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12 dicembre ’69. Quella strage racconta la modalità regressiva delle classi dirigenti italiane di fronte alle crisi e alla loro incapacità nell'assorbire l'ingresso delle masse nella vita pubblica

Un aspetto dei funerali che si sono svolti nell'interno del Duomo. Fuori dal Duomo una folla immensa

Un aspetto dei funerali che si sono svolti nell'interno del Duomo. Fuori dal Duomo una folla immensa © Torino/LaPresse

Il 12 dicembre 1969, cinquantadue anni fa, è una data che racconta molto dell’Italia di fine anni Sessanta. È un Giano bifronte della storia del Paese che sintetizza le grandi spinte progressive emerse dalle lotte sociali delle classi subalterne nel corso del biennio 1968-1969 (la più grande mobilitazione operaia e sindacale della storia della Repubblica) e le recrudescenze regressive delle classi proprietarie deflagrate, in maniera anonima e non rivendicata, con la strage di Piazza Fontana e gli attentati di Roma.

Il 12 dicembre il Senato votava l’approvazione in prima lettura dello Statuto dei Lavoratori (diverrà legge il 20 maggio 1970 con il voto della Camera) mentre a Parigi il ministro degli Esteri Aldo Moro rappresentava l’Italia nella riunione del Consiglio d’Europa che avrebbe espulso la Grecia dei colonnelli (che preferì ritirasi da sola) dal consesso delle democrazie continentali.

Nelle ore successive alla strage, compiuta dai fascisti di Ordine Nuovo con il decisivo supporto degli apparati di forza dello Stato, l’Italia poté assistere all’indecenza di un ferroviere anarchico già staffetta partigiana (Giuseppe Pinelli) interrogato negli uffici della Questura di Milano diretta da un ex capo-carceriere fascista (Marcello Guida, già direttore del confino di Ventotene). Da quegli uffici Pinelli uscì volando dalla finestra dell’ufficio del commissario Luigi Calabresi dove era trattenuto illegalmente ben oltre i termini del fermo di polizia. Intanto il canale unico della Rai-Tv con l’inviato Bruno Vespa annunciava a tutti gli italiani che l’anarchico Pietro Valpreda era «uno dei colpevoli della strage di Milano e degli attentati di Roma». Si ruppe lungo quel crinale il rapporto di fiducia tra l’informazione ufficiale e l’opinione pubblica e da lì nacque, con glorie e limiti, la «controinformazione».

L’anomalia italiana rispetto al resto d’Europa si configurò nel rapporto torsivo tra ingresso della democrazia conflittuale nella sfera pubblica e risposta armata di organismi politici, paramilitari e militari. Milioni di ore di sciopero, manifestazioni, occupazioni di università e scuole o scioperi «selvaggi» si ebbero in tutti i Paesi europei a capitalismo maturo e democrazia liberale. In nessuno di questi Stati lo stragismo si manifestò come fenomeno di lunga durata e di opposizione diretta a tali processi, configurando una dimensione distorta non solo del conflitto sociale ma anche della categoria della «violenza politica» che nell’immaginario collettivo di oggi è associata non alle stragi e alle responsabilità dello Stato (prontamente autoassoltosi) ma solo agli anni cinematograficamente definiti «di piombo», così da cancellarne il tratto democratico con cui si caratterizzano.

Il 12 dicembre racconta la modalità regressiva con cui le classi dirigenti italiane hanno storicamente approcciato alle crisi ma soprattutto tanto la loro incapacità nell’assorbire l’ingresso delle masse nella vita pubblica quanto la loro repulsione verso la democrazia conflittuale, che segna invece il carattere della Costituzione repubblicana nata dall’eredità dell’antifascismo e della Resistenza.

In un quadro storico completamente mutato; ad oltre trent’anni dalla caduta del muro di Berlino; in una fase di «riflusso» della globalizzazione; in un contesto mondiale piegato dalla crisi pandemica che da subito si è correlata con la crisi economico-sociale e formativo-culturale, fa una certa impressione – fatta salva l’«unicità» della stagione di lotte dell’autunno caldo – registrare come scioperi, manifestazioni e partecipazione dal basso vengano anche oggi delegittimati e definiti «irresponsabili» quando al contrario rappresentano il diritto ad esistere delle classi subalterne dentro questa crisi non più solo come oggetto ma come soggetto.

