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L’idea-forza della manovra di bilancio, che non a caso incontra il favore incondizionato del presidente di Confindustria Bonomi, è la crescita economica e della produttività. Con buona pace del clima, crescita ed efficienza hanno la precedenza. La transizione ecologica è ridotta al mero adeguamento tecnologico del settore industriale e, se si può, all’uso di fonti energetiche meno inquinanti. Con i soldi del Pnrr, naturalmente.

Il punto vero è che, se non cambiano i paradigmi produttivi e i modelli di consumo, la sostenibilità dello sviluppo si volatilizza, diventa una finzione.

Quando Giorgio Parisi, premio Nobel per la fisica, afferma che «il Pil misura la quantità dello sviluppo, non la sua qualità», le sue parole suonano, dunque, come una critica al governo Draghi. Il prof. Parisi nel suo recente intervento alla conferenza sul clima a Montecitorio ha voluto confutare l’opinione, purtroppo diffusa, secondo cui crescita del Pil e innovazioni tecnologiche siano di per sé sufficienti a vincere la grande sfida del cambiamento climatico. Ci ha ricordato quanto sia importante affilare le «armi della critica» per contrastare un approccio superficiale e approssimativo ai problemi.

E’ emblematica in questo senso la bagarre del leader della Lega sulla revisione del catasto, con il risultato di ritardare e svuotare di contenuti la stessa riforma fiscale.

Il catasto ha un legame non solo con il fisco ma anche, più forte di quanto non si pensi, con la questione dell’ambiente. La sua inefficienza e l’inaffidabilità dei suoi dati costituiscono la base degli affari sulle compravendite degli immobili. Persino la gestione dei condoni edilizi e lo stato disastroso delle nostre estese periferie hanno una relazione, diretta e indiretta, con il catasto.

I due milioni di immobili “fantasma”, non accatastati, stanno lì a dimostrare che i condoni e le sanatorie incentivano gli abusi, invece di frenarli. E quando situazioni di degrado urbanistico e di dissesto idrogeologico sfuggono, colpevolmente, alle mappe catastali e al controllo delle istituzioni, l’impatto di eventi naturali estremi, come frane, alluvioni e inondazioni, sul territorio diventa particolarmente devastante.

Quando Matteo Salvini alza barricate contro la revisione degli estimi, agitando lo spauracchio di una patrimoniale sulla casa, fa demagogia pura. I lavoratori e il ceto medio non hanno nulla da temere. Hanno l’esenzione dell’Imu e nessuno gliela toglie. Il «capitano» leghista evita, invece, di parlare degli alti livelli di elusione e di evasione, che rendono infimo e insignificante il contributo dei grandi patrimoni immobiliari al gettito fiscale. L’obiettivo vero della destra è impedire una riforma che sposti il carico fiscale dal lavoro alla rendita.

Ma tant’è, la destra fa il suo mestiere… Spetta alla sinistra dire forte e chiaro che è giusto aumentare le tasse sui patrimoni e sui “palazzinari”. Sarebbe il modo per alleviare il peso fiscale su chi vive del proprio lavoro e paga faticosamente l’affitto o il mutuo.

L’aggiornamento del catasto farebbe bene, allora, sia all’ambiente che ci circonda sia all’equità fiscale. La cosa incomprensibile è la decisione del governo di sterilizzare la riforma. Declassata a “ricognizione”. Ma la fotografia dei terreni e dei fabbricati (anche la più precisa, fatta con l’ausilio delle moderne tecnologie) sarebbe inutile senza il coinvolgimento degli amministratori comunali.

Nella legge delega non si parla di decentramento comunale del catasto. Eppure solo attribuendo agli enti locali le funzioni catastali e parte delle relative imposte, sarebbe possibile esercitare un efficace controllo democratico sul territorio e, contemporaneamente, aumentare in modo significativo le entrate. Basterebbe intercettare le transazioni milionarie, realizzate spesso grazie ai processi di riqualificazione urbana, e tassarne le plusvalenze. Si rimedierebbe così al paradosso per cui nelle nostre città ricchezza e lusso (privati) coesistono con il degrado dei beni comuni e dei servizi collettivi.

Con il supporto del catasto, infine, le amministrazioni delle città, piccole e grandi, potrebbero dar vita a piani dettagliati di cura, risanamento e messa in sicurezza dei loro territori. Mi spingerei a dire che in Italia la realizzazione di un piano d’investimenti nella «manutenzione», alternativo alla «crescita» urbana e alla cementificazione incontrollata del suolo, sarebbe il miglior viatico a una politica di transizione ecologica. E sarebbe coerente con l’Ue, che raccomanda ai paesi membri una politica di rigoroso contenimento del consumo di suolo, ritenuto la principale minaccia alla conservazione delle risorse ambientali del nostro continente.

