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STRISCIA DI SANGUE. Famiglie, bambini, anziani, laici e ultraortodossi: in migliaia all’iniziativa organizzata da soldati e gruppi dell’estrema destra

In una abitazione distrutta dalle bombe a Rafah, nel sud di Gaza foto Said Khatib/Getty Images In una abitazione distrutta dalle bombe a Rafah, nel sud di Gaza - foto Said Khatib/Getty Images

Dopo un’ora dall’inizio della manifestazione centinaia di persone continuano a farsi strada sulla collina che ospita le istituzioni israeliane. La Marcia della Vittoria non riesce a tagliare il traguardo desiderato, 50mila partecipanti, ma è comunque un successo: lì sul selciato che conduce alla Knesset e alla Corte suprema ce ne sono 10-15mila. Decisamente di più di chi scende in piazza in solidarietà con le famiglie degli ostaggi israeliani a Gaza.

Non scontato per un’iniziativa lanciata appena due settimane fa da un’organizzazione composita, che ruota intorno ai neonati Reservists until Victory (Mahal HaMiluimnikim): riservisti, soldati di ritorno da Gaza, rabbini, attivisti di destra ed ex militari del gruppo Ad Kan, e poi Mothers of Soldiers, Lobby 1701, il Tikva Forum, uniti sotto lo slogan «Andare avanti fino alla vittoria».

VITTORIA SIGNIFICA, spiega la soldatessa che apre gli interventi, la distruzione di Hamas, solo con l’esercito dentro Gaza si porta a casa il risultato. Un messaggio condiviso dai vertici governativi e da un pezzo di società israeliana: nessun negoziato, la guerra vada avanti. A impressionare, però, è la piazza: sembra più un happening, che un ritrovo di gente che chiede di fare la guerra. Famiglie, genitori con i figli ancora sui passeggini, anziane coppie, ragazzini. Laici e ultraortodossi, soldati in uniforme e civili con il fucile. Signori di mezza età in cravatta e giovani universitarie con le sneakers. Cittadini normali. Ci sono i papà che fanno ballare le figlie sulle spalle, ragazzini che portano una barella con sopra un elmetto da soldato, le file per ritirare il cartello con la foto di un soldato morto a Gaza.

IMMAGINI degli ostaggi, no: «Bisogna accettare qualche sacrificio per vincere», riassume Alex mentre distribuisce adesivi. «Netanyahu non provi a uscire da lì, va finito il lavoro o sarà stato sangue sprecato», spiega una giovane donna. Dal palco intanto si alternano gli interventi, insistono su una parola, «Vittoria», la gridano e sotto applaudono tutti sventolando migliaia di cartelli «Il mio amico non è morto invano».
L’angoscia che accompagna la quotidianità post-7 ottobre, lo choc che tanti israeliani tentano di trasmettere, qui si fa euforia. La piazza canta, balla al ritmo della musica pop sparata dal palco, tiene il tempo con le trombette e improvvisa picnic. Il motivo, forse, lo centra Yonathan, 60 anni e baffi già bianchi: «Siamo diventati mainstream. Le nostre idee sono diventate mainstream». Dopotutto i riferimenti sono gli stessi dell’ultradestra al governo, del nazionalismo religioso e il sionismo messianico, ma anche del Likud: i palestinesi come gli amalek, vanno cancellati. «Si parla di finire la guerra, creare uno stato palestinese – diceva alla vigilia Matan Wiesel, uno degli organizzatori – Se non occupiamo e controlliamo il territorio del nemico, manderemo un messaggio alla regione: Israele è debole».

Manifestanti alla marcia per la vittoria - foto di Chiara Cruciati
Manifestanti alla marcia per la vittoria – foto di Chiara Cruciati

LO RIPETE da giorni la Marcia, partita il 4 febbraio dal kibbutz di Zikim e documentata su Facebook e X: foto di manifestanti in calzoncini mescolate ai videomessaggi di soldati sul campo, rabbini vicini ai movimenti di destra e genitori di militari caduti. Chiedono di riempire le piazze per riempire i cannoni: «La fine dei giorni è alle porte, quando apparirà il Messia tutti si inchineranno al Creatore». Gaza va spazzata via. Gaza se la cava fin troppo bene. E giù video dell’enclave palestinese girati prima del 7 ottobre ma spacciati per attuali, con mercati pieni di gente allegra, ristorantini di shawarma e camion in viaggio tra strade senza né macerie né crateri.

