Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *

Piazze no-green pass. I valori dell’antifascismo non sono retorica ma radice della democrazia. Il discrimine dell’assalto alla sede nazionale della Cgil «dimenticato» dai no-green pass

Manifestazione no green pass a Milano

Manifestazione no green pass a Milano © Luca Bruno /AP

Per il quattordicesimo sabato consecutivo, manifestazioni cosiddette «no green pass», più o meno partecipate a seconda delle città, hanno rappresentato uno «scenario di contesto» del nostro presente.

Caratterizzato da due elementi: la frammentazione dell’agire pubblico e una china post-ideale, più ancora che post-ideologica.

Il primo si pone come preannuncio della inservibilità politica sul piano materiale di un tale aggregato; Il secondo come ripiegamento sul terreno valoriale che trova nella presenza fascista in seno ai cortei (ultimo il gruppo Do.Ra. a Milano) il più evidente degli esempi.

IL 9 OTTOBRE IN QUESTO senso segna un vero e proprio spartiacque attorno alla questione centrale del nostro paradigma costituzionale dei diritti: l’antifascismo.

Il raid squadrista contro la sede nazionale della Cgil, infatti, ha fatto esplodere tutte le contraddizioni interne sia all’aggregato che contesta la «carta verde» sia in seno ai partiti in Parlamento.

La debolezza culturale e politica del dibattito pubblico in Italia sull’antifascismo sconcerta.

Da un lato si risolve, nel migliore dei casi, nella discussione

Commenta (0 Commenti)

Nicola Fratoianni

 Nicola Fratoianni © LaPresse

Gli editoriali di Norma Rangeri sulle amministrative hanno aperto un dibattito sul ruolo e sul “futuro della sinistra” (qui e quindr). Confesso che mi ero ripromesso di astenermi da qualsiasi discussione avesse come titolo il futuro, l’unità, il cantiere della sinistra. E non per sufficienza o arrogante presunzione.

La sinistra ha impiegato tempo e energie spropositati alla discussione su se stessa. Non c’è dubbio che questo sia dovuto alla sua debolezza o forse dovremmo dire alla sua lunga crisi.

Ma il risultato non cambia. Una discussione in cui inevitabilmente il ripiegamento identitario prende il posto del confronto con la realtà. E dove, immancabilmente, la tendenza alla frantumazione si moltiplica.

Per questo come Sinistra Italiana abbiamo fatto, nel nostro ultimo congresso, una scelta diversa, basata su obiettivi politici e su un’analisi di scenario che non può prescindere dal contesto in cui siamo.

Dopo anni di accese e laceranti discussioni solo sulle alleanze, concentrate sulla distanza dal Pd, occorre misurarsi con l’asfissia di questo discorso che mette in sordina l’analisi dei problemi sociali irrisolti che hanno innestato una crisi di rappresentanza politica (la dimensione impressionante dell’astensionismo).

La situazione sociale del Paese si è aggravata e la Pandemia ha accentuato le difficoltà offrendo spazio a una destra pericolosa, che si insinua nelle periferie, per proporre la guerra fra gli ultimi e i penultimi. La destra nella sua forma attuale costituisce un pericolo concreto, sul terreno sociale come su quello di diritti. La sua cocente sconfitta nelle urne amministrative non va considerata come la soluzione del problema.

L’obiettivo di battere le destre per costruire uno spazio più avanzato di battaglia politica ci riguarda e dentro questa dimensione va costruita una proposta politica con idee e progetti in grado di invertire la tendenza.

Redistribuzione della ricchezza, salario minimo e lotta contro il lavoro povero, investimenti su scuola ricerca e sanità pubbliche, transizione ecologica, riduzione dell’orario di lavoro sono i titoli minimi di una piattaforma possibile.

Noi abbiamo cominciato con la proposta di legge di iniziativa popolare per introdurre una patrimoniale sulle grandi ricchezze. Lo abbiamo fatto dopo il nostro voto di sfiducia al governo Draghi sulla cui natura il nostro giudizio non è cambiato. Un governo conservatore che in questi mesi ha confermato con la maggioranza delle sue scelte che la nostra decisione era giusta.

