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Riforme. La via proposta da Giorgetti è la più rischiosa tra le tante che nell'ultimo quarto di secolo hanno spinto sulla verticalizzazione del potere. Una storia di tentazioni a rischio all'inizio della quale c'è un'altra provocazione della Lega

 

Mario Draghi  © LaPresse

 Tra Lega e semipresidenzialismo c’è un rapporto deleterio da quasi un quarto di secolo. Da quel giorno del giugno 1997 in cui i rappresentanti leghisti nella bicamerale per le riforme lo votarono come forma di governo preferita, cambiando idea all’ultimo minuto e facendo saltare il piano di D’Alema (e più tardi tutta la commissione). Fu un gesto a metà tra incoscienza e provocazione, sigillato nel ricordo dal sorrisetto di Roberto Maroni (recentemente recuperato in servizio dal governo Draghi). Giancarlo Giorgetti, all’epoca, era un oscuro deputato. Oggi che da ministro in carica propone di spostare Mario Draghi al Quirinale come via breve al semipresidenzialismo «de facto» recupera un po’ di quello spirito da guastatori. Dice in pubblico quello che i tifosi della verticalizzazione del potere sognano in privato.

Il semipresidenzialismo come soluzione semi autoritaria ai problemi di governabilità del paese è un mantra della cosiddetta seconda repubblica, senza troppe distinzioni di schieramento. Anche in questa legislatura ci sono agli atti proposte di riforma semipresidenziale che vanno dal Pd a Fratelli d’Italia. Un fiume carsico venuto alla luce in mille forme, le più assurde: dal blitz su un emendamento che dieci anni fa doveva farne l’approdo della transizione italiana alla proposta di referendum di indirizzo, poi regredita a questionario sul sito del dipartimento per le riforme, per incoronarlo come il sistema preferito dagli italiani. La via breve vaticinata da Giorgetti a Bruno Vespa è, potenzialmente, la più pericolosa.

Del suo modello più noto, il semipresidenzialismo francese, quello «de facto» non ha quasi niente. Gli mancano soprattutto l’elezione popolare diretta del presidente della Repubblica (con legge elettorale a doppio turno) e il sistema costituzionale di bilanciamento dei poteri. L’idea di Giorgetti è un vuoto, un buco con Draghi al centro. Brutalmente onesta, perché è difficile negare che l’attuale presidente del Consiglio anche in caso di trasloco al Quirinale resterebbe il protagonista principale dell’azione politica. Cioè proprio quello che al nostro presidente della Repubblica è impedito dalla Costituzione (che lo ha voluto politicamente irresponsabile). Protagonista per tante ragioni, non solo perché ha scritto il Piano dalla cui attuazione dipenderanno i governi a venire. Ma anche, per esempio, perché toccherebbe a lui, dal Colle, conferire l’incarico al nuovo presidente del Consiglio. Scegliersi il successore.

La ricorrente metafora del potere a fisarmonica del Capo dello stato, alla quale ricorre anche Giorgetti, in questo caso non è corretta: Draghi presidente non si allargherebbe per compensare una debolezza del governo, al contrario comprimerebbe in partenza lo spazio dell’esecutivo con la sua presenza ingombrante. Qui c’è tutto il rischio di una soluzione «de facto», fuori cioè da regole e poteri definiti. Il rischio, in due parole, di un catastrofico scontro istituzionale tra le prime cariche dello stato.