Gli obiettivi della Marcia, messi nero su bianco, sono gli stessi di un pezzo significativo di governo israeliano, quelli di Smotrich e Ben Gvir e le loro conferenze per la ricolonizzazione di Gaza e in forma più sottile quelli di Netanyahu: «Terra: assicurarsi la vittoria nella campagna sottraendo un territorio significativo alla Striscia di Gaza e annetterlo allo stato di Israele; Nemico: la distruzione di Hamas e l’incoraggiamento dell’immigrazione della popolazione “non coinvolta” di Gaza; Assistenza: al nemico non va fornita assistenza logistica». Ovvero gli aiuti umanitari che gruppi aderenti alla Marcia – in prima fila le Mothers of Soldiers – stanno bloccando, spesso con successo, al porto di Ashdod e al valico di Kerem Shalom. In breve: ricolonizzazione della Striscia ed espulsione della popolazione palestinese, e fino ad allora carestia e malattie.

Degli ostaggi israeliani non sembra esserci l’ombra: anche questo concetto si fa sempre più mainstream, solo la metà degli israeliani – secondo gli ultimi sondaggi – ritiene una priorità la loro liberazione (intanto ieri sera le famiglie erano a Tel Aviv a chiedere di nuovo un accordo).

GAZA è lontanissima, molto più di un’ora e mezzo di auto. Sopra il cielo di Gerusalemme non si sentono nemmeno i caccia, passano sopra la Cisgiordania. La città di Rafah è il punto più lontano di tutti. La notte prima della Marcia è stata pesantemente bombardata, soprattutto la zona ovest.

«UN’ESPANSIONE delle ostilità – avvertiva ieri l’ong Norwegian Refugee Council – può trasformare Rafah in un bagno di sangue e distruzione». Sessantatré km² che ospitano già 1,4 milioni di civili, due terzi dell’intera popolazione di Gaza. La Striscia che si rimpicciolisce allarma le Nazioni unite. Ieri Volker Turk, alto commissario per i diritti umani, ha avvertito Israele che la creazione di una zona cuscinetto attraverso la distruzione a tappeto di migliaia di edifici civili ammonta a crimine di guerra (sarebbero 3mila, secondo fonti ministeriali palestinesi, gli edifici dati alle fiamme nelle ultime settimane dall’esercito israeliano, spesso documentati sulle piattaforme social dagli stessi soldati).

E INTANTO si continua a morire: 27.840 palestinesi uccisi, a cui si aggiungono migliaia di dispersi. Tra le vittime anche una ragazzina di 14 anni, uccisa da un cecchino israeliano fuori dall’ospedale Nasser di Khan Yunis. Sembra fosse uscita per cercare dell’acqua.

PERCHÉ L’OSPEDALE è da giorni completamente assediato: 300 medici, 450 feriti e 10mila sfollati chiusi dentro, senza viveri; fuori c’è il fuoco dei cecchini, raccontano i giornalisti nelle vicinanze. Che, da parte loro, piangono un altro collega: Nafez Abdel Jawad, della Palestine Tv, è stato ucciso in un raid aereo con il figlio, a Deir el-Balah. È il 123esimo reporter ammazzato dal 7 ottobre scorso, certifica Reporter senza Frontiere: «L’esercito israeliano ha decimato il giornalismo palestinese»

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Giovedì 8 febbraio la Struttura Commissariale arriva a Faenza. L’incontro è in programma al Cinema Sarti dalle 10 alle 17,30 per affrontare le criticità legate alle ordinanze commissariali, con particolare riferimento a perizie, piattaforma Sfinge e ristori. A oltre otto mesi dall’alluvione che ha sconvolto la città e la Romagna, la ricostruzione, soprattutto in ambito privato, procede ancora con diversi intoppi e a descrivere la situazione sono i freddi numeri: a fronte di una stima di circa 60mila richieste di rimborso, in tutte le aree colpite, ne sono in realtà arrivate alla regione circa mille e, di queste, solo un centinaio sono state reindirizzate ai comuni. «Siamo davanti a un fallimento evidente di Sfinge, commenta Marcello Arfelli del Comitato alluvionati Borgo-Sarna di Faenza – e l’incontro con la struttura commissariale è un’occasione per comprendere il motivo di questo insuccesso. Come Comitato riteniamo che Sfinge sia stata concepita per danni da terremoto e probabilmente non si adatta bene alla nostra situazione. La procedura per richiedere i ristori è burocratica e farraginosa, arrivando a dissuadere il cittadino dal presentare domanda di rimborso».