Anche le indiscrezioni sulla manovra vanno nella direzione sbagliata. Nulla sui salari, una riduzione delle tasse su una minoranza degli italiani non certo povera e una riforma del reddito di cittadinanza che appare restrittiva e peggiorativa. Per non parlare dell’ennesimo rinvio sulla cosiddetta plastic tax.

Ma qui, appunto, si pone la questione che riguarda i prossimi appuntamenti, a cominciare dalle elezioni politiche.

Rassegnarsi all’idea che questo quadro si stabilizzi oppure battersi perché quella che è stata definita da chi aveva scelto di sostenere il governo una “parentesi necessaria”, si chiuda.

Per farlo occorre lavorare ad un campo di alleanze. Con radicalità nell’analisi e nella proposta e con grande sforzo unitario sul terreno delle relazioni politiche.

A meno che non si consideri il Pd come un avversario da mettere sullo stesso piano delle destre: non sono d’accordo e penso che sia una posizione incomprensibile.

Certo che il centrosinistra che abbiamo visto all’opera in diverse configurazioni ha sulle spalle più di una responsabilità. Ma questo non può impedirci di fare della costruzione dell’alleanza il terreno di un confronto dinamico e anche conflittuale.

Sinistra Italiana dunque non si scioglie né intende avviare l’ennesimo cantiere. In questi anni abbiamo contribuito a tenere aperto uno spazio che va allargato e rafforzato.

Consideriamo importante discuterne con quelle esperienze che anche in queste elezioni hanno dimostrato di saper produrre una “eccedenza” a partire dal proprio radicamento e dalla capacità di tenere assieme radicalità e innovazione, anche nei volti di chi ha interpretato questa sfida (è successo a Bologna con lo splendido risultato di Coalizione Civica).

Con queste esperienze e con le forze ecologiste occorre discutere per verificare la possibilità di dare massa critica ad un’opzione capace di contribuire alla costruzione di una coalizione per vincere le elezioni. Per battere le destre. Ma soprattutto per offrire al Paese un’alternativa.

Leggi anche gli interventi di:
Commenta (0 Commenti)

XI Congresso. La prima assise unitaria nella storia trentennale del Prc conferma il segretario uscente e una linea politica di opposizione al governo Draghi. "Chiamiamo a un lavoro comune tutta la sinistra sociale e politica, fuori dal bipolarismo e per un'alternativa ecosocialista".

Maurizio Acerbo, riconfermato segretario del Prc

Maurizio Acerbo, riconfermato segretario del Prc

Sono carichi di lavoro, non cariche”. E’ azzeccata l’osservazione di Stefano Galieni al termine dell’undicesimo congresso del Prc, la prima assise unitaria nella storia trentennale del partito, chiusa con la conferma di Maurizio Acerbo come segretario nazionale e di Vito Meloni come tesoriere. Per chi continua a credere nella Rifondazione comunista, fra i 10mila iscritti e i 50mila sostenitori con il 2×1000, sono infatti più gli oneri che gli onori, vista la sempre difficile situazione economica di un partito con pochi rappresentanti istituzionali negli enti locali, e nessuno in Parlamento da anni.
Eppure anche in un contesto a dir poco complicato qualche piccola notizia confortante può arrivare, come l’elezione domenica al ballottaggio del dirigente siciliano Antonio Palumbo a nuovo sindaco di Favara nell’agrigentino. Al termine peraltro di una tornata amministrativa giudicata da Acerbo con parole chiare: “Per noi che abbiamo cercato di costruire liste e coalizioni di alternativa ai due poli, e ai partiti che sostengono il governo Draghi, la sconfitta è stata netta”.
Comunque le linea politica validata dai 250 delegati al congresso non cambia: “Di fronte all’assurda frantumazione a sinistra in Italia – osserva Acerbo – noi vogliamo essere un collante, lavorando con umiltà per la convergenza nelle lotte, anche sul terreno politico” Di qui la proposta “a tutta la sinistra sociale e politica, alle tante vertenze e forme diverse di impegno, di immaginare e costruire insieme l’opposizione al governo Draghi”.
L’obiettivo resta quello di un lavoro in comune: “Un lavoro per un progetto di alternativa anticapitalista, ambientalista, femminista, pacifista e antirazzista al centrodestra e al Pd, che condividono da anni le scelte di fondo che hanno reso il paese più ingiusto. Perché il miglior antidoto contro la destra e i rigurgiti fascisti è la ricostruzione di una forza autonoma delle classi lavoratrici, dell’ecologia e della pace, che si batta per l’attuazione della Costituzione, i diritti di tutte e tutti, e il rilancio dello stato sociale. Insomma un’alternativa ecosocialista”.
La presenza di Rifondazione nella Sinistra Europea, di cui è stata cofondatrice, e la consolidata, storica attenzione alle forze anticapitaliste ai quattro angoli del pianeta, hanno fatto sì che al congresso siano intervenuti, in presenza o da remoto, esponenti politici continentali (Heinz Bierbaum, Manon Aubry, il ministro spagnolo Alberto Garzon) ed extraeuropei (Rafael Correa, Devris Cimen, l’ambasciatore cubano Josè Carlos Rodriguez Ruiz), oltre ai portavoce di movimenti, partiti e sindacati italiani che vedono ancora nel Prc una realtà organizzata e con una presenza costante sul territorio.
Quanto al “nodo”, evidenziato in una serie di interventi, di un metodo di lavoro innovativo, per coinvolgere quella parte di società che si sente di sinistra, ma che dalla sinistra è stata spesso e volentieri delusa, la conferenza di organizzazione del prossimo anno sarà incentrata proprio su questi temi.