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In una breve intervista rilasciata il 28 ottobre all’ Huffington Post, il deputato di Italia Viva Davide Faraone usa i termini riformismo/riformista ben 11 volte. Naturalmente definisce come i più coerenti riformisti i militanti dell’Italia Viva di Renzi, ma considera riformisti anche Carfagna, Lupi e tutti i moderati di Forza Italia a cominciare da Micciché, ed in fondo anche Giorgetti e i moderati della Lega. Quelli del Pd, invece, «il riformismo non sanno dove sta di casa». Soprattutto, per Faraone, è fondamentale «lo sforzo riformista per l’Italia» del governo Draghi, che deve essere inteso come riformismo permanente non «solo figlio dell’emergenza».
Sempre in questi giorni (24 ottobre) l’ex direttore di Repubblica Ezio Mauro, osserva che il riformismo lo abbiamo «sotto gli occhi» ed è rappresentato da quelle forze che per Faraone «non sanno dove sta di casa»: cioè dal Pd «con in pancia» (espressione del 2013 di Scalfari: «il Pd con in pancia Vendola) i cespugli del centrosinistra.
Per Faraone l’essenza del riformismo è il «cambiamento»; per Mauro la «tensione (…) portare a termine l’imperfezione».
Numerosi altri significati si possono trovare nell’uso di una parola la cui forza sta solo nella mancanza di determinazioni in grado di dare razionalmente conto del rapporto tra il nome e la cosa. In questo modo diventa riformista tutto ciò che promuove la modernità, ovviamente una modernità anch’essa priva di determinazioni.
Dal punto di vista dell’analisi storica il riformismo indeterminato si configura come esercizio sul nulla. Solo le determinazioni del riformismo hanno concretezza storica. Solo tali determinazioni sono necessarie per l’analisi politica. Il riformismo indeterminato, la modernità indeterminata sono luoghi favorevoli per qualsiasi scorreria a sfondo politicistico/affaristico, cioè per quelle pratiche abituali in tanta parte del nostro ceto politico.
Il giornalismo colto, quello che Mauro intende rappresentare, non dovrebbe contribuire a rafforzare le logiche dell’indeterminatezza. Non dovrebbe usare il termine come se mantenesse una sorta di significato profondo che in qualche modo lega la concezione del riformismo di Turati a quella di Craxi, di Veltroni e poi, magari, anche di Renzi. La continuità profonda del riformismo, consisterebbe nella sua contrapposizione al rivoluzionarismo, declinato volta a volta come massimalismo, comunismo e poi a tutte le realtà che esercitano, come sottolinea Mauro, una «critica radicale».
I termini tramandati non esprimono la realtà dei processi storici. «I termini invariati – ha sostenuto Theodor Adorno – esprimono

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Stato e regioni. Così resta prioritaria nell’indirizzo di governo, sopravvivendo con quattro esecutivi: Gentiloni, Conte I, Conte II e ora Draghi. L’iniziativa sabato scorso, di Noad-Comitati contro

Opera

Opera © Luciano Fabro

L’autonomia differenziata sta ripartendo sotto copertura. Si colgono i segnali di trattative occulte tra il ministero delle autonomie e alcune regioni. Si leggono sulla stampa esternazioni della ministra Gelmini che annuncia a breve novità, per una legge-quadro erede di quella che fu già di Boccia, e per le intese con le regioni capofila (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna).

Ma tutto rimane segreto, come già ai tempi del Conte I e della ministra leghista Stefani. Mentre viene inserito tra i collegati alla legge di bilancio il disegno di legge attuativo dell’art. 116, comma 3, della Costituzione. Meglio, si inserisce l’annuncio, visto che il testo ancora non esiste.

In questo quadro si è tenuta il 30 ottobre in una sede messa a disposizione dalla Cgil l’assemblea nazionale di Noad Comitati contro qualunque autonomia differenziata. La blindatura della città per il G20 non ha impedito un’ampia partecipazione di realtà associative attente alla tutela di eguaglianza e diritti. Decine di interventi hanno richiamato i valori costituzionali in vista del comune obiettivo dell’unità della Repubblica. È stato tra l’altro chiesto lo stralcio del ddl dall’elenco dei collegati.

L’inserimento tra i collegati di un ddl non è di per sé conclusivo. Inoltre, si potrebbe arrivare a implementare il dettato dell’art. 116, comma 3, anche senza un ddl attuativo. E si può giungere ad autonomie diversificate persino senza formale ricorso all’art. 116, comma 3. Il servizio sanitario nazionale è stato già distrutto – come la pandemia ha dimostrato – dal regionalismo oggi vigente. Lo afferma l’Anaao-Assomed in un recente documento. E allora di che parliamo?

Il punto è che il collegamento al bilancio dimostra che l’autonomia differenziata è prioritaria nell’indirizzo di governo. Anzi, sopravvive con ben quattro governi (Gentiloni, Conte I, Conte II e ora Draghi). Quattro governi, e ancor più quattro stagioni molto diverse: centrosinistra, gialloverde, giallorossa, e ora dei tecnici. È prova che forze potenti spingono per realizzarla, e che una corrente profonda passa nella politica, nelle istituzioni, nell’economia, nella società civile.