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Manovra. La manovra economica di Draghi all’esame della Commissione Ue, dove da una parte Dombroskis rilancia l’intangibilità del fiscal compact e Gentiloni si mostra più possibilista

Bruxelles, Dombrovskis e Gentiloni

Bruxelles, Dombrovskis e Gentiloni  © Ap

Dopo una discussione alquanto sofferta il Consiglio dei ministri ha approvato «all’unanimità» il Documento programmatico di bilancio che traccia i confini della manovra e che notte tempo ha preso la strada per Bruxelles per la prevista supervisione. Da quel che si sa si tratta di una manovra di almeno 23 miliardi finanziata in buona parte dalla crescita del Pil. La Lega ha espresso una riserva politica sulle pensioni e Draghi si è fin qui limitato a prenderne atto. Si sa che i soldi per una riforma fiscale ci sarebbero, circa 9 miliardi, ma la legge delega volutamente generica partorita dal governo, una «scatola di principi», impedisce una valutazione nel dettaglio, anche se è già evidente che la ricerca dell’efficienza economica e del consenso dei mitici ceti medi prevale su quella della giustizia fiscale.

Viene ridotta la postazione per la riforma degli ammortizzatori sociali da 4-5 miliardi a 3, anche se pare venga incrementata quella per il reddito di cittadinanza, così impropriamente chiamato. In sostanza si conferma il quadro delineato dalla Nadef. Di fronte al bivio, in sé non nuovo, se tirare il freno della spesa pubblica o al contrario giocare con coraggio la sfida di un incremento degli investimenti e dei consumi in campi innovativi, come richiederebbe la conversione ecologica dell’economia, la scelta del governo va nella prima direzione. Poco tempo fa l’economista Nouriel Roubini, che seppe prevedere la grande recessione del 2008, aveva lanciato l’allarme sul perverso annodarsi di stagnazione e di aumento dell’inflazione, tristemente nota come stagflazione (di cui ci ha parlato su queste pagine anche Tonino Perna). Questo quadro dovrebbe consigliare una politica economica ben più coraggiosa. Invece, anziché confermare l’11,8% di deficit su Pil previsto in aprile, la Nadef si compiace di prospettare una riduzione al 9,4%, prevedendo sì una politica di bilancio espansiva fino al 2024, dopo di che si punterebbe però alla «riduzione del disavanzo strutturale e a ricondurre il rapporto debito/Pil al livello pre-crisi entro il 2030», come scrive il ministro Franco in premessa al documento governativo. Eppure solo per recuperare sull’ultimo ventennio perduto bisognerebbe avanzare dopo la fine dell’intervento del Pnrr nel 2026 del 3% ogni anno. Il rimbalzo non basta.

Per farlo bisognerebbe dare ben altro impulso alla spesa pubblica ponendo le basi per un nuovo modello sociale ed economico. Soprattutto in un quadro mondiale ove la prospettiva di una stagnazione, dopo il rimbalzo, accompagnata da una ripresa di inflazione, si fa in effetti sempre più probabile, come potrebbero segnalare l’appiattimento della curva dei tassi di rendimento tra titoli a breve e a lunga durata negli Usa, e non solo, ma anche l’improvvisa frenata della crescita cinese. È evidente che le decisioni italiane sono e saranno condizionate dall’esito del confronto europeo sul Patto di stabilità. Dombrovskis ha dichiarato che il Patto «ha funzionato bene» e che la flessibilità di cui è già dotato ha retto la tempesta, per cui non servirebbe una modifica legislativa, ma «una comunicazione interpretativa». Nelle stesse ore Gentiloni affermava che il Patto «ha ottenuto risultati ambivalenti» e dunque richiederebbe aggiustamenti pur senza cambiamento dei Trattati e delle regole fondamentali, malgrado l’entità degli investimenti necessari. Poi i due si sono accordati per una dichiarazione congiunta anodina, sterilizzando lo scontro tra falchi e colombe.

Le principali ipotesi di modifica del Patto, tra quelle ammesse al tavolo di partenza, sono sostanzialmente tre: una revisione dell’entità annua della riduzione del debito sopra il 60%; una sorta di patto à la carte, proposto tra gli altri da Jean-Paul Fitoussi e benvisto dal ministro francese Bruno La Maire, per cui ogni paese, sulla base di una certificazione di un organismo indipendente (come il nostro Ufficio parlamentare di bilancio) stabilirebbe un proprio piano di rientro dall’extradebito, sottoposto all’approvazione della Commissione e del Consiglio europei; una revisione, considerata la più improbabile, del tetto del 60% del rapporto debito/Pil, vista la sua inadeguatezza, pur senza modificare i Trattati ma solo i protocolli, con l’unanimità degli Stati, ma saltando la ratifica dei parlamenti nazionali.

Su questa discussione, già troppo timida in partenza, peserà la formazione e il programma del nuovo governo tedesco. Non c’è da stare allegri. Scholz ha recentemente detto che il Patto «sarà utile anche nel futuro» e se il leader dei liberali Lindner diventerà ministro delle finanze in una «coalizione semaforo» c’è da aspettarsi un ulteriore irrigidimento.
Il dibattito intergovernativo nell’Unione appare arretrato non solo rispetto all’andamento dell’economia reale, ma persino rispetto alle posizioni di personalità non ascrivibili al credo keynesiano. L’ex ministro Giovanni Tria è stato netto nel dire, ora che ha le mani libere, che il fiscal compact era sbagliato fin dall’inizio. Per Klaus Regling, braccio destro di Theo Waigel il «padre dell’Euro», ora direttore del famigerato Mes, la regola della riduzione dell’extradebito al 60% nel giro di venti anni (che costringerebbe l’Italia a surplus di bilancio del 6/7% annui) è del tutto irrealizzabile e insensata. Dietro allo scontro su cifre e algoritmi, si nasconde il grande tema della conversione ecologica dell’economia.