Commenta (0 Commenti)

A Chianciano. Che fare, dopo che da tredici anni le forze politiche a sinistra del Pd, sia in alleanza che in opposizione al «partito di centro», non hanno mai superato il 4 per cento

Che fare, dopo che da tredici lunghi anni le forze politiche alla sinistra del Pd, sia in alleanza che in opposizione al «partito di centro che guarda a sinistra» (recentissimo copyright di Enrico Letta), tranne una volta (2014) non hanno mai superato il 4% nelle due consultazioni nazionali, cioè le politiche e le europee?

L’interrogativo agita anche il partito della Rifondazione comunista, che si ritrova a Chianciano Terme per il suo undicesimo congresso piuttosto ammaccato per l’esito dell’ultima tornata amministrativa. Dove ai pochi successi, come l’esempio unitario calabrese con Luigi De Magistris citato da Maurizio Acerbo quale percorso virtuoso, o la lista Sinistra per Savona che ha contribuito non poco alla vittoria del neo sindaco Marco Russo a capo di un centrosinistra larghissimo, si sono accompagnate numerose sconfitte, unite a una certa sofferenza per alcune supposte «rigidità» dei vertici. E non è certo di consolazione vedere che anche i cugini di Sinistra italiana e Articolo Uno, in genere alleati del Pd, sul piano della rappresentanza non riescono a trovare sintonia politica con l’elettorato. Restato a casa per il 45%. E per il 40% indeciso, secondo i più accreditati sondaggisti, su cosa votare alle future elezioni politiche del 2023.

La risposta che cerca di dare il congresso, che è unitario ma al tempo stesso sta chiamando in questa tre giorni di Chianciano a un ricambio generazionale – tema spesso delicato ma imprescindibile per un partito che oggi ha solo 10mila iscritti ma anche 50mila sostenitori con il 2×1000 – non riguarda il merito. Sul punto Rifondazione non solo ribadisce una motivata opposizione al «governo dei migliori» guidato da Mario Draghi. Sposa anche le analisi pubblicate sul manifesto il mese scorso da Tommaso Nencioni e da Paolo Favilli, solo per fare due esempi.

Quel che invece sembra latitare è la traduzione sul territorio di un metodo di lavoro innovativo, anche tecnologicamente. E in grado di portare, passo dopo passo, al progressivo coinvolgimento di quella parte di società che si sente di sinistra, ma che dalla sinistra è stata spesso e volentieri delusa, fin dai tempi dell’Unione prodiana. A tal punto da abbandonare la contesa elettorale. O riversarsi, come successo negli ultimi dieci anni, su una forza populista come il M5S.