Non ogni diversità territoriale va rigettata a prescindere. Ad esempio, si è avviato il 28 ottobre nell’Aula del Senato l’iter di un disegno di legge costituzionale di iniziativa popolare (AS 865) volto ad inserire nell’art. 119 della Costituzione il concetto di “insularità”. In sostanza, recupera in parte e attualizza il testo originario della Costituzione del 1948 – poi cancellato dalla riforma del 2001 – che richiamava il Mezzogiorno e le Isole. Quale che sia la sorte futura del ddl, persegue un obiettivo in principio apprezzabile di maggiore tutela di eguaglianza e diritti.

Vanno invece respinte le differenziazioni che assumono le diseguaglianze come elemento propulsivo e di competitività per questo o quel territorio, in quanto capace di mettere più e meglio a frutto le risorse: Nord vs Sud, aree urbane e metropolitane vs aree interne. È la filosofia sulla quale si fonda la strategia della “locomotiva del Nord”. Una strategia che le classifiche territoriali europee dimostrano fallimentare. E rispetto alla quale l’autonomia differenziata è servente.

Molti interventi nell’assemblea hanno descritto un paese insopportabilmente diviso, in specie per sanità e scuola, ma non solo. Sono stati segnalati dubbi sulla idoneità del Pnrr a perseguire un disegno di coesione sociale e territoriale. Sono state richiamate le ambiguità nelle organizzazioni della sinistra. Spiccano – e sono da apprezzare – le iniziative in Lombardia ed Emilia-Romagna di petizioni popolari per il ritiro dei progetti di autonomia differenziata. Ma vediamo anche da ultimo il neo-sindaco dem di Torino che chiama i sindaci del Nord a una santa alleanza contro le burocrazie romane. Un nuovo iscritto al club Bonaccini?

Per chi vuole un paese più unito, più eguale, più giusto il percorso è lungo e impervio. Va anzitutto chiesta visibilità e trasparenza sui processo decisionali in atto. Va sostenuta ogni iniziativa volta a una alfabetizzazione di massa su temi non facili, come è anche il programma delineato nella mozione conclusiva dell’assemblea. Tutti dobbiamo scendere in campo. Personalmente, lavoro a una proposta di legge costituzionale di iniziativa popolare per una riforma mirata del titolo V. Dopo venti anni, è venuto il tempo di correggere gli errori fatti, rinsaldare la casa comune, ritrovare eguaglianza e pienezza di diritti.

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Tre aspetti critici. Nella Ue una persona dipende da 1,8 al lavoro che si ridurranno a 1,5 nel 2030. In Italia sarà di 1,1. La crisi è strutturale e non ci sono tagli che possano porvi rimedio

 

I governi tecnici e di destra susseguitisi in Italia dalla metà degli anni Novanta si sono contraddistinti per coerenti controriforme fortemente peggiorative del sistema pensionistico. La legge Fornero cui il presidente del consiglio Draghi intende restare ancorato (salvo aggiustamenti minori) è il provvedimento pensionistico peggiore rispetto a quelli in vigore in altri paesi europei confrontabili con l’Italia per popolazione e Pil pro capite.

Non c’è qui lo spazio per un dettagliato schema comparativo con i singoli Stati dellUnione, ma c’interessa evidenziare alcuni aspetti di fondo, in parte ricorrenti, in parte più accentuati nel nostro Paese.

Il primo riguarda lo squilibrio demografico per cui la popolazione troppo giovane o troppo anziana per lavorare dipende da una base sempre più ristretta di quanti lavorano. Nell’insieme dell’Ue una persona dipende da 1,8 al lavoro, che si ridurranno a 1,5 entro il 2030.
Un rapporto che la stessa Commissione europea giudica insostenibile.

In Italia il rapporto è addirittura di 1 a 1,1 ed entro un ventennio sarà di 1 a 1. Una situazione in cui non c’è taglio del welfare che serva. Occorre invece provvedere a correggere il gap demografico. Il che è possibile solo favorendo l’ingresso nell’Ue di alcune decine di milioni d’immigrati in pochi anni.

