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CORTE DI GIUSTIZIA UE. Restano validi i provvedimenti con i quali il tribunale di Catania non ha convalidato il trattenimento di alcuni migranti tunisini nel Centro di Modica-Pozzallo

 Getty Images

La Corte di giustizia europea ha deciso di non accogliere la questione d’urgenza sollevata dalla nostra Cassazione: restano validi i provvedimenti con i quali il tribunale di Catania non ha convalidato il trattenimento di alcuni migranti tunisini nel Centro di Modica-Pozzallo. Trattenimento che il questore di Ragusa aveva disposto sulla base del «decreto Cutro» che com’è noto prevede una garanzia finanziaria per evitare il trattenimento.

Non c’era nessuna ragione di urgenza per la decisione della Corte di giustizia, i richiedenti asilo non sono più in stato di detenzione. La vera ragione di urgenza era la necessità del governo Meloni di ottenere prima delle prossime elezioni una sconfessione delle decisioni delle giudici di Catania Apostolico e Cupri. Ma la Corte europea non si è piegata alle esigenze politiche del governo italiano. Per la sentenza dei giudici di Lussemburgo si dovrà attendere almeno un anno. E intanto le decisioni dei giudici di Catania rimangono pienamente efficaci.

Secondo le giudici Apostolico e Cupri, l’articolo 6-bis del decreto legislativo 142/2015, come modificato dal decreto Cutro prevede una garanzia finanziaria la cui prestazione si configura non come misura effettivamente alternativa al trattenimento, ma come un requisito imposto al richiedente asilo, proveniente da un «paese terzo sicuro», per evitare il trattenimento amministrativo, requisito che nella pratica non si potrebbe mai adempiere.

In questo modo, in contrasto con la vigente direttiva europea in materia di procedure di asilo, il trattenimento amministrativo dei richiedenti asilo avrebbe carattere generalizzato.

La Cassazione chiedeva ai giudici di Lussemburgo se gli articoli 8 e 9 della direttiva 2013/33 risultassero ostativi rispetto a una normativa di diritto interno che contempli quale misura alternativa al trattenimento del richiedente (che non abbia consegnato il passaporto o altro documento equipollente e che non possa provvedere alle proprie necessità), la prestazione di una garanzia finanziaria di ammontare stabilito in misura fissa anziché in misura variabile, «senza consentire alcun adattamento dell’importo alla situazione individuale del richiedente, né la possibilità di costituire la garanzia stessa mediante l’intervento di terzi».

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In realtà la Corte di Cassazione avrebbe già potuto decidere sulla legittimità dei provvedimenti del questore di Ragusa, sotto il profilo delle carenze di motivazione, rilevate dai giudici del Tribunale di Catania, ma aveva preferito rimettere alla Corte di Lussemburgo la complessiva questione dell’incompatibilità della disciplina sul trattenimento derivante dal decreto Cutro, con la normativa dettata dall’Unione europea.

Con questo rinvio alla procedura ordinaria da parte della Corte di Giustizia, rimane assai incerta l’applicazione del Protocollo Italia-Albania che si basa sulle «procedure accelerate in frontiera» e sul trattenimento amministrativo generalizzato per coloro che «provengono da paesi terzi sicuri». Non si vede davvero quale «garanzia finanziaria» potrebbero offrire le persone migranti soccorse in acque internazionali e deportate in Albania.

Si può attendere su tempi più lunghi un esercizio imparziale della giurisdizione, magari un intervento della Corte Costituzionale, sulle misure di trattenimento nelle procedure di asilo applicate in frontiera.