Sull’argomento il giovane Simone Di Cesare, under 30 che non è delegato ma è venuto ad ascoltare e «sentire» gli umori del congresso, la vede così: «Secondo me è arrivato il momento di ‘rompere’ alcune ritualità che abbiamo. Ad esempio, quando si parla di riunire la sinistra si rischia di parlare di come riunire il pochissimo che è rimasto, quasi il niente».

Niente scorciatoie organizzativo-elettorali dunque, che fin dai tempi della Sinistra Arcobaleno hanno mostrato le loro debolezze. «Piuttosto – osserva la delegata milanese Silvia Conca, poco più che trentenne – sarebbe necessario un lavoro comune, fuori dalle dinamiche elettorali, per cercare insieme di ricostruire una coscienza di classe, in una società che subisce da molti anni la vittoria del capitale sul lavoro e che sembra essersi rassegnata a un eterno presente, senza la possibilità di un’alternativa di società. Poi tutte le forze di sinistra sono in difficoltà anche perché continuano a scontare le ruggini del passato. E, in questo senso, un ricambio generazionale potrebbe essere utile». «Perché – aggiunge il delegato fiorentino Andrea Malpezzi – se andiamo male non può essere sempre colpa degli altri».

Però potrebbe essere utile, annota il cronista, anche un pur minimo interesse dei media, che invece disertano il congresso nazionale di Rifondazione comunista, a trent’anni dalla nascita del partito, non considerandolo evidentemente come un avvenimento politico di un qualche interesse.

Non una notizia, non un inviato, non una telecamera, con la lodevole eccezione del manifesto. Allora torna alla mente il congresso di Sinistra italiana a Rimini, quando gli inviati e le tv c’erano. Ma non ripresero né scrissero molto. Forse perché in quell’assise le delegate e i delegati sancirono una rottura politica, rientrata qualche mese dopo in segreteria, con il centrosinistra dell’epoca.

Commenta (0 Commenti)

Piazza Maggiore a Bologna

Il risultato elettorale potrà pure soddisfare il centro-sinistra imperniato sul Pd, ma ciò non toglie che sia stata una «vittoria a metà», come ha titolato questo giornale il 5 ottobre. L’astensionismo record ha penalizzato i 5 Stelle, la destra e anche la sinistra, rivelando così il rovescio della medaglia di quel voto.

E la sinistra, tanto quella «governativa» quanto quella «alternativa», ha poco di cui andare fiera. I numeri parlano chiaro.

Bologna, dove i votanti sono stati 22mila in meno di cinque anni fa, la lista di sinistra di Coalizione civica, che sosteneva il candidato Pd Lepore che pure ha vinto al primo turno, ha preso 10.722 voti (il 7.3%). Nel 2016, in solitaria opposizione, ne aveva avuti 12.017 (il 7.1%). Le tre liste «bonsai» della sinistra ottengono insieme appena 6.096 voti, tre volte tanti i 1.869 del 2016 (ma solo 4.227 in più), forse raccogliendo qualcuno degli elettori di sinistra delusi dell’abbraccio a Lepore. Pd e liste «satelliti» si fermano a 76.613 voti (appena 4.289 in più) e i Verdi a 4.113 (1.538 in più). A Bologna, quindi, i 23mila voti persi dai 5 Stelle (ne avevano 28mila, oggi meno di 5mila) sono stati compensati dai moderati di centro confluiti sul centro-sinistra (la destra perde 14mila voti), il «campo largo» non pare stendersi a sinistra, mentre la performance di Coalizione civica e delle altre liste bonsai resta deludente.

Roma, la sinistra, con un suo candidato, aveva ottenuto 52.780 voti, mentre l’unica altra lista alla sua sinistra si era fermata a 9.917. Oggi, nonostante il crollo della candidata 5 Stelle e con 220mila astenuti in più, la lista Sinistra civica ecologista (a sostegno del candidato Pd) ne prende 20.493, mentre le liste bonsai «alternative» (ben 5), ne ottengono 17.472. È evidente come, pur nel frastagliato panorama elettorale romano, la sinistra arranchi e perda consensi (24.732 nel complesso), comunque la si giri.