Il secondo è di natura fiscale e riguarda la sperequazione tra lavoratori dipendenti e autonomi. I primi, con la trattenuta alla fonte delle tasse e contributi loro richiesti, coprono interamente le spese sociali di cui usufruiscono, comprese quelle previdenziali. Mentre i lavoratori autonomi e i professionisti sfuggono più facilmente ai controlli e sono i maggiori responsabili di un’evasione fiscale che, complessivamente, raggiunge i 110 miliardi l’anno. Vale a dire l’equivalente di circa la metà del Recovery Fund, il cui ammontare viene esaltato come un’opportunità storica.

Al confronto, basterebbe recuperare buona parte dell’evasione fiscale per potenziare tutti i sistemi di welfare, incluse le pensioni, senza accampare pretesti per sacrifici e restrizioni.

Il terzo aspetto riguarda l’arretramento delle condizioni di lavoro: troppo spesso mal retribuito, a tempo determinato e/o parziale, caratterizzato da numerose e crescenti forme di precarietà. Sicché proprio i giovani (i cui interessi si vogliono fittiziamente contrapporre a quelli dei più anziani e “garantiti”) in queste condizioni di lavoro e con un sistema strettamente contributivo difficilmente potranno godere di una pensione sufficiente per vivere quando saranno anziani.

In realtà, in quarant’anni di politiche neoliberiste i maggiori paesi europei che potevano vantare un solido Stato sociale hanno proceduto al suo smantellamento con la progressiva privatizzazione delle prestazioni. Sicché diventa sempre più prossima la necessità di ricorrere a forme integrative della pensione. Come non è lontano il giorno in cui bisognerà stipulare onerose assicurazioni per la sanità, nonché far fronte a costi ancor più selettivi per l’educazione dei figli.

In breve, il vanto dei modelli di welfare di molti paesi europei nei confronti del sistema privatistico prevalente negli Usa sarà un ricordo del passato.

La responsabilità principale di questo scivolamento in basso è ben individuabile nello straordinario potere raggiunto dal capitale finanziario e nella funzione centrale da esso assunta nella regolazione dei rapporti, non solo economici, ma anche sociali.

Quanto alla politica, ha abdicato da tempo alla sua funzione di controllo e bilanciamento dei poteri in difesa degli interessi generali della collettività, assoggettandosi a quelli dei gruppi dominanti. Il che è verificabile in quasi tutti i paesi euro-atlantici, e altrove.

Uno stato di cose che può essere modificato solo con nuove forme della conflittualità sociale, molto più incisive e capaci di ridurre, almeno in parte, la grande sproporzione determinatasi nei rapporti di forza tra capitale e lavoro, particolarmente negli ultimi decenni.

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Formule vaghe, come quella sulla carbon neutrality "entro o intorno a metà secolo", una concessione a Cina e India

The Netherlands' Prime Minister Mark Rutte speaks with Britain's Prime Minister Boris Johnson as they...

POOL NEW VIA REUTERS The Netherlands' Prime Minister Mark Rutte speaks with Britain's Prime Minister Boris Johnson as they attend the G20 Summit at the La Nuvola conference centre in Rome, Italy October 31, 2021. Aaron Chown/Pool via REUTERS

Dopo giorni e notti di trattative sulla lotta ai cambiamenti climatici, il dossier più corposo e più a rischio del G20 anche per la concomitanza della Cop26 sull’ambiente che inizia oggi a Glasgow, gli sherpa delle venti maggiori economie del pianeta raggiungono un accordo. Ma a vederlo sembra un ‘accordicchio’, molto di compromesso con le potenze orientali, Cina, Russia, India, più indietro nella transizione. O forse era l’unico accordo possibile. 

In sostanza i G20 vogliono raggiungere la neutralità climatica intorno alla “metà del secolo” e si impegnano a mantenere il riscaldamento globale entro un aumento di 1,5 gradi di temperatura, come chiedono gli accordi di Parigi del 2015, che non indicano una data limite ma parlano di “lungo termine”.

Ecco il testo:

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Agenda Draghi. La sinistra non può diventare conservatrice nell’Italia di oggi, adeguarsi alla cosiddetta Agenda Draghi, schierarsi dalla parte dei due terzi che hanno ancora qualcosa da difendere e rinunciare a rappresentare gli interessi e le aspirazioni di chi galleggia o affonda.