A meno che il governo non ricorra all’ennesimo decreto legge «sicurezza», ancora una volta in violazione del sistema gerarchico delle fonti imposto dalla Costituzione (all’articolo 117). In giorni nei quali sembra smarrito il valore della vita umana, dal genocidio in Palestina fino alle ricorrenti stragi di Stato nelle acque del Mediterraneo, il rispetto delle regole formali stabilite a livello europeo, a garanzia della libertà personale di chi fugge in cerca di protezione, e del diritto di asilo, costituisce un banco di prova per le residue possibilità di sopravvivenza delle democrazie europee, sempre più orientate, in vista delle prossime scadenze elettorali, a negare non solo i diritti ma la stessa presenza dei richiedenti asilo, ristretti in spazi considerati ancora al di fuori del territorio statale, se non deportati nei paesi terzi

 

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L’analisi di Alessia De Luca (Ispi) sulla perdita di potere degli Usa nello scenario internazionale

Gli Stati Uniti balbettano di fronte al conflitto israelo-palestinese e non riescono nell’intento di essere incisivi nella guerra tra Russia e Ucraina. Anche l’aver lasciato l’Africa nelle mani di Cina e Russia è uno dei segni della perdita del loro ruolo di superpotenza globale. Il tutto alla vigilia di elezioni che potrebbero vedere il ritorno alla Casa Bianca di Donald Trump.

Alessia De Luca, giornalista e analista dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale) nonché responsabile del daily focus dell’Istituto, ripercorre gli ultimi anni di storia degli Usa per aiutarci a comprendere i cambiamenti degli assetti internazionali

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DOPO L'ABRUZZO. Pd, M5S, rossoverdi e +Europa hanno trovato last minute un accordo anche in Basilicata, dopo dieci giorni di peregrinazioni tra rose di nomi. Verificheremo il 22 aprile se il campo […]

Il centrosinistra e le fatiche del Movimento

 

Pd, M5S, rossoverdi e +Europa hanno trovato last minute un accordo anche in Basilicata, dopo dieci giorni di peregrinazioni tra rose di nomi. Verificheremo il 22 aprile se il campo progressista riuscirà a sottrarre un’altra regione alle destre, ravvivando il vento sardo. Ma il punto qui è un altro. Dopo il voto in Abruzzo, si sta diffondendo – complice anche lo studio dei flussi dell’Istituto Cattaneo – una vulgata secondo cui gli elettori 5 stelle e dell’ex terzo polo tenderebbero a fuggire da un’ammucchiata che comprende partiti considerati troppo distanti. Una tendenza accentuata dai continui battibecchi tra i leader, in primis Conte e Calenda. La tesi è stata subito sposata dai commentatori mainstream, con l’obiettivo – sempre il solito – di indurre il Pd a scegliere l’abbraccio con i moderati e a scaricare il M5S.

L’architrave del ragionamento però non appare sufficientemente solido. Come ha scritto ieri Antonio Floridia ci sono tante ragioni che spiegano la propensione all’astensione degli elettori del M5s nelle elezioni locali o regionali, a partire dal basso tasso di identificazione partitica e l’estraneità alle reti di consenso locali. Non è un caso che gli elettori del M5S, in Abruzzo, siano quelli che hanno meno indicato una preferenza per i consiglieri regionali. Difficile sostenere che tra questi elettori ci sia stato un rigetto per la presenza nella coalizione di piccole liste centriste, che peraltro hanno avuto pochissimo spazio e visibilità nella campagna elettorale, compresi i leader nazionali. Né si può in alcun modo considerare troppo moderato il candidato del centrosinistra D’Amico, che invece aveva proposte radicali su lavoro, sanità e ambiente. E del resto Giuseppe Conte, nelle sue numerose tappe in Abruzzo, ha speso parole di grande fiducia verso D’Amico, escludendo qualsiasi sua tendenza al centrismo.

C’è però un’altra possibile causa dell’astensionismo a 5 stelle, di cui nel Pd occorre tenere conto: la fatica a considerarsi parte di un bipolarismo destra-sinistra, come è quello che sta ormai prevalendo su scala nazionale nel confronto Schlein-Meloni e che si è visto in Abruzzo, con la forte presenza delle due leader. Un Movimento nato sull’onda dell’antipolitica, allergico alle etichette di destra e sinistra, in grado di pescare voti da tutto l’arco politico, fa effettivamente fatica a riposizionarsi su schemi più tradizionali di lotta politica. Rischia di perdere per strada soprattutto i voti di protesta di chi contesta il sistema politico in generale. Così come è possibile che la linea di sinistra impressa da Schlein al Pd possa aver spinto alcuni elettori che erano migrati verso i 5S in dissenso con la stagione renziana a tornare a casa. Non è un mistero che in casa 5S avrebbero preferito una vittoria di Bonaccini alle primarie, proprio per potersi espandere nell’elettorato di sinistra.

