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FRAMMENTI. Si chiama "Lo sviluppo e il divenire. Nota sull’autopropulsione sociale", il libro fuori commercio di 75 pagine di Giuseppe De Rita, fondatore e animatore del Censis. Sociologia economia filosofia insieme, in una combinazione a tratti provocatoria, per parlare di noi, dell’Italia e del mondo, in un’epoca di continue e immani trasformazioni

Lo sguardo di De Rita sullo sviluppo senza basi etiche Mario Sironi - Paesaggio urbano con camion - 1920-23

È un piccolo libro fuori commercio di 75 pagine quello che Giuseppe De Rita, fondatore e animatore del Censis – cui forse si può richiederlo: è il centro di studi che ha illustrato, cantato o criticato per più di cinquant’anni le trasformazioni della nostra società, le più appariscenti come le più profonde – ha dato alle stampe, fuori commercio. Si chiama Lo sviluppo e il divenire. Nota sull’autopropulsione sociale. Sociologia economia filosofia insieme, in una combinazione a tratti provocatoria, per parlare di noi, dell’Italia e del mondo, in un’epoca di continue e immani trasformazioni.

«Pensare è faticoso», dice l’autore nella premessa, perché «è andare oltre le evidenze dell’attualità, combinare la memoria del passato con l’incertezza del futuro, sondare il non immediatamente apparente», ma De Rita è tra i pochi che ci sembrano autorizzati a farlo, per la costanza della sua ricerca, anno dopo anno, nel grande e nel piccolo delle trasformazioni, e per la solidità delle sue affermazione, per la rara virtù della sua «immaginazione sociologica», basata su dati e su fatti, su una reale conoscenza delle cose e del loro movimento. Oso dire che questo testo è tra i pochi eredi dei grandi sociologi e filosofi che in tempi diversi hanno saputo «leggere la società» e mettere in guardia sulle sue trasformazioni. È in grado di tener testa a quasi tutta la produzione intellettuale corrente, con poche eccezioni al suo livello, che so? i Cacciari, gli Agamben… ma avendo su di loro il privilegio di una conoscenza dei meccanismi di sviluppo e cambiamento della nostra società che nessuno sembra avere chiari come lui, grazie al lavoro del Censis.

Nei confronti del Censis ho avuto in passato (e lo scrissi) delle perplessità, quando i suoi rapporti esaltavano lo sviluppo economico e, possiamo dire, autogestito di certe parti d’Italia, il Veneto, le Marche, l’Emilia… – non vedendone il controcanto, gli effetti negativi di uno sviluppo «egoistico» sul piano culturale, sul piano dei comportamenti sociali. Ci volle un grande pensatore e sociologo anarchico, l’inglese Colin Ward, in un suo viaggio in Italia, a tirarmi le orecchie: le fabbrichette e le piccole imprese che fiorivano in quelle regioni erano un segno di creatività e autonomia e vitalità popolari – e non era un caso se la grande industria le osteggiava con i suoi giornali, e non era un caso che in parte lo facessero anche i sindacati e il Pci, che non erano più in grado di controllarle. (Ricordo che ad avermi messo qualche dubbio fu anche sapere che Rossanda era sua amica, o così si diceva).

Col tempo ho apprezzato sempre di più il lavoro del Censis, che ci offre ogni anno un quadro veritiero del nostro paese non solo sul piano dell’economia, della produzione, ma mettendo in luce le componenti migliori dello sviluppo, i nuovi rapporti sociali che potevano conseguirne… Il fondo religioso del pensiero di De Rita – cattolico praticante – non mi sembra possa più sconcertare nessuno, oggi che il fallimento di uno «sviluppo senza progresso» è diventato evidente, di uno sviluppo senza basi etiche e concretamente comunitarie: il tipo di sviluppo che criticò assieme a De Rita anche Pasolini e con loro criticarono molti altri, ovviamente non solo in Italia.

«Pensare certo è faticoso», ci ricorda De Rita, «perché occorre andare oltre le evidenze dell’attualità, combinare la memoria del passato con l’incertezza del futuro, sondare il non immediatamente apparente». Ma De Rita sa farlo ed è oggi uno dei pochi che prova a dipanare seriamente la matassa delle novità economiche, sociologiche, tecnologiche, culturali ricordandoci che «se vivere nel divenire sociale è il nostro compito e destino, dobbiamo farlo camminando con vigore e passo lungo», e cioè con qualcosa che la cultura dominante trascura più che mai, annaspando al seguito delle mode, delle trasformazioni volute e proposte dal capitale per meglio usarci e controllarci. Si può discuterne, ma si tratta di un confronto fondamentale