Le proposte saranno avanzate alla Struttura Commissariale in visita a Faenza

Non c’è solo l’eccessiva burocrazia però a spiegare la scarsa mole di domande presentate, per tanti cittadini colpiti semplicemente non ha senso procedere con la perizia. «Per chi ha un danno contenuto – spiega Arfelli – magari limitato a garage o cantina, eseguire una perizia non conviene perché spesso il costo della perizia, svolta da un tecnico, raggiunge o supera quello dell’intervento stesso. In questo modo il rischio è che le persone preferiscano far svolgere i lavori in nero: è paradossale, ma il modo in cui è stata concepita la procedura legata a Sfinge rischia dunque di incentivare il lavoro nero. Come Comitato la nostra proposta, per superare queste criticità, è semplificare e prevedere due scaglioni. Per danni importanti, superiori ai 20-30 mila euro, l’iter da seguire deve essere quello già previsto dalla Struttura Commissariale, con l’esecuzione della perizia, ma per danni inferiori a certe cifre sarebbe più logico applicare la procedura già sperimentata con il Contributo di Immediato Sostegno. A fronte delle spese sostenute anticipatamente, si presentano le fatture e si riceve il rimborso. Si tratta comunque di una procedura utilizzata ormai da tempo da parte della Protezione Civile e quindi collaudata».

La bocciatura sui beni mobili

A tenere banco nei giorni scorsi è stato anche il mancato rimborso dei beni mobili, con gli emendamenti al Dl Energia, su questo tema, bocciati al Senato e il presidente della Regione Stefano Bonaccini che si è detto colpito dalla decisione. «Speriamo – spiega Arfelli – che possa essere emanata il prima possibile l’ordinanza relativa ad arredamenti e beni mobili. Come Comitato abbiamo avanzato la proposta di un forfait per ogni stanza: 2.500 euro a stanza e 5mila euro per la cucina, fino a un massimo rimborsabile di 15mila euro. Per ora la proposta è stata rispedita al mittente, noi auspichiamo almeno possa essere valutata perché ci sembra un buon suggerimento. Tra l’altro, in questo modo, si potrebbe riconoscere un indennizzo anche agli inquilini, categoria esclusa da ogni tipo di ristoro e questo è davvero eticamente ingiusto».

La sicurezza futura

Sebbene non al centro dell’incontro con la Struttura Commissariale c’è poi un altro tema prioritario che interessa i faentini ed è la messa in sicurezza della città. «A marzo 2024 l’Autorità di Bacino, responsabile per l’attività di pianificazione – illustra Arfelli – dovrebbe presentare il piano di bacino, in cui saranno individuate le aree idonee alla realizzazione delle casse di espansione. Dopodiché starà alla Regione, competente a livello di ambiente fluviale, occuparsi di progettazione ed esecuzione degli interventi. Un nodo potrebbe essere rappresentato dalle trattative con i proprietari dei terreni su cui dovranno sorgere le casse di espansione e per questo sarà necessario prevedere adeguate forme di compensazione e trovare una mediazione, in modo da non arrivare al muro contro muro, perdendo tempo prezioso. Basti pensare alla cassa di espansione sul Senio, da realizzare in località Cuffiano è ferma da 22 anni. Sono tempistiche inaccettabili».

Le proposte sulla sicurezza in città: il muro di via Renaccio e un rilevato in terra lungo via Cimatti

sopralluogo faenza 6 febb

In attesa di un piano che possa mettere in sicurezza Faenza e far dormire sonni più tranquilli a chi vive nelle aree colpite lo scorso maggio, resta necessario attuare alcuni interventi per mitigare, fin da subito, il rischio idraulico e per questo il Comitato Borgo-Sarna sta collaborando con il Comune che, come dichiarato dal vice sindaco Fabbri alla nostra testata, non vuole restare a guardare, in attesa della presentazione del piano da parte dell’Autorità di Bacino. «Il muro in via Renaccio – commenta Arfelli – ormai prossimo alla conclusione è sicuramente un progetto che consente di innalzare il livello di sicurezza. Un’altra proposta che abbiamo avanzato è quella di realizzare un rilevato in terra lungo la salita di via Cimatti, accanto alla sede stradale, per proteggere il Borgo da eventi alluvionali analoghi a quello del 2-3 maggio. Si tratta di un’opera – conclude – dai costi contenuti, facile da realizzare, ma che innalzerebbe sensibilmente la sicurezza idraulica, portando benefici ad un’area colpita duramente per ben due volte».