Il travaglio del M5S nel percorso verso un nuovo bipolarismo è un tema reale, ed è il vero motivo per cui finora Conte ha faticato a considerarsi parte di una coalizione, nonostante i casi di alleanza coi dem. E non stupisce che, in caso di elezioni locali dove il candidato non è un esponente a 5 stelle (come era Todde in Sardegna), i voti possano assottigliarsi. L’elettorato del Pd, che viene dall’Ulivo di Prodi, è molto più allenato all’idea di una coalizione, e così anche quello rossoverde. Quello del M5S molto meno, e su questo c’è ancora molto lavoro da fare.

Non stupisce neppure il dato del Cattaneo secondo cui una parte di chi alle politiche aveva scelto il cosiddetto Terzo polo, in Abruzzo ha scelto il centrodestra. Calenda, e soprattutto Renzi, non fanno nulla per nascondere la loro equidistanza tra i due poli, e strizzano spesso l’occhio anche a destra, come sta avvenendo in Basilicata per Azione, fino all’ultimo incerta tra destra e sinistra (ma ha già silurato il candidato giallorosso). Semmai va notato come il tentativo di Renzi di drenare voti a Fi stia avendo l’effetto opposto. Per il campo largo, dunque, l’Abruzzo è un inciampo, non una condanna. La Basilicata, dove alle politiche 2022 i 5S avevano preso il 25% da soli (più di tutto il centrosinistra fermo al 21%), dirà qualcosa in più su questa allergia degli elettori grillini alle coalizioni. Per ora va notato che i leader, in una situazione molto complicata, e nonostante la sconfitta in Abruzzo, hanno lavorato per non andare divisi al voto. E non era scontato

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POST REGIONALI. La disparità tra risultati locali e tenuta nei sondaggi nazionali non sta nella ritrosia alle «coalizioni» ma nel suo elettorato fluttuante con ancora i segni dell’«antipoltica»
 

I dilemmi che pone il voto abruzzese, dopo quello sardo, non sono facili da sciogliere. Si conferma una pesante difficoltà del M5S a «tenere» il suo elettorato, quando la partita si gioca sul terreno locale e regionale. Si sbaglierebbe a ridurre la questione solo ad una ritrosia rispetto alle coalizioni: nel 2023, in molte elezioni locali, la varia collocazione delle liste del M5S, anche quella solitaria, non ha influito minimamente. E tuttavia, i sondaggi nazionali continuano a segnalare per il M5S un cospicuo 15%: ed è un dato stabile da molti mesi. Come spiegare questo paradosso?

Credo che la chiave debba essere cercata in alcune spiegazioni di medio-lungo termine, non schiacciata sulle contingenze: l’elettorato del M5S ha vissuto un intenso e costante ricambio interno, dal 2013 ad oggi, ma porta ancora in sé i segni di una radicata sfiducia, di un sentimento «anti-politico», di un senso di estraneità verso il «sistema» o verso il gioco politico. Sono elettori con un debole senso di identificazione partitica. E le elezioni locali interessano poco, a questi elettori, propensi all’astensione o alla dispersione.

Tanto meno incide quello che si dice «il radicamento territoriale»: non a caso, il progetto di costruire una rete locale più solida ha incontrato e incontra molte difficoltà: semplicemente, fare gli «attivisti» o i dirigenti «locali» (nel senso classico e ineludibile del termine) non sembra molto attraente. (Per inciso, il peso di questa presenza territoriale, in generale, per tutti i partiti, non va sottovalutato: avvezzi oramai a guardare solo le performance mediatiche dei leader, si dimentica quanto valgano le reti di relazioni dirette con le persone: lo si è visto anche in Abruzzo, con il voto nei piccoli paesi. Le tradizioni contano: l’Abruzzo, ricordiamolo, era la terra del mitico capo democristiano Remo Gaspari, noto perché riceveva in canottiera nel suo feudo di Gissi).

