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Se il 75% degli italiani pensa che sarebbe necessaria una legge per stabilire il salario orario minimo al di sotto del quale nessun padrone pubblico o privato possa scendere, mentre la maggioranza che governa il paese pensa il contrario e agisce in direzione ostinata e contraria, c’è un problema. Non da oggi, certo, come la caduta progressiva della partecipazione al voto dimostra. Il fatto è che l’opinione dei cittadini sembra essere ininfluente, che si tratti di salario o di armi da guerra, e allora tanto vale disertare le urne.

Si dirà: chi non vota non ha diritto di parola. Ma perché, chi vota ce l’ha? Che il precario in ospedale o l’operaio in subappalto al cantiere navale votino o non votino, il loro parere comunque non conta e sono ben pochi a interessarsi delle loro condizioni lavorative. L’attacco ai corpi intermedi punta a formalizzare questa situazione, sterilizzando la possibilità di organizzare proteste finalizzate a ridare un peso e uno sbocco alla volontà popolare.

È la postdemocrazia che si regge sugli algoritmi e sugli inganni, se stai bravo ti faccio partecipare agli utili dell’impresa che ti sfrutta e magari ti regalo anche la tessera della Cisl. Chi odia i poveri e teme chi ha ancora nel DNA l’idea che con la lotta collettiva si possa rovesciare lo stato delle cose, mette in campo tutte le sue armi. Primo, divide et impera: che il meno povero e il più povero si scannino nel cercare di arraffare l’obolo miserabile e ingannevole lanciato dalle finestre dei palazzi del governo. Le destre come il moderno Marchese del Grillo. Se si paralizza la lotta di classe dal basso verso l’alto, quel che resta è il rancore, l’invidia sociale. Un toccasana per il potere.

Tra botte di calore, bombe d’acqua e incendi dolosi, la tregua di Ferragosto (almeno per chi ha l’agio di godersi una tregua, una villa dove il finanziere annuncia in mondovisione le corna ricevute dalla manager promessa sposa, o una masseria o un resort dove ripararsi dal solleone e dagli alleati) lascia intravedere scenari inquietanti. Se il destino dei salari finisce

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L'ATTIVISTA. L’aumento del prezzo della benzina colpisce in modo indiscriminato i ricchi e i poveri, colpendo nello stesso modo chi riempie il serbatoio di una utilitaria e chi fa il pieno […]

Traffico e inquinamento dell’aria a Milano foto Ansa

 

L’aumento del prezzo della benzina colpisce in modo indiscriminato i ricchi e i poveri, colpendo nello stesso modo chi riempie il serbatoio di una utilitaria e chi fa il pieno al Suv. Quando parliamo della necessità di una transizione ecologica equa, appellandoci al principio di giustizia climatica, evidenziamo al contrario la necessità di politiche diversificate.

La transizione ecologica (a maggior ragione nel settore della mobilità) deve essere guidata attentamente dallo Stato per far sì che riduca le diseguaglianze, invece di aumentarle. In questo caso vediamo invece che il governo utilizza la strategia opposta: evita di intervenire in qualunque modo e si aggrappa alla risibile mossa dell’esposizione dei cartelloni con i prezzi medi, la quale – come era ampiamente prevedibile – non ha sortito alcun effetto.

Così facendo, la stretta imposta dall’Opec si scarica direttamente sulle tasche dei consumatori.
Dal punto di vista climatico, a primo acchito potrebbe sembrare che l’aumento dei prezzi della benzina favorisca una riduzione del suo utilizzo e di conseguenza delle emissioni di Co2. In realtà questa relazione non è sempre valida: uno studio del Dipartimento dell’energia statunitense ha rilevato che gli aumenti improvvisi del prezzo della benzina non comportano una riduzione del suo impiego, se non marginale. Nel 2015, in particolare, un rincaro del 30% del costo del combustibile ha causato una riduzione dei chilometri percorsi in auto solamente del 3%. Questo perché, nel breve periodo, la domanda di benzina è quasi anelastica.