Samuele Bondi

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IL LIMITE IGNOTO. Scarica di missili sull’Ucraina, 4 morti a Kiev. Aiuti a rischio, Zelensky studia contromisure. Il capo della diplomazia Ue Borrell in visita nella capitale: «La mia giornata è iniziata in un bunker»

Vigili del fuoco al lavoro sul condominio colpito dall’attacco russo su Kiev foto Ap Vigili del fuoco al lavoro sul condominio colpito dall’attacco russo su Kiev - Ap

Mosca invia un messaggio chiaro all’Ucraina e ai suoi alleati: la guerra non è in pausa. Una pioggia di missili e droni hanno colpito diverse città ucraine ieri mattina mentre l’Alto segretario per gli Affari esteri dell’Ue, Josep Borrell, stava discutendo con le autorità locali degli aiuti militari e del sostegno finanziario a Kiev. Stando alle dichiarazioni dello staff di Zelensky, la Russia ha lanciato missili da crociera e balistici e droni di tipo Shahed (i famosi droni kamikaze) contro sei regioni dell’Ucraina, uccidendo almeno cinque civili e ferendone quasi altri 50, tra cui una donna incinta.

NELLA CAPITALE si è registrato il bilancio più drammatico: almeno 4 morti e 40 feriti, secondo il Servizio di emergenza nazionale. Le vittime sono state colpite dai resti di una testata che si è schiantata contro un alto palazzo residenziale, causando un incendio che ha sventrato gli appartamenti di diversi piani. Due linee elettriche danneggiate durante l’attacco hanno lasciato senza corrente circa 20 mila famiglie sulla riva orientale del fiume Dnipro e si è trattato della prima interruzione di corrente significativa nella capitale dall’inizio dell’anno, dove l’allarme non era così alto da molto tempo.

«Ho iniziato la mia giornata in un rifugio antiaereo» ha dichiarato Borrell, «ma questa è parte della realtà quotidiana dell’Ucraina dopo quasi due anni di guerra». Successivamente, il rappresentante estero dell’Ue ha visitato un impianto di produzione di droni dell’aeronautica e ha raccolto dati sulle «necessità più urgenti» per la Difesa di Kiev.

Il Ministero della Difesa russo ha dichiarato di aver utilizzato le solite «armi di precisione» contro le fabbriche ucraine che producono droni marini e sistemi d’arma. E come da copione: «Tutti gli obiettivi sono stati colpiti».

ANCHE LA CITTÀ COSTIERA di Mykolayiv è stata di nuovo bersagliata dopo qualche settimana di relativa quiete. Il raid ha danneggiato «circa 20 edifici residenziali e infrastrutture pubbliche», secondo il governatore locale Vitaly Kim, uccidendo un uomo e ferendo 6 persone. A Kharkiv, nel nord-est del Paese, un raid di missili S-300, di solito destinati alla contraerea ma in questa guerra usati anche per scopi offensivi (e quindi molto imprecisi) hanno ferito alcune persone senza però causare vittime. I missili hanno raggiunto anche Leopoli, poco distante dal confine polacco, causando un forte incendio.

IL PROLUNGARSI DELLA GUERRA ha obbligato i vertici ucraini a ripensare alla strategia per contrastare la maggiore disponibilità di armamenti delle forze del Cremlino. L’aiuto dell’Occidente è vitale e l’ostruzionismo dei repubblicani alla Camera di Washington ha bloccato di nuovo i 60 miliardi che avrebbero potuto dare un po’ di respiro all’esercito ucraino. Il mese scorso il presidente Zelensky aveva chiarito che «difesa aerea e sistemi di guerra elettronica in grado di fermare i droni nemici» sono le priorità di Kiev. La «lista della spesa» la chiamava qualcuno in modo dispregiativo a inizio guerra.
Ma è evidente che queste forniture sono l’ossatura su cui si regge la resistenza ucraina all’incessante martellamento russo. La conformazione stessa del fronte, lungo circa 1.500 km, obbliga a tenere le posizioni su diverse direttrici e gli uomini in prima linea hanno bisogno di riposarsi. Soprattutto in vista di una possibile nuova offensiva in forze dei russi che, secondo diversi analisti, potrebbe iniziare non appena le condizioni metereologiche lo permetteranno.