Tra gli indirizzi positivi che si possono trarre dalle stagioni ’60-’70 emergono senza dubbio la centralità dell’agire collettivo e la pratica dell’uguaglianza sostanziale e della sovranità popolare che informano cuore e visione della Costituzione. Quando in discussione sono i fondamenti della salute, del lavoro, della giustizia sociale, dell’istruzione e dell’uguaglianza di genere è indispensabile, per la sopravvivenza di una democrazia, la mobilitazione delle forze sociali e popolari.

Per questo è una buona notizia «che viene dal passato» e si conferma nel presente delle diseguaglianze, il fatto che lavoratori, precari, disoccupati e chi paga nel quotidiano il prezzo duro della crisi liberale pretendano il diritto di parola e rivendichino i propri diritti ed interessi di classe. Ciò segna, a dispetto della «indignazione liberale», il ritorno nello spazio pubblico di un pezzo largo della società, non più ricurvo nella solitudine scura della crisi. «È fatto giorno -scriveva Rocco Scotellaro- siamo entrati in gioco anche noi con i panni e le scarpe e le facce che avevamo».

 

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Il golpe in casa. Del resto bastava guardare a 70 anni di storia per capire che gli Stati uniti, che si battono contro le ingerenze altrui, nelle crisi internazionali, abbiano costruito la distruzione della democrazia altrui, attraverso un sistema violento di ingerenza politica e militare con colpi di stato

 

Avete presente, lo «stupore» del governo Draghi di fronte alla proclamazione dello sciopero generale del 16 dicembre per l’iniquità della legge di bilancio? Non è stupore, è ipocrisia. Sono pienamente consapevoli che la legge di bilancio è limitata e sbagliata di fronte al peso delle diseguaglianze che dilagano con in più la condizione della pandemia, ma è come se dicessero: «Che volete di più?». Malcelata e sottesa alla stupefazione fa capolino l’ipocrisia consapevole, che sbatte sul piatto della bilancia l’attualità dei rapporti di forza tra le classi.

E se volgiamo lo sguardo alle cose del mondo, è quasi peggio. L’anno che volge al termine si è aperto con un evento epocale- paragonabile alla caduta del Muro di Berlino – l’assalto dei riots al Campidoglio americano, simbolo della democrazia statunitense, contro «il furto della vittoria presidenziale di Trump». Sull’evento oggi si celebrano processi che tuttavia sembrano riattivare la pancia reazionaria e di massa dell’America e lo stesso Donald Trump, mentre, denunciano il Guardian e il New York Times, emerge anche un sordido golpe preparato da Trump, con tanto di stato d’assedio militare pronto, per fermare l’insediamento di Biden. All’assalto guardò uno sgomento e immobile neoeletto Joe Biden. «Non è questa la faccia dell’America – gridò Biden – il mondo ci guarda, noi siamo il faro della democrazia».

Ma quel giorno il «faro» si spense e Alan Friedman, non un bolscevico, commentò: «Ora non possiamo più essere il modello di democrazia nel mondo». Se fosse andato in porto il golpe di Trump saremmo stati alla nemesi cilena della storia americana.

Del resto bastava guardare a 70 anni di storia per capire che gli Stati uniti, che si battono contro le ingerenze altrui, nelle crisi internazionali, abbiano costruito la distruzione della democrazia altrui, attraverso un sistema violento di ingerenza politica e militare con colpi di stato – c’è un nuovo libro illuminante da leggere “Sistema Giacarta” – finanziamento di paramilitari (anche in Italia), e soprattutto guerre, tante guerre impunite delle quali soffriamo i nostoi, i tragici ritorni che si chiamano profughi, una umanità disperata quanto cancellata; e il terrorismo come risposta asimmetrica, violenta e sanguinosa anch’essa, alle aggressioni militari che hanno devastato generazioni e continenti a partire dal Medio Oriente.