Una strategia che miri a rendere sostenibile la mobilità in una prospettiva di equità e giustizia climatica, invece, dovrebbe mirare prima di tutto a soluzioni che penalizzino chi inquina di più. L’esperto di climate policy del Fondo monetario internazionale Ian Perry, che ha a lungo studiato le esternalità dei carburanti, ne evidenzia tre: innanzitutto una maggiore tassazione sui veicoli più inquinanti, in particolare i Suv, le cui emissioni continuano a crescere vertiginosamente. Basti pensare che, se fossero una nazione, sarebbero il sesto paese più inquinante al mondo. In secondo luogo, è utile puntare sulle congestion charges, sul modello di quella londinese. Infine, è fondamentale fornire un’alternativa all’automobile: una rete di trasporti pubblici rapida e capillare.

Ma proprio sui trasporti pubblici il governo – nella persona del ministro delle infrastrutture Matteo Salvini – ha adottato una strategia scellerata. Negli stessi giorni in cui si verificano i rincari, il Mit decide di tagliare i finanziamenti alle linee ferroviarie del Sud Italia, come la Lamezia Terme-Catanzaro e la Sibari-Porto Salvo. I finanziamenti da 2,5 miliardi di euro destinati a queste ed altre linee del Meridione verranno destinati invece a collegamenti infrastrutturali al Nord. Ovviamente, una nota del ministero smentisce le critiche affermando che il ministro Salvini resta determinato a investire sul Mezzogiorno tramite la realizzazione del ponte sullo Stretto.

Il piano del governo Meloni-Salvini è chiaro: mentre si cancella il tetto agli stipendi dei manager della società che costruirà il ponte, i cittadini sono lasciati soli di fronte ai rincari dei carburanti, senza aiuti statali e senza investimenti sulle alternative all’auto. Una ricetta perfetta per aggravare i problemi ambientali e le disuguaglianze economiche del nostro Paese.

*Fridays for future

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L’ECONOMISTA. Le accise sui carburanti pesano in Italia per circa il 30% sul costo della benzina e per il 34% su quello del gasolio. In molti chiedono strumentalmente di abbassarle per […]
Diritti sociali e diritti ambientali possono convivere

Le accise sui carburanti pesano in Italia per circa il 30% sul costo della benzina e per il 34% su quello del gasolio. In molti chiedono strumentalmente di abbassarle per dare respiro agli italiani in un periodo in cui il potere di acquisto delle famiglie è particolarmente in sofferenza. Quale può essere la posizione del campo ambientalista e di sinistra davanti a queste proposte?

Nel 2019 in Francia, il rialzo delle accise deciso per finanziare la transizione energetica diede origine alle proteste dei Gilets Jaunes e a una contrapposizione di fatto tra diritti sociali e diritti ambientali. Questa contrapposizione è però evitabile. È vero che abbassare le accise significherebbe dare un po’ di respiro agli italiani, ed è ancora più vero se si pensa che questo tipo di imposte indirette colpiscono proporzionalmente di più i ceti medio-bassi di quelli benestanti, in quanto non dipendono dal reddito né dal patrimonio.

Al tempo stesso, però, sappiamo bene come la transizione energetica non sia più rimandabile, e un taglio delle accise equivarrebbe a un vero e proprio sussidio a favore delle energie non rinnovabili. Questo in un contesto in cui l’Italia spende secondo Legambiente circa 35 miliardi di euro ogni anno per i cosiddetti «sussidi ambientalmente dannosi». Sussidi politicamente intoccabili che riguardano incentivi alle trivellazioni, alla ricerca nei comparti del gas, del carbone e del petrolio, nonché sgravi e agevolazioni.

Da un lato si continua quindi a finanziare massicciamente chi danneggia l’ambiente e dall’altro si vuole presentare un nuovo incentivo alle energie fossili come una misura presa in favore dei redditi medio-bassi.
La soluzione per tenere insieme diritti ambientali e diritti socioeconomici in realtà c’è, e la suggerisce nientemeno che il Fondo Monetario Internazionale. In una nota del giugno 2022, gli economisti del Fondo spiegavano infatti che per quanto un abbassamento artificiale dei prezzi dell’energia possa sembrare una buona idea, i prezzi sovvenzionati incoraggiano in realtà un maggiore consumo. Questo sul medio periodo eserciterebbe ulteriori pressioni al rialzo sui prezzi.