Il ghiaccio per ora ha letteralmente congelato il fronte, a eccezione delle zone di Avdiivka e di Kupiansk, ma la primavera è vicina. Quindi, e di nuovo, per Zelensky si tratta di una corsa contro il tempo.

TRA L’ALTRO IERI LA MISSIONE di monitoraggio dei diritti umani delle Nazioni unite in Ucraina ha dichiarato che le vittime civili della guerra hanno ricominciato a crescere dopo un periodo di calo l’anno passato. A gennaio i funzionari dell’Onu hanno documentato 158 morti e 483 feriti tra i civili, con un aumento del 37% rispetto a novembre del 2023. Complessivamente, secondo l’Onu, finora il conflitto con la Russia è costato la vita a 10 mila civili ucraini e ne ha feriti quasi 20 mila

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FABBRICHE A RISCHIO. Non accadeva da 14 anni, nel pieno del durissimo scontro tra Sergio Marchionne e la Fiom Cgil. La stop operaio di un'ora al termine di una partecipatissima assemblea. "Mobilitiamoci come gli agricoltori, il nostro futuro è incerto e non ci danno risposte". Da lunedì l'ennesima cassa integrazione per 2.260 addetti, fino al 30 marzo. La Fiom: dal 2027 non ci saranno più modelli, la fabbrica si sta spegnendo

 La Fiom Cgil di Mirafiori

A Mirafiori l’ultimo sciopero spontaneo con corteo interno degli operai risaliva a 14 anni fa, nel pieno del durissimo scontro tra Sergio Marchionne e una Fiom Cgil che per cinque anni, dal 2010 al 2015, fu letteralmente espulsa dagli stabilimenti Fiat. Basta questo dato per capire l’impatto della presa di posizione degli operai della linea 500 elettrica, che hanno incrociato le braccia per un’ora e sono usciti in corteo dalla porta 2 dello stabilimento torinese. Una protesta avviata al termine della partecipatissima assemblea organizzata dalla Fiom – in contemporanea con quella a Pomigliano – come primo atto di una campagna di ascolto in tutto il gruppo Stellantis, dopo le parole dell’ad Carlos Tavares che non ha dato alcuna garanzia sull’occupazione e sulla tutela degli stabilimenti italiani, in particolare proprio Mirafiori e Pomigliano.

“Mobilitiamoci come gli agricoltori – hanno proposto alcuni operai – il nostro futuro è incerto e non ci danno risposte”. Per certo, come racconta il segretario nazionale responsabile automotive dei metalmeccanici Cgil, Samuele Lodi, “la partecipazione alle assemblee è stata straordinaria, perché c’è forte preoccupazione per le dichiarazioni di Tavares. Una preoccupazione da affrontare in modo solidale, senza distinzioni di sigle sindacali”.

Le rassicurazioni del presidente del gruppo John Elkann sugli impegni italiani di Stellantis non convincono affatto gli operai della fabbrica torinese, dove alla cig prevista inizialmente dal 12 febbraio al 4 marzo si è aggiunto lunedì un ulteriore mese, dal 4 al 30 marzo, di cassa integrazione per 2.260 addetti delle linee della 500 elettrica e della Maserati. Così in assemblea il segretario generale della Fiom torinese Edi Lazzi, il numero uno della Cgil Piemonte, Giorgio Airaudo, e Gianni Mannori responsabile Fiom Mirafiori, hanno fatto il punto di una situazione più che allarmante.

“Per quanto sappiamo oggi – ha spiegato Airaudo – dal 2027 Mirafiori non avrà più prodotti. Se non arriveranno nuovi prodotti e non ci sarà un’inversione di tendenza sul mercato europeo, la fabbrica sarà ridotta al lumicino”. E questo in una realtà dove “sono 17 anni che dura la cig, l’occupazione complessiva è passata da 20mila a 12mila lavoratori, e negli ultimi anni 1.500 impiegati, tecnici e ingegneri hanno lasciato l’azienda. Ora basta, vogliamo un piano per Mirafiori che ci porti a 200mila vetture, come richiesto dalla piattaforma unitaria, e dia garanzie occupazionali per il prossimo decennio”.

