio con l’esperienza unitaria dei consigli di fabbrica e dei consigli di zona. Le stesse riforme strappate allora, quelle che furono chiamate “riforme di struttura”, non erano, come invece accade oggi, editti, ma il frutto di una intelligente pratica sociale: lo Statuto dei Lavoratori del 1970 e lo sviluppo della contrattazione collettiva, la riforma sanitaria del 1978, che era il compimento delle lotte operaie sulla salute in fabbrica e di una medicina alternativa praticata nei territori; la 180 per il superamento dei manicomi che è stata preceduta dalle esperienze di Basaglia a Gorizia e a Trieste; il divorzio e la legge 194 che furono anche il frutto della crescita del movimento femminista che affermò il principio del riconoscimento della cultura di genere e della differenza; la straordinaria esperienza delle 150 ore.

Tu mi chiedi se oggi il “sindacato di strada”, rivisitando quella memoria, possa contribuire ad aprire una nuova stagione di democrazia e di partecipazione. Ti rispondo con qualche considerazione. In primo luogo proprio la frantumazione del lavoro che ha fatto seguito alla controffensiva capitalista degli anni ’80, ha messo in difficoltà la nostra stessa capacità di rappresentanza. È una questione che in gran parte riguarda la politica ma coinvolge anche il sindacato. Bisogna allora pensare e praticare forme di democrazia capaci di raccogliere la complessità delle condizioni di lavoro. Si può, ad esempio, pensare a delegati di sito e di filiera, lavoratori cioè che tentano, a partire dalla loro funzione di rappresentanza, di unire ciò che oggi è diviso. In secondo luogo “sindacato di strada” significa fare del sindacato un soggetto attivo entro un processo aperto e più ampio attraverso il confronto e l’iniziativa con soggetti che possono contribuire a costruire progetti di trasformazione della società e di affermazione di nuovi diritti. Questo vuol dire, come Bruno Trentin ricordava spesso, costruire forme nuove di consultazione e collaborazione reciproca. Forme nuove di rappresentanza, di organizzazione, di partecipazione, non certo sostitutivi degli istituti della democrazia delegata, ma suo arricchimento. Si tratta di problemi non solo italiani, ma europei. E a quel livello dobbiamo affrontarli, costruendo esperienze, e vertenze, comuni, qualcosa che fino ad oggi, diciamo la verità, abbiamo fatto ancora assai poco.

 

Commenta (0 Commenti)

I fondi europei del Piano nazionale di ripresa e resilienza potrebbero essere usati per le industrie delle armi: su TPI la denuncia di Francesco Vignarca, Coordinatore Campagne della Rete Italiana Pace e Disarmo

Immagine di copertina

Una parte dei fondi del Recovery Plan (Piano nazionale di ripresa e resilienza, PNRR) potrebbe essere destinata all’industria delle armi, come emerge dalla lettura delle relazioni sul piano approvate in questi giorni dalle commissioni competenti alla Camera e al Senato. A denunciarlo a TPI è Francesco Vignarca, Coordinatore Campagne della Rete Italiana Pace e Disarmo, che insieme a Sergio Bassoli nel 2020 ha ricevuto il Premio Nazionale Nonviolenza proprio per il lavoro della Rete.

“Quando abbiamo letto le relazioni approvate in questi giorni dal Parlamento”, spiega Vignarca, “ci siamo accorti che non solo le nostre proposte per il disarmo e la conversione dell’industria bellica coi fondi del Recovery Plan non erano state prese in considerazione, ma che nelle richieste del Parlamento era stata inserita anche quella di finanziare, coi fondi europei, il potenziamento e l’ammodernamento dello strumento militare, che è un modo per dire che saranno investiti più soldi sulla spesa militare”.

Questa previsione è una novità introdotta dal nuovo governo. Infatti la bozza precedente del piano, elaborata durante l’esecutivo guidato da Giuseppe Conte, coinvolgeva l’ambito militare solo per aspetti marginali, come l’efficienza energetica degli immobili della Difesa e il rafforzamento della sanità militare. Al contrario, nelle nuove relazioni è stata inserita la possibilità di usare i fondi europei per l’industria militare in Italia.

La posizione della commissione alla Camera, dove la relazione è stata approvata all’unanimità dalle forze di maggioranza (con l’eccezione di Leu, che non ha rappresentanti in commissione Difesa), rispecchia in pieno quella del governo, come ha confermato anche il sottosegretario alla Difesa, Giorgio Mulé. Il deputato di Forza Italia ha manifestato “apprezzamento per la bozza di parere della Commissione che, nei contenuti e perfino nella scelta dei vocaboli, corrisponde alla visione organica che del Piano nazionale di ripresa e resilienza ha il Governo”.

A giocare un ruolo in questo cambio di rotta rispetto al precedente governo sono state probabilmente le nuove forze di centrodestra della maggioranza: Forza Italia e la Lega. “La maggioranza giallorossa era più restia in questo senso, ora invece con questa grande coalizione che prende dentro anche la destra, è stato più facile spingere in questa direzione”, dice Vignarca, che osserva: “La Lega è sempre stata la paladina dell’industria militare del Nord, è ovvio che abbiano spinto in questo senso e lo si evince dagli interventi del gruppo parlamentare. La particolarità è che persino l’unica forza d’opposizione – Fratelli d’Italia – è favorevole a questa direzione. Non c’è stata nessuna voce che si è levata in senso contrario”.