Alle politiche cambia lo scenario competitivo: e sarà davvero probante il test delle europee. Il M5S è il partito più «personale» che esista, sulla scena odierna. Il credito e la popolarità di Conte non sembrano attenuarsi e rimane questa la carta su cui il M5S può contare. Nel complesso, appare saggio il tentativo che Conte ha intrapreso nei mesi scorsi, per cercare di svolgere una sorta di azione pedagogica nei confronti del suo stesso elettorato, cominciando a farlo abituare all’idea (assai indigesta per molti) che una coalizione con il Pd è inevitabile, oramai, specie dopo l’esperienza del Conte II. Ma evidentemente, questa strategia gradualista non basta più: dopo le Europee, il dilemma si riproporrà, e bisogna che tutti gli attori in gioco scoprano le loro carte. Sulla base di alcuni semplici dati di fatto, che bisogna scodellare dinanzi agli elettori: in primo luogo, i vincoli che vengono imposti dai sistemi elettorali. Si vuole restare in partita, o si gioca a perdere (sapendo che in tal modo si scoraggia anche la partecipazione)?

Se qualcuno pensasse di poter modificare sostanzialmente, e a breve termine, i rapporti di forza interni alla futura coalizione, fa davvero male i suoi conti. Il “campo” è quello, e anche uno o due punti in più o in meno, per l’uno o per l’altro, non cambierebbero i dati del problema

Lo stesso voto abruzzese, pur negativo, mostra qualche potenzialità. Il totale dei voti validi nel 2019, 2022 e 2024 rimane quasi stabile: nel 2022, la somma dei voti di Pd, M5S e Iv/Azione era di quasi 292 mila voti; oggi, D’Amico, ne raccoglie quasi 285 mila (per inciso, chissà che fine hanno fatto i 17 mila voti di UP e di Rizzo?). Con una coalizione così ampia ed eterogenea, la dispersione dei voti appare contenuta e, dalle prime analisi dei flussi a L’Aquila e Pescara, attribuibile soprattutto all’astensione di elettori M5S e alla defezione di elettori centristi. Può significare, forse, che la compatibilità tra i vari elettorati comincia a crescere? Lo vedremo, già presto in Basilicata.

Il confronto con le regionali del 2019 è più negativo: ma va ricordato che il M5S (20%) correva da solo, ed era la fase del governo giallo-verde (nel frattempo, la stessa candidata del M5S è passata a Forza Italia, sintomo della trasversalità dell’elettorato di allora).

Che fare, allora? Bisognerebbe inventare qualcosa: ad esempio, comitati locali di coalizione, o anche una prima bozza di programma comune, su cui avviare una qualche forma di consultazione diffusa nel paese. Occorre superare l’idea, che finora ha prevalso, di una convergenza su questo o quel tema: alla lunga non basta, come non è bastato finora.

Certo è che non si intravvedono alternative alla paziente costruzione di un’alleanza politicamente più solida. Coloro che, tra i commentatori, ma forse anche dentro il Pd, pensano che l’asse Pd-M5S non sia praticabile, dovrebbero dire cosa mai propongono di diverso. Una polemica continua, e una battaglia all’ultimo voto, per «distruggere» il M5S? Ammesso che ciò abbia successo, non pare proprio che questi elettori in fuga dal M5S possano rivolgersi al Pd…

 
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IL LIMITE IGNOTO. Yurii Sheliazenko prende le difese di Bergoglio. Parole manipolate da chi a Kiev vorrebbe «imporre l’ideologia militarista»
 

La satira ucraina, che da due anni ha messo l’elmetto, si è scatenata contro papa Francesco: una vignetta rappresenta Gesù con la frusta che lo scaccia dal Tempio, un’altra lo disegna impiccato al palo come un traditore.