In fila per ricevere aiuti alimentari  © Ap

La realtà della politica e della società appaiono scisse e solo in parte sovrapposte. Da un lato abbiamo un Paese attraversato da disuguaglianze abissali, da un senso diffuso e radicato di ingiustizia subita, da nuovi e vecchi conflitti più o meno latenti. È l’Italia in cui è possibile essere licenziati via whatsapp, in cui milioni di persone lavorano private persino di un contratto, dove i salari sono bassi e al palo da decenni.

È l’Italia da cui si scappa per assenza di opportunità, in cui l’unico vero welfare di prossimità è la pensione dei nonni, che d’altra parte i nipoti non vedranno nemmeno da lontano. È l’Italia che dipinge di verde ogni discorso pubblico, ma intanto continua a programmare un futuro fatto di gas fossili e nucleare, e intanto pensa a privatizzare ciò che resta dei beni comuni.

È un Paese dove la cultura antiscientifica diventa fenomeno minoritario ma di massa, in cui la politica lascia agli idranti della Polizia il compito di spiegare le proprie ragioni, in cui davanti ad uno scetticismo diffuso sui vaccini si risponde con il ricatto verso chi lavora. Si parla sempre meno delle organizzazioni criminali, che tuttavia muovono pezzi sempre più rilevanti di economia “legale”. Su tutto aleggia un rancore sordo, una disillusione quasi unanime, un senso di regresso individuale, famigliare, clanico da qualsiasi forma di vita associata, che determina la crisi sempre più profonda di tutti i corpi intermedi e collettivi.

D’altro lato la retorica unanime dell’eccellenza garantisce la piena cittadinanza e quindi risorse e privilegi a circuiti sempre più ristretti di persone, in competizione reciproca ma sempre solidale. In questo quadro, che produce non a caso un astensionismo record, la destra arretra e una tiepida sommatoria chiamata centrosinistra trionfa nelle urne.

In altre parole, i progressisti sembrano trovare la ragione del proprio successo nell’abbandono del campo politico da parte della componente più in crisi della società. L’euforia per lo scampato pericolo, e persino l’ottimismo per i risultati futuri, passano per la rimozione del rifiuto di milioni di persone di considerare il processo democratico utile alla soluzione dei propri problemi.

È il portato del Governo Draghi, in cui la celebrazione a media unificati dei successi del’Italia relega in secondo piano la lunga processione di esclusi, sconfitti e marginalizzati nemmeno sfiorati dalla crescita del Pil. Si possono persino tagliare le tasse al 10% di redditi più elevati, come se la condizione materiale di quote crescenti di lavoratori non sia di precariato, ipersfruttamento e fatica crescenti.

Il messaggio che passa è che il futuro appartenga ai vincenti, così come la facoltà di scelta, mentre agli altri tocca una silenziosa ritirata, per non disturbare il manovratore. Il paradosso è che questa situazione favorisca il centrosinistra, grazie alla scelta suicida dei sovranisti di collocarsi in blocco sul fronte no-vax, nonchè al vuoto pneumatico di classe dirigente a destra.

La domanda che dovremmo porci è se dobbiamo accettare come positivo e incoraggiante un risultato elettorale dovuto ad un restringimento di fatto della cittadinanza, o piuttosto incassare il successo, ma come stimolo a cambiare in profondità lo schema.

La sinistra non può diventare conservatrice nell’Italia di oggi, adeguarsi alla cosiddetta Agenda Draghi, schierarsi dalla parte dei due terzi che hanno ancora qualcosa da difendere e rinunciare a rappresentare gli interessi e le aspirazioni di chi galleggia o affonda. Se lo facesse, tradirebbe se stessa in nome di un successo effimero.

La scelta è semplice: pensare che la sfida si giochi solo nel campo di chi ancora trova una ragione per votare, o aspirare a recuperare al gioco democratico chi oggi se ne sente completamente escluso.

In quest’ultimo caso, sono indispensabili proposte radicali sul piano dell’organizzazione del lavoro, della redistribuzione della ricchezza, dell’accesso ai beni e ai servizi fondamentali, dello stesso modello di sviluppo. Chi si chiede se esista ancora spazio alla sinistra del Pd, provi a partire da qui.

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