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Scenari Con mediazione omanita, ieri a Roma secondo round d’un negoziato con la pistola sul tavolo: Israele, l’unica potenza atomica della regione, è sempre pronto a colpire di nuovo

Illustrazione Getty Images Illustrazione – Getty Images

L’Iran in Medio Oriente è considerato la spina nel fianco di Israele e degli Usa ma il negoziato in corso va ben oltre lo status di potenza regionale della repubblica islamica e l’orizzonte, già ampio, del Golfo persico, dove passa il 40% dell’energia mondiale.

E dove si incrociano i destini precari di popoli in guerra. La sfida sul caso iraniano è assai più globale di quanto si pensi. Lo stato ebraico, soprattutto dopo la caduta di Bashar Assad in Siria e le sconfitte subite dagli alleati dell’Iran nella regione, da Hamas a Hezbollah agli Houthi yemeniti, è ancora più tentato dall’idea di scatenare un attacco diretto agli impianti nucleari di Teheran sospettati di lavorare per l’atomica. In realtà a Roma, ieri, con la mediazione omanita, c’è stato il secondo round di un negoziato dove la pistola è sempre sul tavolo.

Gli israeliani hanno già testato le difese della repubblica islamica e sono pronti a farlo di nuovo. Con l’attacco del 26 ottobre Israele, in replica a quello di Teheran, avrebbe eliminato oltre l’80% delle difese aeree iraniane: Netanyahu ritiene la repubblica islamica una minaccia esistenziale ed è sempre pronto a intervenire. Trump, secondo la stampa americana, avrebbe fermato di recente un attacco già pianificato in maggio dallo stato ebraico. Se fosse vero significa che Netanyahu può decidere di trascinare gli Usa in guerra in qualunque momento.

Non che Trump sia particolarmente incline a usare la diplomazia con Teheran, tanto è vero che nel 2018 fu lui al primo mandato ad annullare l’accordo del 2015 firmato dalla presidenza Obama. Quell’intesa non funzionò non perché fosse “pessima”, come continua a ripetere Trump imbrogliando le carte per l’ennesima volta, ma semplicemente in quanto non venne attuata: gli americani non tolsero mai le sanzioni bancarie e finanziarie a Teheran come sa benissimo qualunque banchiere europeo. Tanto è vero che il memorandum da 30 miliardi di euro firmato a Roma dall’allora presidente iraniano Rohani non ebbe seguito e la prima tranche di un prestito alle imprese italiane in Iran fu congelata per timore di ritorsioni americane (blocco dei conti e delle operazioni in dollari). Non è un dettaglio da poco: gli iraniani potrebbero arrivare un compromesso sull’arricchimento dell’uranio solo se avranno garanzie concrete di un alleggerimento vero delle sanzioni.

Le conseguenze del fallimento dell’accordo del 2015 sono state evidenti: l’Iran è stato spinto sempre di più nelle braccia di Mosca e di Pechino. La Russia è il primo destinatario dell’industria dei droni iraniana, la Cina è il primo cliente del petrolio di Teheran. Non si contano poi le manovre militari congiunte dell’Iran con Mosca e Pechino e gli scambi di visite militari e diplomatiche. L’Iran è quindi dentro al fronte bollente dei conflitti e degli interessi strategici che stanno a cavallo tra il Medio Oriente e l’Asia centrale e fa parte dell’organizzazione dei Brics, un blocco economico che rappresenta oltre il 30% del Pil mondiale.

I due alleati dell’Iran, membri del Consiglio di sicurezza Onu, non hanno interesse che l’Iran diventi una potenza nucleare – nonostante fronteggi Israele che lo è e confini con un altro stato dotato di atomica come il Pakistan – ma neppure vogliono che lo stato ebraico e gli Usa attacchino Teheran e tanto meno desiderano un cambio di regime che in Medio Oriente finora ha portato più anarchia e distruzione che stabilità, come è avvenuto in Iraq e Afghanistan, Paesi confinanti con l’Iran. Inoltre un attacco al nucleare iraniano in prospettiva potrebbe anche rivelarsi un boomerang: gli stati della regione come Turchia e Arabia saudita potrebbero essere spinti a una corsa verso l’atomica vista come una garanzia irrinunciabile per limitare le minacce esterne.

Persino la storica contrapposizione settaria sciiti-sunniti non fornisce una lettura del tutto soddisfacente della situazione. Se è vero che sul piano locale è sempre viva (basti pensare alla Siria e al Libano, oltre che all’Iraq), su quello strategico le cose sono un po’ diverse. Lo dimostra l’evoluzione delle relazioni tra Riad e Teheran. Queste due potenze regionali, poli di riferimento del mondo sunnita e di quello sciita, sono sempre più spinti verso la coesistenza nel Golfo, come in una sorta di matrimonio obbligato e di convenienza: la geografia non si può cambiare e i loro destini si incrociano. Le recenti esercitazioni navali congiunte di iraniani e sauditi nel Golfo dell’Oman, insieme a scambi di visite militari, non sono gesti simbolici ma il segnale di un nuovo pragmatismo di fronte alla sfide sulla sicurezza che vanno dal Mar Rosso allo Stretto di Hormuz. In buona parte questo atteggiamento alla cooperazione è stato raggiunto grazie alla normalizzazione delle relazioni bilaterali mediata due anni fa dalla Cina.

Ma al negoziato con l’Iran c’è sempre una pistola carica sul tavolo e il grilletto lo può premere Netanyahu mentre Trump più che una trattativa sembra volere imporre degli ultimatum. «L’Iran – ha detto – non ha alternative: gli estremisti non possono avere un’atomica». Tradotto: l’unico che può possederla in Medio Oriente è il notoriamente “moderato” Netanyahu con il suo governo di “moderati” estremisti.