Gli autori dello studio suggerivano quindi di intervenire direttamente sul welfare, con politiche redistributive a sostegno delle fasce più deboli della popolazione.
È in effetti questa la posizione di chi nel mondo cerca di tenere insieme la transizione energetica con i diritti dei più deboli. Certo non si tratta di incentivare i consumi di energie non rinnovabili abbassando i loro prezzi, ma piuttosto di utilizzare i proventi delle imposte sulle energie fossili per finanziare la transizione energetica e al tempo stesso per compensare i cosiddetti «perdenti della transizione», coloro i quali sono più direttamente colpiti dalle accise, dalle riconversioni industriali, e in generale dalle cosiddette politiche green.

Questo sarebbe ancora più fattibile se si andassero a colpire da un lato i sussidi ambientalmente dannosi, e dall’altro i consumi a forte impatto ambientale dello 0,1% più ricco della popolazione (si pensi ad esempio all’uso dei jet privati).

Certo tutto questo richiederebbe una forte volontà politica realmente interessata al sociale e non ad alimentare conflitti tra diversi diritti. Da questo governo è difficile aspettarsi questa volontà. È anzi facile aspettarsi che il taglio delle accise, se realmente ci sarà, finirà ancora una volta nelle tasche dei ricchi tramite l’introduzione della flat tax

 
 
 
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COMMENTI. Chiamando in causa il Cnel sul salario minimo Giorgia Meloni ha preso tempo, ma non ne trarrà una copertura politica efficace. Non è un caso che ne sia stata di frequente proposta la soppressione

 

Chiamando in causa il Cnel sul salario minimo Giorgia Meloni ha preso tempo, ma non ne trarrà una copertura politica efficace. Non è un caso che ne sia stata di frequente proposta la soppressione. Il Cnel non è mai stato molto di più che un cimitero degli elefanti.

Utile a collocare in una posizione formalmente di qualche prestigio un personale politico, sindacale, imprenditoriale sostanzialmente uscito dal campo di battaglia. Il rapporto tra il mondo del lavoro e quello dell’impresa vive altrove. È platea, non palcoscenico, e Meloni non può cambiare questa realtà.

La camera dei deputati ha in esame varie proposte di legge dell’opposizione, anche con audizioni presso la commissione lavoro. Non mancano contributi degni di nota, come ad esempio la memoria Istat per la seduta dell’11 luglio. Lo stesso Cnel è stato audito il 13 luglio. Cosa ci si può aspettare ora di più e meglio? Il rinvio è uno schiaffo all’assemblea elettiva, e nulla cambia con la difesa d’ufficio di Meloni sul Corriere della sera di ieri.

Perché? Certo non per disponibilità verso le opposizioni, in sostanza prese in giro. Meloni non teme gli oppositori, a fatica assemblati intorno alla bandiera del salario minimo. Al più, teme i sondaggi, che le dicono di un’opinione pubblica in maggioranza favorevole. Probabilmente pensa di guadagnare tempo per diffondere la sua pubblicità ingannevole per un prodotto avariato.
In ogni caso, tutto questo è reso possibile dall’evanescenza dell’istituzione parlamento. Che trova conferma in una legge elettorale che nega la rappresentatività e nel taglio dei parlamentari, e si traduce nell’alluvione ormai a cadenza praticamente settimanale dei decreti-legge (anche omnibus), o nelle deleghe sostanzialmente in bianco come quella fiscale, che producono tra l’altro un accumulo di decreti delegati in attesa di adozione.

Capita che qualcuno accenni alla possibilità che Mattarella rifiuti la firma. Ma il capo dello stato come garante della Costituzione rimane per prassi limitato alla manifesta incostituzionalità degli atti, di non facile riscontro. È anche giusto così, spettando alla corte costituzionale una valutazione approfondita. In tal caso la moral suasion – che Mattarella svolge oggi con parole anche più chiare che in passato – o la firma con suggerimenti di modifiche è il massimo che può fare.