Napoli, invece, in un contesto meno strutturato (in termini partitici), la lista Napoli solidale sinistra a sostegno di Manfredi prende 12.596 voti, mentre le altre liste a sinistra (tre) ne raccolgono ben 17.732. Nel 2016, con De Magistris che poi si affermò (e aveva una sua lista), la lista Napoli in comune a sinistra prese 19.945 voti, mentre le due liste bonsai di sinistra si fermarono a mille (è la sinistra «governativa» in questo caso a perdere a favore di quella alternativa).

Milano, nel 2016, Sinistra per Milano, a sostegno di Sala, aveva ottenuto 19.281 voti, contro i 19.743 delle altre di sinistra. Oggi, Sala «fa il pieno» con appena i 7.012 voti di Sinistra per Sala Milano unita, mentre le quattro liste bonsai ne mettono insieme 5.770. In totale, meno della metà.

Torino, invece, Sinistra per la città aveva appoggiato il candidato Pd al primo turno, ottenendo 7.253 voti, mentre il candidato della sinistra, appoggiato da tre liste, ne aveva presi 13.346 e le altre due liste bonsai ne avevano messi insieme 3.807. Oggi, nonostante la debacle 5 Stelle, e la perdita di voti del centro-sinistra, Sinistra ecologista arriva a 10.807 voti, mentre le altre (sei) liste bonsai arrivano, separate, a 9.372. Anche qui, una perdita secca.

In sostanza, nonostante in queste cinque città il Pd e il centro-sinistra si affermino in termini percentuali, pur perdendo voti, e nonostante i 5 Stelle vadano ovunque liquefacendosi, la sinistra arranca, per quota e numero dei voti.

Se l’astensionismo è aumentato sarà pure perché la destra non aveva candidati «credibili» e sarà anche perché la confluenza dei 5 Stelle nell’alveo del centro-sinistra non ha più corrisposto all’originale motivazione di quel consenso, ma il fatto è che né il Pd, né tantomeno la sinistra governista e d’opposizione paiono intercettare uno solo dei voti non espressi dai milioni di elettori «delusi».

Non è solo il frazionismo del «piccolo mondo antico», lamentato da Norma Rangeri, a penalizzare la sinistra.

È, evidentemente, il suo stesso messaggio, quale che sia, a non trovare più ascolto. Certo, ci sono stati casi interessanti, come quello di Trieste o Savona, ma anche quello di Bologna – portato sugli scudi – appare mistificante. I ceti che avevano abbandonato le sinistre in favore dei 5 Stelle – quei precari e giovani adulti delle periferie urbane – si sono definitivamente astenuti, non attratti né dal «campo largo» del centro-sinistra – invero allargato, ma al centro – né da quello ormai incolto della sinistra «antagonista» (sulla carta).

Così, la sinistra svanisce, stretta tra la sua adesione al rigorismo salubrista, padronale e classista di Draghi e i richiami alla «equità» e alla «conversione» ecologica, mentre il Paese che soffre, cui pure vorrebbe rivolgersi, si allontana, sfiancato da una pandemia che ha acuito le disuguaglianze, diviso tra chi è «protetto» e chi non ha più fiducia in nulla, escluso. Un’Italia spaesata, impoverita, dimenticata dalla politica sdegnante e che emerge solo nell’esasperazione, sopravvive accanto a quell’altra, solidaristica e «attiva» ma ormai totalmente disillusa da una sinistra che da una più di una generazione ha dissipato i suoi profeti e perso ogni progetto di una società diversa.

Commenta (0 Commenti)

L’idea-forza della manovra di bilancio, che non a caso incontra il favore incondizionato del presidente di Confindustria Bonomi, è la crescita economica e della produttività. Con buona pace del clima, crescita ed efficienza hanno la precedenza. La transizione ecologica è ridotta al mero adeguamento tecnologico del settore industriale e, se si può, all’uso di fonti energetiche meno inquinanti. Con i soldi del Pnrr, naturalmente.

Il punto vero è che, se non cambiano i paradigmi produttivi e i modelli di consumo, la sostenibilità dello sviluppo si volatilizza, diventa una finzione.