Fino al ritiro Usa dall’Afghanistan la cui occupazione militare con la Nato è durata 20 anni, ma come «vendetta per l’11 settembre 2001» non certo per la democrazia: parole di Biden. Che torna nella crisi ucraina come un elefante, dimentico del suo coinvolgimento personale non limpido nelle vicende di Kiev fin dalla rivolta oscura di Piazza Majdan, per riaprire lo scontro con la Russia (che il capo di stato maggiore Usa Austin chiama ancora «Unione sovietica»), rea di «aggressione» perché muove le truppe entro i suoi confini però – le aggressioni belliche Usa sono state ben altra cosa e purtroppo fuori dai suoi confini. Poi, se un’alleanza militare offensiva come è la Nato – rivitalizzata con il pericoloso allargamento a Est che circonda la Russia con sistemi d’arma, basi, missili, manovre dal Baltico al Mar Nero -, si allargasse ai confini Usa saremmo già alla Terza guerra mondiale.

Così ha promosso un vertice con Putin dal quale il leader russo – che in quanto ad ipocrisie non scherza – è uscito mezzo vincitore, perché si è reso evidente che quella potenza è tutto meno che in declino. Se ne deve essere accorto tardivamente Biden perché da due giorni la Casa bianca tuona che saranno gli Stati uniti a decidere sull’ingresso nella Nato dell’Ucraina. Rischiamo un Afghanistan nel cuore d’Europa: a deciderlo sarà Biden.

Non è dato poi capire che cosa sia realmente cambiato negli Usa in questi quasi dodici mesi, se non la pandemia – che dovremmo «ringraziare», ahimé, se nella cruda Europa ha permesso finora la sospensione del patto di stabilità – finalmente riconosciuta dopo il negazionismo di Stato trumpiano e per la quale vengono impegnati montagne di finanziamenti. Ma la stagione americana resta attraversata da diseguaglianze profonde, di reddito, di razza, di genere – per non dire della guerra civile strisciante che l’attraversa -, mentre in numerosi Stati viene rimesso in discussione anche il diritto di voto. Per i migranti Biden riedita la politica trumpiana del respingimento e del Muro per la marea umana in fuga dall’America centrale e dall’America latina verso i confini del Messico.

Ma l’ipocrisia americana è inarrestabile: ha avviato sanzioni contro la Bielorussia per il suo ruolo vergognoso nella pressione dei profughi afghani alla frontiera polacca usandoli come squallida arma politica, mentre gli Usa stabiliscono un nuovo rapporto politico-istituzionale di forza con Messico e America centrale basato sui respingimenti dei migranti e in forza del Muro americano alla frontiera. Parafrasando Orwell e guardando le tendopoli nostrane ora al gelo, dal Pas de Calais, a Ventimiglia, al confine di fili spinati spagnolo, ai boschi polacchi, alla Bosnia, se il presidente bielorusso Lukashenko è un porco come distinguerlo dai maiali europei e occidentali?

Nonostante tutto questo Biden si è fatto promotore di un «summit per la democrazia» esclusivo dei cattivi e dei nuovi nemici, riproponendo gli Usa come faro, senza avere risolto alcuno dei problemi che ha in casa, e scegliendo come interlocutori altri «fari» quali Bolsonaro, Erdogan, il Pakistan, il governo polacco sotto infrazione dalla Corte Ue per violazione dello stato di diritto. Un’operazione che il settimanale Time ha definito una «vetta di ipocrisia».

A riprova, nello stesso giorno del summit è arrivata la nuova sentenza contro Julian Assange, che con Wikileaks è stato il «giornalista diffuso» che ha rivelato i crimini delle guerre occidentali in Iraq e Afghanistan. Ora Assange è estradabile negli Stati uniti. Lo aspetta un tribunale per accusarlo di tradimento. Con lui è colpita a morte la libertà d’informazione, cuore di ogni democrazia. Il faro americano resta spento.

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Non vi è in nessuna parte de La Storia Infinite, il romanzo di Michael Ende, nulla che possa lasciar intendere che ci sia una vicinanza spirituale o fattuale tra il personaggio Atreju con ciò che propugnano coloro che si identificano nella manifestazione politica di Fratelli d’Italia. Perché quindi FdI usurpa questo splendido personaggio intitolandogli un suo evento?

Atreju, il protagonista de "La Storia Infinita" non ha nulla da dividere con un programma politico di destra. Atreju non è nemmeno secante con alcun slogan o prospettiva populista e nazionalista. Per quale ragione l’evento politico organizzato da Fratelli d’Italia si chiama Atreju?