Il rinvio al Cnel è un tassello nel più ampio mosaico dell’istituzione parlamento, che si iscrive nella riflessione della dottrina internazionale sull’indebolimento della democrazia definito come autocratization o democratic backsliding. Processi che hanno colpito anche paesi che avremmo considerato al riparo, come gli Stati uniti. Trump ha dimostrato e dimostra il contrario. Di tali processi si intravedono nel nostro paese i primi sintomi, che si rafforzerebbero con le riforme istituzionali della destra sul presidenzialismo/premierato (ora con l’assist di Renzi e del suo sindaco d’Italia). Sarebbe riduttivo vedere la partita in atto come difesa della Costituzione. È la difesa della democrazia, come l’abbiamo conosciuta, e passa attraverso la difesa del parlamento.

Per questo alcune mosse sono indispensabili. Mantenere la pressione per una nuova legge elettorale, come scrive Felice Besostri su queste pagine. Attivare gli istituti di democrazia diretta – iniziativa legislativa popolare, referendum – per radicare ex novo i soggetti politici, e rivitalizzare le assemblee elettive come collettori effettivi di consenso popolare. A tal fine è essenziale la piena funzionalità del portale pubblico per la raccolta delle firme online a titolo gratuito, a quanto so non ancora acquisita. Per esempio, se in parlamento sul salario minimo fosse stata in discussione una sola proposta di iniziativa popolare sostenuta da un paio di milioni di firme invece di sette proposte di opposizione, sarebbe stato facile per la maggioranza avanzare con le scarpe chiodate di un emendamento soppressivo?

La democrazia non si riduce allo slogan di un giorno da leone e cinque anni da pecora, come vorrebbero per il popolo sovrano i fan dell’investitura popolare in qualunque modo configurata di chi governa, e della conseguente inevitabile mordacchia per le assemblee elettive. E non si dica che il contrappeso è negli staterelli regionali semi-indipendenti dati dall’autonomia differenziata. In quelle istituzioni tutto è già accaduto. Che poi li chiamiamo autocrati o cacicchi, non fa differenza.

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COMMENTI. Da destra, il richiamo alla giustizia sociale diventa così il simulacro di sé stessa: un feticcio simbolico da dare in pasto alla rabbia e al risentimento. Da sinistra, occorre prenderne atto e ritrovare in fretta la bussola perduta

Extra-profitti, la bussola perduta della sinistra

 

L’inattesa scelta del Governo Meloni di tassare gli extra-profitti delle banche può essere giudicata da tre prospettive. La prima è di carattere tecnico-economico: cosa sono gli extra-profitti? Si applicano davvero al caso in specie?

Quali conseguenze economiche comporta l’intervento del governo? La seconda è di natura politica e concerne il segnale più o meno “populista” che il governo ha inteso mandare all’elettorato, agli interessi economici in gioco, al “piccolo” e “grande” capitale. La terza questione investe non l’azione del governo in sé, vuoi dal punto di vista tecnico-economico, vuoi da quello politico, ma la reazione che tale scelta ha suscitato. Questo ultimo punto di vista ci permette di cogliere un aspetto assente dai primi due.

Giorgia Meloni ha giustificato la decisione affermando che non si poteva che chiedere un contributo a chi ha tratto «profitti ingiusti» dalla politica monetaria della Bce. Apriti cielo. Chi definisce la maggiore o minore giustizia di un profitto? La politica non può e non deve mai interferire con il mercato! In una società libera, il diritto e le regole comuni devono avere solo una funzione nomocratica e mai teleocratica.