Zelensky ha accusato il Pontefice di voler fare una mediazione virtuale «a 2500 km di distanza» tra chi vuole vivere (gli ucraini) e chi vuole ammazzare (i russi). Ma il Movimento pacifista ucraino non ci sta e per bocca del segretario Yurii Sheliazenko – ancora agli arresti domiciliari per una inchiesta in corso che lo vorrebbe incastrare come sostenitore dell’invasione russa – ha preso una coraggiosa posizione di sostegno alle parole del pontefice: «Alzare bandiera bianca significa avviare i negoziati, e permette di rafforzare la propria posizione diplomaticamente dopo i fallimenti militari. Il papa ha giustamente sottolineato che il più forte è chi vede la situazione, chi pensa alla gente e cerca di evitare tanti morti e un peggioramento della situazione». E prosegue: «Francesco crede nel successo dell’Ucraina nei negoziati per una pace giusta, prega per l’Ucraina e sostiene la formula di pace ucraina». La manipolazione delle parole pronunciate in Vaticano è opera «dei cinici comunicatori strategici» che stanno operando per «imporre l’ideologia militarista alla società ucraina».

Il leader pacifista Sheliazenko mette in evidenza le contraddizioni di Zelensky, che in una recente conferenza stampa con Erdogan ha annunciato: «Un primo vertice di pace si terrà in Svizzera, per avviare, con l’aiuto internazionale, un processo di pace al quale in futuro potrebbe aderire anche lo Stato aggressore, a patto che il Cremlino sia pronto ad alzare bandiera bianca».

Dunque è d’accordo con il Papa? Sheliazenko fa inoltre notare che secondo l’Istruzione sulla procedura per l’attuazione delle norme del diritto internazionale umanitario nelle Forze armate dell’Ucraina, approvata con ordinanza del ministero della Difesa, «la bandiera bianca indica l’intenzione delle persone che l’hanno issata di iniziare negoziati con la parte opposta».

Secondo il Movimento pacifista di Kiev i feroci attacchi al papa registrati in questi giorni sono «manipolazioni dei militaristi che sognano una dittatura». La società civile ucraina si è rivelata vulnerabile alla propaganda militarista a causa della cultura di pace poco sviluppata in Ucraina. «Per decenni – insiste Sheliazenko – invece di un’educazione civica pacifica degna di una società democratica, l’Ucraina ha mantenuto una educazione militare-patriottica totalitaria, come quella che ora aiuta il regime di Putin a portare le persone alla morte per amore delle ambizioni imperialiste».

Il documento, già nelle mire degli odiatori da testiera che insultano la pagina fecebook del Movimento pacifista, affronta il tema cruciale della democrazia, vittima della cultura bellica: «Abbiamo bisogno della riforma della società civile, dell’educazione alla pace e della mobilitazione dei movimenti. Dobbiamo capire che la vera sicurezza nazionale si basa sulla piena tutela legale dei diritti umani, sulla capacità di risolvere pacificamente i conflitti e su una governance civile democratica»

 
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IL LIMITE IGNOTO. Il tempo dell’Ucraina si sta esaurendo? Non lo dice qualche pericoloso sovversivo, oppure Papa Francesco, ma un saggio di Foreign Affairs di Dara Massicot esperta del Carnegie Endowment for International […]

Quanto tempo rimane all’Ucraina? E alla Russia? Cerimonia a Irpin nel secondo anniversario dell’invasione - Getty Images

    Il tempo dell’Ucraina si sta esaurendo? Non lo dice qualche pericoloso sovversivo, oppure Papa Francesco, ma un saggio di Foreign Affairs di Dara Massicot esperta del Carnegie Endowment for International Peace. Kiev e i suoi alleati fronteggiano un questione fondamentale: come fermare l’avanzata russa e invertire la tendenza. Dopo la conquista di Avdiika, Mosca si sta rafforzando lungo tutto il fronte e la sua industria bellica produce a pieno ritmo mentre l’Ucraina aspetta ancora gli aiuti militari americani bloccati dall’impasse il Congresso. E se gli e europei hanno approvato un pacchetto di aiuti Ue, a Kiev manca ancora la consegna di armi pesanti come i missili tedeschi Taurus: come hanno rivelato le intercettazioni i generali tedeschi sono favorevoli ma non il cancelliere Scholtz che teme un’altra escalation del conflitto.