Quando Giorgio Parisi, premio Nobel per la fisica, afferma che «il Pil misura la quantità dello sviluppo, non la sua qualità», le sue parole suonano, dunque, come una critica al governo Draghi. Il prof. Parisi nel suo recente intervento alla conferenza sul clima a Montecitorio ha voluto confutare l’opinione, purtroppo diffusa, secondo cui crescita del Pil e innovazioni tecnologiche siano di per sé sufficienti a vincere la grande sfida del cambiamento climatico. Ci ha ricordato quanto sia importante affilare le «armi della critica» per contrastare un approccio superficiale e approssimativo ai problemi.

E’ emblematica in questo senso la bagarre del leader della Lega sulla revisione del catasto, con il risultato di ritardare e svuotare di contenuti la stessa riforma fiscale.

Il catasto ha un legame non solo con il fisco ma anche, più forte di quanto non si pensi, con la questione dell’ambiente. La sua inefficienza e l’inaffidabilità dei suoi dati costituiscono la base degli affari sulle compravendite degli immobili. Persino la gestione dei condoni edilizi e lo stato disastroso delle nostre estese periferie hanno una relazione, diretta e indiretta, con il catasto.

I due milioni di immobili “fantasma”, non accatastati, stanno lì a dimostrare che i condoni e le sanatorie incentivano gli abusi, invece di frenarli. E quando situazioni di degrado urbanistico e di dissesto idrogeologico sfuggono, colpevolmente, alle mappe catastali e al controllo delle istituzioni, l’impatto di eventi naturali estremi, come frane, alluvioni e inondazioni, sul territorio diventa particolarmente devastante.

Quando Matteo Salvini alza barricate contro la revisione degli estimi, agitando lo spauracchio di una patrimoniale sulla casa, fa demagogia pura. I lavoratori e il ceto medio non hanno nulla da temere. Hanno l’esenzione dell’Imu e nessuno gliela toglie. Il «capitano» leghista evita, invece, di parlare degli alti livelli di elusione e di evasione, che rendono infimo e insignificante il contributo dei grandi patrimoni immobiliari al gettito fiscale. L’obiettivo vero della destra è impedire una riforma che sposti il carico fiscale dal lavoro alla rendita.

Ma tant’è, la destra fa il suo mestiere… Spetta alla sinistra dire forte e chiaro che è giusto aumentare le tasse sui patrimoni e sui “palazzinari”. Sarebbe il modo per alleviare il peso fiscale su chi vive del proprio lavoro e paga faticosamente l’affitto o il mutuo.

L’aggiornamento del catasto farebbe bene, allora, sia all’ambiente che ci circonda sia all’equità fiscale. La cosa incomprensibile è la decisione del governo di sterilizzare la riforma. Declassata a “ricognizione”. Ma la fotografia dei terreni e dei fabbricati (anche la più precisa, fatta con l’ausilio delle moderne tecnologie) sarebbe inutile senza il coinvolgimento degli amministratori comunali.

Nella legge delega non si parla di decentramento comunale del catasto. Eppure solo attribuendo agli enti locali le funzioni catastali e parte delle relative imposte, sarebbe possibile esercitare un efficace controllo democratico sul territorio e, contemporaneamente, aumentare in modo significativo le entrate. Basterebbe intercettare le transazioni milionarie, realizzate spesso grazie ai processi di riqualificazione urbana, e tassarne le plusvalenze. Si rimedierebbe così al paradosso per cui nelle nostre città ricchezza e lusso (privati) coesistono con il degrado dei beni comuni e dei servizi collettivi.

Con il supporto del catasto, infine, le amministrazioni delle città, piccole e grandi, potrebbero dar vita a piani dettagliati di cura, risanamento e messa in sicurezza dei loro territori. Mi spingerei a dire che in Italia la realizzazione di un piano d’investimenti nella «manutenzione», alternativo alla «crescita» urbana e alla cementificazione incontrollata del suolo, sarebbe il miglior viatico a una politica di transizione ecologica. E sarebbe coerente con l’Ue, che raccomanda ai paesi membri una politica di rigoroso contenimento del consumo di suolo, ritenuto la principale minaccia alla conservazione delle risorse ambientali del nostro continente.

Commenta (0 Commenti)