Una teleocrazia è una società basata su scopi di ordine superiore, stabiliti dalla collettività organizzata e, in ultima analisi, dalla politica. Una nomocrazia, al contrario, è una società dove non c’è nessun fine superiore da rispettare. Gli individui sono liberi in quanto perseguono i propri obiettivi senza danneggiare altri nel farlo. È, questa, l’idea di libertà dalla coercizione che disdegna ogni forma di scopi comuni e criteri di giustizia sociale. Ne consegue che nelle società nomocratiche – fondamento ultimo e più importante dei sistemi neo-liberali – la politica non deve occuparsi di fini collettivi ritenuti “giusti”. La giustizia è ridotta alla sommatoria delle scelte individuali e del “libero gioco” della domanda e dell’offerta. Le regole formali si adeguano. Tutto il resto un’indebita interferenza.

Qui il punto della questione sollevata dalla decisione del governo, davvero rilevante in quanto rivelatore di un tratto profondo delle società a matrice neo-liberale: la rinuncia della politica e delle collettività organizzate alla definizione di scopi comuni basati su criteri di giustizia sociale. Poco o nulla, in questo caso, importa del caso concreto e della sua maggiore o minore coerenza tecnico-economica. Così come del giudizio politico sul segnale che il governo avrebbe mandato all’elettorato. La reazione sarebbe stata la stessa in ogni caso: qualunque tentativo di stabilire e definire un criterio di giustizia sull’attività economica è sospetto, sbagliato, deleterio. Uccide l’unica vera libertà: la libertà economica, su cui si fondano tutte le altre, da tutelare attraverso meccanismi legati alla santissima trinità “prezzi-mercato-concorrenza”.

Il tema è anche cruciale in quanto il successo politico delle destre si fonda proprio sulla capacità di occupare lo spazio di “giustizia sociale” lasciato del tutto sguarnito dalla sinistra. La svolta neoliberale ha generato una sorta di “cattura cognitiva” dei partiti di sinistra, che hanno rinunciato all’idea di giustizia sociale come guida della loro azione. Una classe politica impermeabile a ogni tentativo di equità fiscale, potenziamento dell’azione pubblica, lotta alle diseguaglianze. Giorgia Meloni ha vinto perché ha rimesso al centro il binomio politica-giustizia sociale: ha offerto a un elettorato impaurito e arrabbiato un’idea di giustizia collettiva. Certo lo ha fatto a modo suo: da destra. Quindi a favore di un “noi” nativista, preda di una politica della nostalgia, della paura e del risentimento. In modo escludente e contro l’universalismo dei diritti, come del resto conferma la progressiva e rapida retromarcia sul provvedimento oggetto delle polemiche di questi giorni, come si evince dal testo del Decreto e che probabilmente si completerà nel passaggio in Parlamento.

Con pochissime eccezioni, stigmatizzate e ostracizzate, le classi dirigenti post-’89 hanno aderito all’idea che il mercato è un fenomeno “naturale” che produce il migliore dei mondi possibili. Il futuro è diventato così la ripetizione del presente, senza discontinuità e senza scopi collettivi da perseguire insieme.

L’enorme responsabilità politica delle classi dirigenti neoliberali è stata non prendere atto che se la domanda collettiva per un futuro più giusto non è “curata” da sinistra, si lascia il fianco scoperto alla destra. Le persone perdono la capacità di aspirare insieme a un progetto comune e inclusivo, spezzando le solidarietà tra territori, classi sociali, gruppi e generazioni. Da destra, il richiamo alla giustizia sociale diventa così il simulacro di sé stessa: un feticcio simbolico da dare in pasto alla rabbia e al risentimento. Da sinistra, occorre prenderne atto e ritrovare in fretta la bussola perduta.

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Per Isaia Sales, saggista ed ex parlamentare, serve una grande alleanza tra i soggetti sociali e politici che si oppongono al modello imposto dalle destre

 

Aconnettere gli ultimi provvedimenti del Governo Meloni si scopre che idea di Paese hanno: rimodulazione del Pnrr, abolizione del reddito di cittadinanza, no al salario minimo sono un attacco senza quartiere al Sud, ai poveri, a chi è in difficoltà. Un vero e proprio manifesto ideologico e di classe della destra italiana. Questa è la riflessione che ci consegna Isaia Sales, meridionalista e grande conoscitore della camorra e in generale delle mafie.