“Non possiamo assistere al lento, inesorabile spegnimento degli stabilimenti – tira le somme Lodi – Stellantis non può continuare a non dare risposte. Dopo la richiesta congiunta di Fiom, Fim e Uilm di un incontro alla presidente del Consiglio e all’ad Tavares, le lavoratrici e i lavoratori chiedono di continuare a mettere in campo iniziative che spingano le istituzioni a tutelare produzione e lavoro. Anche perché al momento il tavolo al ministero non ha prodotto i risultati sperati”

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IL LIMITE IGNOTO. Le rassicurazioni del ministro degli Esteri Kuleba servono a poco

Kiev, «reset» ai vertici: non solo Zaluzhny. Si dimette la ministra Laputina 

«Non penso che eventuali cambiamenti nel governo possano avere ripercussioni sulle relazioni con i nostri partner perché rispettano il diritto del presidente di prendere queste decisioni» ha dichiarato ieri il ministro degli Esteri ucraino Kuleba. Eppure i timori ci sono e le rassicurazioni di un fedelissimo di Zelensky valgono a poco. Stando alle parole dello stesso presidente, infatti, a breve ci sarà un vero e proprio «reset». Non solo il capo di stato maggiore: i vertici del ministero degli Interni, della Difesa e alcune agenzie governative già tremano.

È stata finalmente sdoganata la possibilità che a sostituire Zaluzhny, che secondo alcune indiscrezioni potrebbe essere licenziato ufficialmente già domani, con l’attuale capo dei servizi segreti militari Kyrylo Budanov. Ciò dimostrerebbe che gli equilibri interni i vedevano Zelensky e i servizi contrapposti ai militari.Oppure che il governo centrale cerca un capro espiatorio per l’attuale stallo militare. Intanto lunedì si è dimessa, senza specificare il perché, la ministra per i Veterani, Yuliia Laputina. Per molti è solo del primo segnale.

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«Nessun negoziato con Hamas, l’unica vittoria è militare». Al termine di un inutile colloquio con l’inviato Usa, Netanyahu gela le speranze di Gaza e quelle delle famiglie degli ostaggi. Via libera ai tank israeliani verso Rafah: due milioni di civili palestinesi in trappola

INVADO AVANTI. Dopo ore di colloquio con Blinken, il primo ministro insiste: l’unica vittoria è militare. Rabbia delle famiglie degli ostaggi. Rifiutata la proposta di Hamas, 135 giorni di pausa, ma al Cairo il team israeliano continua a dialogare. Gaza in trappola conta 27.708 uccisi, 12mila sono bambini: una mattanza

Sopra le macerie di Rafah foto Ap Sopra le macerie di Rafah - Ap/Mohammed Talatene

Il poster «Bring them back», riportateli indietro, il primo ministro israeliano Benyamin Netanyahu ce l’ha sotto il naso. Di fronte alla sua residenza, al numero 35 di Azza Street (Via Gaza, vuole il fato), ne hanno appeso uno, promemoria giornaliero. Un altro lo hanno legato a uno dei balconi della palazzina in cui vive.

Grigia e decadente, non diresti mai che lì dentro ci abiti un primo ministro. Lo dice la sicurezza fuori, metal detector, guardie armate, barriere metalliche.

È QUI che si ritrovano spesso i familiari dei 136 ostaggi ancora a Gaza, almeno 32 uccisi secondo le ultime dichiarazioni ufficiali. È anche a loro che ieri il premier si è rivolto nella conferenza stampa serale, seguita all’incontro – l’ennesimo – con il segretario di stato Usa Antony Blinken.

Si è rivolto a loro per dirgli che si mettano pure l’anima in pace: nessun negoziato con Hamas. Il premier è apparso in tv alle 19.30 ora locale per un lungo giro di parole che ha preferito al «no» secco un rifiuto implicito: la vittoria «decisiva» è «nelle nostre mani, è una questione di mesi»; «Non c’è altra soluzione» alla distruzione totale

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