Atreju creato da Michael Ende non ha famiglia è cresciuto dalla comunità Pelleverde: non c’è padre, non c’è madre, non c’è sacra famiglia tradizionale nella sua vita. Il nome Atreju nella lingua del suo popolo significa proprio “cresciuto da tutti”. In Fantasia il mondo della Storia Infinita tutti i popoli parlano lingue incomprensibili gli uni agli altri ma tutti conoscono l’altofantasico, lingua fondamentale per comprendersi e accogliersi. In tutto il libro la lotta di Atreju contro il Nulla che sta distruggendo Fantasia è il centro attorno a cui si muovono le civiltà e le storie del romanzo, che vede l’irriducibile battaglia della capacità di immaginare contro la gelida ragion pratica dell’esistere umano. La sintesi dell’arco del libro è tutta tracciata nell’indimenticabile dialogo con Mork il lupo mannaro – emissario del Nulla –  che in cerca di Atreju per assassinarlo, gli presagisce che il destino dell’essere trasformati dall’avanzare del Nulla significa cadere nel mondo degli umani ossia diventare menzogne.

Michael Ende scrive un romanzo magnifico di resistenza della fantasia (il contrario della bugia) come unica forma di libertà, della comprensione tra culture diverse, della resistenza al male come alleanza tra stirpi di fattezza, pensiero, lingua ed azione opposte. Il percorso etico di Atreju è compiuto grazie al rapporto con Fucur (che nel film diventa Falcor) il Drago della Fortuna, che tra le sue molte abilità che si aggiungono al poter volare dormendo e cibarsi d’aria ne ha una che lo contraddistingue: sa parlare con i serpenti e riesce a farlo perché – lo spiega lui stesso – tutte le voci della gioia sono simili. Il drago insegna ad Atreju che non esistono popoli o culture nemiche e che la parola della gioia è comprensibile a tutti, quando i serpenti sono felici è possibile parlargli e soprattutto intenderli. Quale sarebbe qui la vicinanza con idee di chiusura dei confini, di affondamento delle navi che salvano vite, di diffusione dell’armarsi perchè  “la difesa è sempre legittima”, della diffidenza verso lo straniero e le altre culture?

In che modo Atreju ispira i giovani della destra?

Nella lotta al Nulla materialistico che avanza sugli ideali! Questo forse mi risponderebbero, ma non vi è in nessuna parte del libro nulla che possa lasciar intendere che ci sia una vicinanza spirituale o fattuale tra Atreju con ciò che propugnano coloro che si identificano in questa manifestazione politica. Perché quindi Fratelli d’Italia usurpa questo splendido personaggio intitolandogli un suo evento? Harold Bloom definirebbe questo una “mislettura”, un travisamento. La storia della lettura è una storia di tradimenti, e ogni pagina che il lettore sente propria è spesso una mislettura ossia una propria, disordinata, spesso irrazionale percezione dello scritto. Nulla di male, anzi: questo può essere un bene, il cuore pulsante della conoscenza pulsa di fraintendimenti e non di analisi critiche rigorose, nella lettura la vera magia si compie quando accade quello che in psicanalisi definirebbero “l’angoscia dell’addebito”, il sentirsi cioè responsabili di ciò che si legge. Questa dinamica è vitale nella lettura, ma tutt’altro è intitolare un evento di un partito che nulla ha da dividere con Atreju. Questo è sfruttare una storia che non gli appartiene. Avere la pretesa di attribuire un significato radicalmente altro rispetto alle intenzioni dell’autore. Il neoscettico Rorty la definirebbe “trasvalutazione”, invertire i significati, attribuirne di completamente altri. Ma credo che in questo caso si tratti solo di furberia: utilizzare una figura eroica di un libro (o più probabilmente ne avranno visto solo il film) e usarlo come mera propaganda per impacchettare eventi.

Sento la necessità di difendere il mio amato Atreju da questo ingiusto saccheggio della sua figura.