Per anni ha insegnato Storia delle mafie all’Università Suor Orsola Benincasa, presso il Dipartimento di Giurisprudenza. La sua passione per il Mezzogiorno l’ha portato in passato all’impegno politico: è stato infatti parlamentare e sottosegretario al ministero del Tesoro, del Bilancio e della Programmazione economica nel primo Governo Prodi.

Ridurre i divari di genere, di generazioni, di territorio, è uno degli obiettivi di Next Generation Eu. Nei provvedimenti contenuti nel piano di rimodulazione del Pnnr sembra ci sia l'intenzione non dichiarata di ridurre, a volte annullare, proprio quei progetti volti a ridurre quei divari. È un'impressione o una realtà?
Una realtà, la riduzione di quei divari non è più una priorità.  Rispetto a quando il Piano è partito con l'obiettivo strategico di ricucire l'Italia, cioè ridurre i divari di genere, territoriali, economici, oggi quest'obiettivo non c'è. L'obiettivo del governo è non perdere le risorse, fare i lavori nei tempi necessari, ma soprattutto la priorità sembra essere dare incentivi alle imprese. Questa strategia penalizza due volte il Sud. Da un lato perché per gli incentivi non vi è l’obbligo di destinarne il 40% al Mezzogiorno, dall'altro perché – anche questa cosa nota - essendo meno le imprese al Sud, inevitabilmente non si raggiungerebbe questa percentuale. La verità è che stiamo sprecando la possibilità di utilizzare il Pnnr come grande occasione per ricucire l'Italia. E che a orchestrare tutto ciò sia un ministro meridionale lo rende ancora più grave.

L’esecutivo Meloni afferma che a rendere necessaria la rimodulazione è il ritardo nella realizzazione di questi progetti. Questo contrasta con le affermazioni, ad esempio dei sindaci, che si dicono pronti ad aprire i cantieri per alcuni di questi interventi, e che non si sa che fine faranno. Quindi c'è anche l'inganno?

Ho letto numerose lettere, l'ultima è quella del sindaco di Casal di Principe, Renato Natale, che dice di esser pronto a spendere nei tempi dovuti le risorse che erano state assegnate. Quindi una serie di segnalazioni e proteste arrivate al ministero ci dicono il contrario: anche questo è un mistero. Certo, in passato, in alcuni casi, si è fatta fatica a mettere a terra le risorse disponibili, ma in questa circostanza sembra davvero un pretesto per rimodulare il Piano. Soprattutto, è inaccettabile che vengano cancellati interventi per i settori più a rischio dal punto di vista della tenuta sociale del Paese, soprattutto le periferie.

Quali, ad esempio?
Alcuni grandi progetti sulle periferie di Napoli, Roma Palermo, Bari e di altre città sono esclusi dal finanziamento. Parimenti sono cancellate le risorse per i beni confiscati dei Comuni e quelli per finanziare le ferrovie più periferiche. Insomma, ci sono interventi che avrebbero dato un senso di attenzione agli ultimi dal punto di vista sia sociale sia territoriale, e questi sono scomparsi. Il ministro Fitto afferma che la rimodulazione è dovuta al ritardo, ma se i sindaci affermano il contrario, qualcuno sta mentendo.

S'intravede un secondo inganno alle popolazioni meridionali. Sempre Fitto afferma che le risorse per completare gli interventi che vengono ridimensionati verranno presi dai Fondi di coesione. Questi stanziamenti europei sono, per loro finalità, destinati a progetti per il Mezzogiorno. Se questi fondi venissero utilizzati per compensare le risorse sottratte, potrebbero andare anche a territori non meridionali.
Assolutamente sì. Occorre tener presente che da decenni le risorse ordinarie vengono destinate quasi esclusivamente al Nord, mentre al Sud vengono destinate solo quelle dei Fondi di coesione. Che però dovrebbero essere utilizzate per ridurre i divari, non per l’ordinarietà. Adesso sembra quasi venga legittimata questa pratica sbagliata, che condanna il Sud a rimanere indietro. E la beffa, lo dicevo, è antica: sono anni che non si rispetta l'obiettivo principale dei fondi comunitari pensati come aggiuntivi a quelli ordinari proprio per ridurre i divari

Non solo: le parole di Fitto sembrerebbero addirittura legittimare che, non solo al meridione non vengano assegnati i fondi ordinari, ma che quelli straordinari a loro destinati potrebbero essere dirottati al Nord.
Lei si meraviglia che l'accoppiata Giorgetti-Fitto abbia immaginato cosa del genere? Io no, affatto.