La realtà è che l’Ucraina deve razionare sia le munizioni che gli uomini da inviare al fronte. Quello cui assistiamo oggi è dovuto essenzialmente al fatto che mentre la Russia ha mobilitato la sua economia di guerra l’Occidente non l’ha fatto e l’Ucraina non è in grado di farlo perché la sua base industriale, dopo due anni di conflitto e distruzioni, è ridotta al minimo. La Russia è riuscita a produrre o importare milioni di proiettili di artiglieria e si è procurata migliaia di droni dai suoi partner (Iran e Corea del Nord) mentre le forniture occidentali non hanno tenuto il passo e si sta raschiando il fondo del barile degli arsenali militari.

Non solo. E qui viene il punto più importante. Nonostante i conflitti siano sempre più tecnologici, la guerra, anche questa, divora la carne da cannone, ovvero i soldati. La Russia ha quindi reclutato militari in tutte le sue provincie mentre Kiev ha fallito la mobilitazione generale: molti uomini in età da combattimento – si parla di circa 300mila – si sono dati alla fuga dal Paese. I soldati al fronte non hanno possibilità di avvicendamento, le truppe migliori sono tenute nelle retrovie e il presidente Zelensky non ha avuto idea migliore di far fuori i vertici militari che erano diventati anche concorrenti politici. Secondo Foreign Affairs se non ci sarà un’inversione a breve di questa tendenza la situazione è destinata peggiorare e raggiungere il punto più basso entro l’estate.

Sia chiaro, neppure i russi stanno benissimo e presentano diverse vulnerabilità, come dimostrano alcuni successi ucraini nel Mar Nero. In generale c’è stata un certa sottovalutazione della capacità della Russia di rispondere alle sfide belliche. Questo giudizio è stato fortemente influenzato dalle sconfitte della Russia a Kharkiv e Kherson ma da allora Mosca si è messa nelle condizioni di affrontare un conflitto prolungato dove il fattore tempo e quello del logoramento dell’avversario giocano un ruolo fondamentale.

Quanto tempo può resistere la Russia? I russi hanno dovuto ricondizionare migliaia di carri armati e blindati che giacevano nei magazzini e anche per loro le riserve non sono infinite: si stima che Mosca abbia ormai bruciato dal 30 al 40% delle sue riserve strategiche migliori. Eppure gli strateghi occidentali stimano che Mosca può resistere altri due anni e due anni per l’Ucraina sono un tempo infinito.

Se è vero che il fronte ci appare in gran parte bloccato ci sono segnali preoccupanti per Kiev: nel Donetsk, occupato dai russi, i due nemici nel 2023 schieravano più o meno lo stesso numero di soldati, da febbraio la Russia ha un vantaggio di due a uno. Certo anche la Russia non può reclutare all’infinito ed evita una mobilitazione generale che possa incidere sulla stabilità interna e la sicurezza del regime.

Ma oggi, come si è visto, il Cremlino è in grado di programmare nuove offensive contro le roccaforti ucraine. L’offensiva ucraina dei mesi scorsi invece è clamorosamente fallita, al punto che neppure i più ottimisti (o creduloni) oggi prestano la minima attenzione alla propaganda bellica di Zelensky. E questo è un altro nodo della questione: il potere del dittatore Putin, che usa tutti i mezzi a sua disposizione, anche i più crudeli, è incontrastato, la cerchia intorno al presidente ucraino si sta sfaldando. Per lui e per l’Ucraina il tempo non è finito ma si sta esaurendo assai rapidamente

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