Michael Ende fu per tutta la vita un’antifascista, costretto ad arruolarsi nella gioventù hitleriana a 15 anni. Riuscì poi a disertare e sostenere gruppi di resistenza bavaresi che sognavano la possibilità di prendere il potere in Baviera e darlo agli americani senza subire invasione. Tentativo che non riuscì in nessuna sua parte. Racconta nelle sue pagine autobiografiche che passando in bicicletta dinanzi ai corpi impiccati di ragazzi che avevano disertato come lui leggeva la scritta “sono stato preso dai cani alla catena” (così venivano definiti i reparti dell’esercito alla ricerca dei disertori), oppure “mi hanno arrestato le SS.”  Quella immagine dei cani alla catena alla ricerca di chi fuggiva dalla costrizione della leva li ritroveremo nel mostruoso lupo Mork.

Il suo più grande cruccio per tutta la vita fu quello di non essere considerato a pieno uno scrittore, come accade per tutti gli autori relegati al ruolo di autori per l’infanzia. “Si può entrare – scrive Ende – nel salotto letterario da qualsiasi porta, dalla porta della prigione, dalla porta del manicomio o dalla porta del bordello. C'è solo una porta dalla quale non si può uscire, la porta della nursery. I critici non te lo perdoneranno. Anche il grande Rudyard Kipling lo sentiva. Mi chiedo sempre con cosa abbia a che fare, da dove venga questo particolare disprezzo per tutto ciò che ha a che fare con il bambino".

È dal 1998 che esiste Atreju, manifestazione prima di Azione Giovani, poi di Giovane Italia e infine di Gioventù nazionale. Anche il nome Giovane Italia (che si rifà alla Giovine Italia degli studenti missini) l’organizzazione giovanile ufficiale del Partito della libertà non aveva nulla a che fare con la Giovine Italia mazziniana, che si fondava su valori di universalismo anticlericale e europeistico, sulla creazione di una società solidale e operaia. Anche Fronte della Gioventù è un nome usurpato dalla destra neofascista alla storia della lotta politica operaia: il fronte della gioventù nato nel 1944 era un’organizzazione partigiana che univa dai militanti del partito d’azione alle partigiane dei Gruppi di Difesa della donna, dai repubblicani ai comunisti. Il grande teologo David Maria Turoldo fu tra gli animatori del fronte della gioventù. Eppure nel 1971 gli eredi della Repubblica di Salò, i missini appunto, decisero di chiamare la loro organizzazione giovanile Fronte della gioventù, un nome partigiano. Fu proprio il Fronte della Gioventù a creare i Campi Hobbit: eppure cosa c’entrava il popolo creato da Tolkien che fumava erba pipa e aborriva la guerra e i conflitti con i giovani missini che si riconoscevano nella storia delle Brigate Nere e nel sogno della Fortezza Europa? Nulla. Il Signore degli Anelli di Tokien che negli Usa veniva considerato “la bibbia hippy”  divenne completamente un mito fondativo della destra radicale italiana in maniera del tutto abusiva.


La destra probabilmente incapace di poter abbracciare pubblicamente i suoi riferimenti teorici, se scegliesse Evola o Junger,  Drieu La Rochelle o Brasillach, Mishima o De Montherlant  (autori su cui mi sono formato e continuo profondamente a studiare), trovando nelle loro pagine nomi a cui ispirare i propri eventi, rischierebbe di sentirsi complice con la propria storia, riferimenti ai regimi o a scelte della rivoluzione conservatrice verso cui non vuole essere richiamata. Furberscamente sperano che nomi letterari diano nuovi vesti a progetti politici che rimangono della stessa carne. Forse Atreju, come gli Hobbit, sono scelti nel mazzo delle figure letterarie  per rendere più affascinante e nobile politiche autoritarie e reazionarie che da sole non avrebbero alcun fascino?

Non so se gli eredi di Michael Ende sappiano di questo evento di Fratelli d’Italia. Non so se davvero abbiano potuto autorizzare che il nome di Atreju sia giustapposto a una tal cosa, probabilmente nessuno gli ha chiesto nulla. Ma come Fantasia pretende, il lettore non può lasciare che un personaggio sia reso menzognero dagli uomini e quindi con queste righe spero di poter dare ad Atreju ciò che Bastiano prova a concedere, la forza di resistere e di esistere libero dalla manipolazione della furbizia politica degli uomini. Di questi uomini soprattutto.