Vorrei porre l'attenzione su un altro tema. Se si leggono insieme la rimodulazione degli interventi sul Pnnr, l'eliminazione del reddito di cittadinanza, la contrarietà al salario minimo legale, sembra venir meno l’ipotesi che il governo non abbia un'idea di Paese.
Se aggiungiamo anche l'ipotesi dell'autonomia differenziata, il quadro è completo. Questa è una destra a-sociale, smentisce clamorosamente l’idea che – soprattutto Fratelli d'Italia - sia una destra interessata alle condizioni di vita della parte di popolazione più bisognosa. Possiamo anche dire di una certa cattiveria: quando si elimina il reddito di sopravvivenza (non chiamiamolo di cittadinanza), quando non si vuole introdurre il rapporto tra lavoro e dignità che sarebbe garantito da un salario minimo sotto il quale non c'è la dignità del lavoro, quando si rimodula nel modo che abbiamo detto il Pnnr, quando si vuole fare l'autonomia differenziata per sancire definitivamente che il Sud non ha diritto ai servizi essenziali, siamo di fronte all'idea che gli ultimi debbano restare ultimi. Gli ultimi, che siano territori del sud, famiglie senza reddito, lavoratori con salari da fame o i meridionali che non hanno i servizi essenziali. La parola d’ordine di questo governo è “guai agli ultimi”.

Guai agli ultimi e favori alle varie criminalità organizzate. Non è soltanto per il taglio dei 300 milioni ai beni confiscati, ma eliminare gli interventi sulle periferie, togliere il reddito di cittadinanza, conservare il lavoro povero, significa mortificare quanti cercavano di emanciparsi dalle mafie come unica fonte di sopravvivenza.
Ma certo. Se si tolgono i fondi ai Comuni per riutilizzare i beni confiscati, dimostro che con le mafie le cose funzionano. Se non si finanzia il riuso di quei beni, si lancia un segnale distorto alla collettività e non si aiutano i Comuni a ripristinare la legalità anche come convenienza per la comunità in cui si vive.

Quali sono i rischi che si stanno correndo nelle regioni meridionali e in Italia? e quali sarebbero gli strumenti da mettere in campo per arginare questa deriva?
Dobbiamo anzitutto prendere atto che siamo di fronte a un manifestarsi pieno dell'ideologia di questo governo. Per la maggioranza la povertà è un demerito individuale, non il prodotto di determinate condizioni economiche e sociali: hanno l'idea che chi non lavora è un ozioso. Siamo tornati all’Ottocento, a quando l’accattonaggio era un reato da perseguire. Si sta manifestando l’impostazione della destra: il Nord è avanti al Sud e deve restarci per sempre, altro che riduzione dei divari territoriali. Chi è senza lavoro deve restare tale e deve essere anche additato come uno che se lo merita, chi è povero non deve essere aiutato a emanciparsi. Come reagire? Le opposizioni debbono mettersi insieme ed essere all’altezza di questa sfida, contrastare l’attacco di classe più consistente degli ultimi decenni.

Le opposizioni sono solo quelle politiche o c'è un ruolo per i soggetti sociali?
Assolutamente sì, anzi, è questo il momento perché tutti i soggetti sociali, oltre che politici, a partire dal sindacato, riscoprano il ruolo di soggetto generale. Per il sindacato significa non difendere unicamente quelli che lavorano, anche se in questo momento lavorare non necessariamente significa essere fuori dal rischio povertà. C'è un grande spazio per i soggetti sociali, oltre che politici, quello di dare vita a una grande alleanza di classe

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