Cosa dicono le relazioni del Parlamento

Negli ultimi giorni, le commissioni competenti alla Camera e al Senato hanno approvato le relazioni sul PNRR, partendo dalla proposta presentata dell’ex presidente del Consiglio Giuseppe Conte. Nel testo approvato dalla Camera si legge la raccomandazione a “incrementare, considerata la centralità del quadrante mediterraneo, la capacità militare dando piena attuazione ai programmi di specifico interesse volti a sostenere l’ammodernamento e il rinnovamento dello strumento militare, promuovendo l’attività di ricerca e di sviluppo delle nuove tecnologie e dei materiali, anche in favore degli obiettivi che favoriscano la transizione ecologica, contribuendo al necessario sostegno dello strategico settore industriale e al mantenimento di adeguati livelli occupazionali nel comparto”.

La relazione del Senato sottolinea invece che “occorre, inoltre, promuovere una visione organica del settore della Difesa, in grado di dialogare con la filiera industriale coinvolta, in un’ottica di collaborazione con le realtà industriali nazionali, think tank e centri di ricerca”. Lo stesso testo ipotizzata la realizzazione di cosiddetti “distretti militari intelligenti” per attrarre interessi e investimenti.

L’approvazione delle relazioni arriva dopo settimane di audizioni, in cui, come sottolinea Francesco Vignarca, sono stati auditi rappresentanti dell’industria militare (come AIAD, Anpam, Leonardo spa) mentre non sono state prese in considerazione le “12 Proposte di pace e disarmo per il PNRR” elaborate dalla Rete Italiana Pace e Disarmo e inviate a tutte le Commissioni competenti.

Recovery Plan e armi “green”: la denuncia della Rete Italiana Pace e Disarmo

Dalla Rete Italiana Pace e Disarmo, i riferimenti all’industria militare contenuti nelle relazioni sul Recovery Plan vengono visti come “un tentativo di greenwashing, di lavaggio verde, dell’industria delle armi”, che il gruppo di attivisti “stigmatizza e rigetta”. “Anche se green le bombe sono sempre strumenti di morte, non portano sviluppo, non producono utili, non garantiscono futuro”, si legge nel comunicato diffuso dall’associazione. “La Rete italiana Pace e Disarmo denuncia la manovra dell’industria bellica per mettere le mani sui una parte dei fondi europei destinati alla Next Generation”.

“Se con la bozza precedente il governo non avrebbe potuto investire nulla dei fondi del Recovery sull’industria delle armi, adesso si è aperta la porta a questa possibilità“, dice a TPI Vignarca. “E ci aspettiamo che, dato che la proposta è stata approvata col voto di tutti, è perché l’intenzione è quella di metterci dei fondi”. Oltretutto, non è neanche detto che questi fondi vengano usati effettivamente per rendere più “green” queste industrie.

“Non sono affatto sicuro che inseriranno solo miglioramenti energetici rispetto alla strutturazione dei sistemi d’arma”, sostiene il rappresentante della Rete italiana Pace e Disarmo. “Potrebbero anche semplicemente considerare che l’industria potrebbe fare da volano economico. Ma noi vogliamo puntualizzare una cosa”, prosegue Vignarca, “non è vero che la ripresa si fa solo con l’industria delle armi. Anzi, il fatturato dell’industria militare è meno dell’1 per cento del Pil italiano, l’export militare è lo 0,7 per cento di quello italiano, gli occupati diretti dell’industria militare sono lo 0,21 per cento di tutti gli occupati in Italia. È veramente l’industria strategica con cui noi rilanciamo l’economia?”.

Ora resta da vedere quanti fondi verranno stanziati dal governo su questo punto, e se la questione verrà in qualche modo impattata dalla necessaria interlocuzione con Bruxelles, che potrebbe segnalare che questi interventi non corrispondono alle linee guida del Next Generation EU, e quindi farli escludere dal piano. “Non mi aspetto grandi cambiamenti, perché purtroppo l’Unione europea proprio da questo ciclo di bilancio ha iniziato a finanziare il Peace Facility, il fondo europeo per la Difesa, con soldi che arrivano direttamente a finanziare gli armamenti, però non escludo che ci sia questa possibilità”.

Il fatto che con un fondo denominato “Next Generation EU” (Nuove generazioni Ue) si possa finanziare l’industria delle armi, per Vignarca, è emblematico. “Per noi il futuro dei nostri figli non dovrebbe basarsi sulle armi, ma sulla lotta al cambiamento climatico, su un’Europa più attenta ai diritti e alle risorse. Non sulle attività militari, che sono strutturalmente distruttive”.

Leggi anche: 1. La fabbrica sarda Rwm che produce le armi con cui i sauditi bombardano lo Yemen? Riconvertiamola /2. Yemen: il Parlamento prolunga lo stop alla vendita delle armi italiane verso Arabia Saudita ed Emirati /3. Yemen: le bombe made in Italy che uccidono i civili. L’inchiesta di TPI svela il business di armi tra Arabia Saudita e Italia

4. La nave saudita Bahri attracca a Genova con a bordo carri armati: quindi la guerra è un servizio essenziale? /5. Disarmo nucleare: “Parlamentari M5S erano tutti favorevoli, ma l’Italia non ha ancora ratificato il trattato” /6. Entra in vigore il trattato sul disarmo nucleare, ma le superpotenze (e l’Italia) non l’hanno firmato

Commenta (0 Commenti)