 

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Viminale. Si dimette il capo dipartimento libertà civili e immigrazione. Era stato prefetto a Reggio Calabria dal 2017 al 2019. L’ex sindaco del borgo calabrese: «Quando arrivò in prefettura per noi cambiò tutto»

L'ex sindaco di Riace Mimmo Lucano

L'ex sindaco di Riace Mimmo Lucano

«Umanamente mi dispiace per la moglie (Rosalba Bisceglia ndr) perché è una storia di sofferenza che io rispetto anche e soprattutto alla luce del principio di innocenza, che sulla carta dovrebbe valere per tutti», dice Mimmo Lucano dopo le dimissioni del capo dipartimento libertà civili e immigrazione del Viminale Michele Di Bari. L’ex sindaco di Riace lo conosce bene perché dal 2017 al 2019 è stato prefetto a Reggio Calabria e ha gestito il caso Riace. «Le mie critiche sono state sempre di natura politica e le sue dimissioni la dimostrazione che la luce si fa strada da sola».

Lucano, lei non è mai stato tenero con Di Bari. Come giudica le sue dimissioni di ieri?

L’inchiesta che vede coinvolta la moglie è indubbio che abbia creato in lui un qualche imbarazzo da cui pensa di sottrarsi rassegnando le dimissioni. Ma il problema è di natura politica. Troppi misteri si sono annidati nella prefettura di Reggio quando a guidarla era Di Bari. Prima che lui arrivasse, Riace aveva avuto sempre rapporti molto stretti con la prefettura perché era sempre disponibile ad accogliere a tutte le ore i migranti. Un filo diretto tra istituzione e seconda accoglienza che funzionava. Poi, con il cambio al vertice, tutto è iniziato a mutare. La prefettura è diventato luogo ostile, era impossibile comunicare con i funzionari. In quel tempo la notorietà acquisita da Riace era alta e aveva attirato l’attenzione mondiale. Sono iniziate le ispezioni della Guardia di Finanza, dei funzionari prefettizi. Quattro relazioni in poco tempo, due a favore e due contrarie. Una di queste, quella più favorevole dove si descrive il modello di accoglienza di Riace, così come lo raccontava il mondo intero, è sparita. Abbiamo aspettato un anno con incessanti richieste formali dei miei legali prima di poterla leggere per intero. Un giorno mi presentai con padre Zanotelli in prefettura e Di Bari si rifiutò di incontrarci. Mentre fu molto solerte e puntuale nel firmare l’autorizzazione a una manifestazione neofascista a Riace. Portarono le bandiere nere fin sotto al Comune. Una vergogna.

Matteo Salvini ha attaccato duramente la ministra degli Interni. Parla di «disastro Lamorgese» e ne chiede le dimissioni immediate. Che ne pensa?

Penso che è capace di tutto, anche di smentire se stesso. Ma se è stato lui a nominare Di Bari capo dipartimento del Viminale, cosa vuole ancora? Era stato lo stesso prefetto a firmare l’ordine di demolizione della baraccopoli di San Ferdinando. Quando Salvini si presentò con le ruspe c’era al suo fianco proprio Di Bari. È uno scandalo che Di Bari sia stato confermato al vertice del dipartimento Immigrazione anche dai governi Conte e Draghi. Le piaghe del caporalato, del neoschiavismo, delle baraccopoli come Rosarno e Foggia sono i frutti marci di una politica delle migrazioni fallimentare. Io continuo a girare per l’Italia per raccontare Riace. Per parlare degli sfruttati, rievocare Becky Moses, Soumaila Sacko e gli altri martiri della Piana. Perché, malgrado la procura di Locri, il prefetto Di Bari e gli altri personaggi che l’hanno affossata, Riace è per sempre.

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L'appello. L'Alleanza contro le povertà ai politici che discuteranno il reddito di cittadinanza e nella legge di bilancio introdurranno nuovi limiti e condizioni contro i poveri. La proposta di otto modifiche. Il rischio di trasformare la misura in una dura politica di Workfare già pensata in questi termini dai Cinque Stelle e dalla Lega tre anni fa. E Landini polemizza con Bonomi di Confindustria che vuole abolire il "reddito"

Una manifestazione per l'estensione del

Una manifestazione per l'estensione del "reddito di cittadinanza" verso il "reddito di base"

«Mentre l’attenzione mediatica si focalizza su furbetti e truffatori, la politica pensa soltanto a mettere qualche risorsa in più e ad annunciare controlli sul reddito di cittadinanza . Perché? Perché è più facile! Perché il tornaconto elettorale si misura meglio con bonus immediati, non importa se ingiusti, che con una riforma». La politica sociale al tempo del «governo dei migliori» in Italia, un paese chiamato Draghistan, è stata riassunta da Gianmario Gazzi, presidente dell’Ordine Assistenti Sociali Consiglio Nazionale (Cnoas) durante una conferenza stampa dell’Alleanza contro la povertà alla stampa estera. «Il “governo dei migliori” è riuscito a scontentare tutti: persone, professionisti, terzo settore, mondo del lavoro, volontariato. Noi che siamo quotidianamente con i più vulnerabili diciamo chiaro che i poveri sono usati e non aiutati».

«Il reddito di cittadinanza ha dimostrato di avere un ruolo decisivo per contrastare le povertà – ha detto Domenico Proietti, segretario confederale Uil – Metterlo in discussione sarebbe una tragedia per milioni di persone e per la tenuta sociale del paese. Solo chi è in profondissima malafede può disconoscere questi risultati, proponendone l’abolizione». Ancora ieri, il presidente di Confindustria Carlo Bonomi si è unito al coro degli «abolizionisti». Maurizio Landini, presente all’incontro dell’Alleanza contro la povertà di cui anche la Cgil fa parte, lo ha criticato. »Bonomi ha trovato il modo di unirsi al coro di chi vuole cancellare il reddito di cittadinanza e che credo sia inaccettabile: la povertà non è una colpa ma è frutto di un modello sociale ingiusto da cambiare».

«Basta con le narrazioni tossiche», «la povertà non è un crimine». Questo è l’appello dell’Alleanza contro la povertà, una rete composta da 38 associazioni, che ieri si è rivolta alla maxi-maggioranza del governo Draghi che, nella legge di bilancio, introdurrà nuovi paletti, limiti e penalità contro i beneficiari del «reddito». «Noi riteniamo che questa misura così sia insufficiente – ha detto Roberto Rossini, il portavoce della rete – è erogata a poco più di 3,5 milioni di persone mentre per l’Istat i poveri assoluti sono 5,5 milioni. Il dibattito sulla povertà non può essere ridotto a un difetto della legge, in particolare al tema dei “furbetti”. Torniamo al contenuto delle questioni». Le proposte dell’Alleanza mirano a rimuovere il vincolo che esclude gli stranieri extracomunitari residente in Italia da meno di 10 anni. «Non esiste in nessun paese» ha detto Antonio Russo (Acli). Si chiede ai politici di cambiare la scala di equivalenza del reddito Isee che penalizza le famiglie numerose, allentare il vincolo aggiuntivo sul patrimonio mobiliare che esclude dall’accesso e rendere volontari, e non obbligatori, i Progetti utili alla collettività (Puc) che possono trasformarsi in lavori servili.

Stando a quanto prevede la legge, il cosiddetto «reddito di cittadinanza» è in realtà una dura politica di Workfare che può trasformarsi in lavoro servile,

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Quirinale. Nel caso di un premier dimissionario, a gestire la crisi dovrebbe essere Mattarella prima della fine del mandato e dell’insediamento del nuovo presidente

 

Il capo dello Stato viene eletto dal Parlamento in seduta comune integrato dai delegati delle Regioni. Quest’organo deve individuare la persona che ritiene sia in grado di svolgere il ruolo di garante politico della Costituzione per il lungo periodo di sette anni. Questo dice la nostra Carta e da qui dovremmo partire se volessimo – come dovremmo – ragionare per principi e non per immediate convenienze.

La discussione, invece, è dominata dalla ricerca di un candidato che sia in grado di garantire, nel breve periodo, gli attuali assetti di potere, assicurando una continuità di indirizzo politico e la regolare conclusione della legislatura. Visioni miopi che rischiano di piegare le logiche della Costituzione a quelle dalla politica.
Così è solo per la personale sensibilità costituzionale del presidente Mattarella che è venuta meno un’ipotesi disinvoltamente perseguita che avrebbe sì garantito lo status quo, ma a scapito della tenuta futura del sistema costituzionale. Infatti, la rielezione dell’attuale titolare della carica presidenziale, dopo il precedente di Napolitano, avrebbe finito per scardinare il sistema che la nostra costituzione ha stabilito per assicurarne l’indipendenza e l’autonomia.

Pur se non si è esplicitamente prevista la non rieleggibilità (ed è stato un male), il semestre bianco e la nomina a senatore di diritto e a vita alla scadenza del mandato indicano una chiara direzione di rotta e segnano la volontà di assicurare un fisiologico ricambio al vertice dello Stato. Con la rielezione come ipotesi ordinaria (due eccezioni fanno regola) il presidente della Repubblica diventerebbe titolare di un potere senza un termine certo, la cui possibile conferma finirebbe per rappresentare solo una variabile dipendente dalle esigenze tattiche del momento. Bene ha fatto Mattarella a respingere questo scenario.

Diversa, ma non troppo, l’ipotesi ora accarezzata dai più: il trasloco di Draghi da Palazzo Chigi al Quirinale. In questo caso, in termini di stretto diritto costituzionale, la perplessità deriva dalla motivazione espressa a sostegno di tale elezione. L’attuale presidente del Consiglio – si afferma – sarebbe il miglior garante della continuità, tanto più visto che condizione essenziale per l’elezione al Colle è rappresentata da un necessario contestuale accordo circa il suo successore al Governo. Non vi è dubbio che in assenza di una preventiva intesa sugli assetti del nuovo governo l’elezione di Draghi sarebbe compromessa, non potendo immaginare di aprire una crisi di governo al buio, che dovrebbe poi essere governata e risolta da chi tale crisi ha causato, lasciando nel frattempo il governo dimissionario allo sbando.

Di questo mi sembra vi sia diffusa consapevolezza, tant’è che sono già state immaginate diverse modalità per assicurare una rapida risoluzione della crisi di governo. Nel caso ci sarebbe solo da auspicare che si evitino improprie sovrapposizioni tra i ruoli di “capo” del governo dimissionario e il nuovo capo dello Stato. Per questo sarebbe opportuno che a gestire la crisi fosse il presidente uscente nel breve periodo che intercorrerebbe tra l’elezione da effettuarsi prima della scadenza del mandato di Mattarella e l’insediamento del nuovo presidente.

Ma proprio queste considerazioni fanno emergere la questione di fondo. Non può porsi una continuità tra il ruolo svolto dal responsabile della politica generale del governo e quello del custode della nostra Costituzione. Al capo dello Stato spetta vigilare sui governi (e sugli altri poteri), non sostituirsi ad essi. Draghi al Quirinale, in ragione della sua nuova funzione, non potrebbe proseguire le politiche di cui è stato responsabile sino ad ora, dovrebbe cambiare pelle e farsi guardiano. Garantire e non governare.

È questo il presupposto necessario. Lo impone la nostra Costituzione che assegna al capo dello Stato il ruolo di rappresentante dell’unità nazionale ed esclude che possa essere titolare dell’indirizzo politico maggioritario. Entro questa prospettiva, costituzionalmente orientata, cadono molte delle ragioni contingenti che oggi si propongono a sostegno di una soluzione Draghi.

Rimarrebbero in piedi solo due motivi. Il primo è quello espresso da alcuni esponenti politici, i quali espressamente dichiarano di voler torcere in senso presidenziale la nostra forma di governo. Si giocherebbe con il fuoco e sarebbe questa in realtà una ragione per contrastare questa deriva. L’altro motivo, ben più solido, richiama l’autorevolezza e il prestigio acquisiti nel Paese ed in Europa dall’attuale titolare della presidenza del Consiglio, che rappresentano certamente requisiti necessari per poter svolgere il ruolo di rappresentante dell’unità nazionale.

Oltre a questi però sarebbe opportuno considerare almeno un’altra caratteristica che deve possedere il garante politico della Costituzione non solo nell’immediato, ma nel più lungo periodo. La capacità di assicurare che i poteri governanti operino nel rispetto della superiore legalità costituzionale, senza le forzature cui spesso assistiamo e che deve avere nel Presidente il suo severo guardiano. Un giuramento di fedeltà alla Costituzione vigente che valga non solo sino alla fine dell’attuale legislatura, ma anche dopo. Soprattutto dopo.

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