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Sistema Pensioni. La nostra previdenza è robusta nel medio e nel lungo periodo, e i margini di spesa vanno usati equamente contro le diseguaglianze che quota 102 e 104 accrescono

foto di Angelo Carconi/Ansa

foto di Angelo Carconi/Ansa

Puntuali come tutte le volte che si riaccende il dibattito sulle pensioni, negli ultimi giorni sono apparsi sulla stampa e alcune testate online contributi che hanno puntato la lente sui rischi di insostenibilità per il sistema pensionistico italiano. Per il più esplicito tra questi, apparso sul Sole 24 Ore, pare non esserci scampo: “Pensioni, Italia bocciata in sostenibilità”. A sostegno di questa tesi, l’autore cita i risultati di un recente rapporto comparato, il Global Pension Index 2021 in cui l’Italia figura addirittura ultima, sui circa quaranta paesi analizzati, per sostenibilità economico-finanziaria del sistema pensionistico.

Chiariamo subito: le cose non stanno così. Il rapporto, curato da Mercer – una delle più grosse società finanziarie statunitensi – in collaborazione con altri partner, arriva a questo risultato perché include nella dimensione della sostenibilità alcuni fattori che non riguardano strettamente il sistema pensionistico, e che possono avere effetti più o meno negativi sulla spesa a seconda delle caratteristiche di quest’ultimo. Ad esempio, il rapporto non considera che la ridotta crescita economica – che ha effetti generalmente deleteri sui sistemi pensionistici a ripartizione come quello italiano – è però “neutralizzata” in Italia dai meccanismi di aggiustamento automatico della spesa, incardinati nel metodo di calcolo contributivo: revisione automatica dei coefficienti di calcolo della pensione e rivalutazione dei contributi in base alla crescita media quinquennale del Pil, oltre all’incremento automatico dell’età pensionabile nel caso di aumenti dell’aspettativa di vita.
Il tema sostenibilità, tuttavia, riemerge sempre nel dibattito previdenziale italiano. Vale dunque la pena sgombrare il campo da equivoci e cattive interpretazioni, analizzando i dati ufficiali in prospettiva comparata, sia con riferimento tanto al livello di spesa pensionistica sia alla tendenza della stessa.

I dati Eurostat più recenti mostrano che l’Italia ha la seconda spesa pensionistica più elevata d’Europa (dopo la Grecia), pari al 15,4% del Pil e quasi quattro punti percentuali in più rispetto alla media europea (11,6%). Tuttavia, nel dibattito italiano viene spesso argomentato – in specie dal fronte sindacale – che lo scarto con la media Ue diminuirebbe sensibilmente se si tenesse conto che la spesa pensionistica italiana include anche prestazioni a carattere assistenziale. L’annosa questione della separazione tra assistenza e previdenza è però mal posta: anche negli altri paesi europei la spesa pensionistica include prestazioni previdenziali-assicurative assieme a quelle assistenziali (le pensioni sociali) e a quelle rivolte a tutti i residenti (le pensioni cosiddette “di base”, come nel caso olandese). Infatti, considerando soltanto le pensioni previdenziali-assicurative la posizione dell’Italia addirittura peggiora, con una spesa pari al 12,3% del Pil – la più elevata d’Europa – rispetto all’8,5% nell’Ue.

Dobbiamo perciò concludere che i timori circa la sostenibilità sono effettivamente fondati? No, per quattro ragioni fondamentali. Primo, lo scarto tra la spesa italiana e media Ue è previsto ampliarsi lievemente (di circa un punto di Pil) fino al 2040, per poi ridursi sensibilmente a soli 2 punti percentuali nel 2060 – per effetto dei meccanismi del metodo contributivo delineati sopra e del superamento della generazione del baby boom. Secondo, il recente Rapporto annuale Inps mostra un quadro parzialmente differente – e più favorevole – prevendendo una diminuzione della spesa per pensioni dal 16,2% del 2020 al 14,6% nel 2027. Terzo, altrettanto importante, il livello di spesa pensionistica diminuisce sensibilmente – e la posizione relativa dell’Italia migliora di conseguenza – se si considera la spesa netta invece di quella lorda: la spesa italiana si ferma in questo caso al 12,5% del Pil, inferiore alle Grecia (13,8%) e anche alla Francia (12,8%). Che conclusioni trarre, dunque? Dati e previsioni alla mano, il sistema pensionistico italiano appare robusto sotto il profilo della sostenibilità economico-finanziaria, nel breve e ancor più nel medio lungo periodo.

Piuttosto, i “nervi scoperti” del sistema sono evidenti rispetto all’adeguatezza e, soprattutto, all’equità. Pertanto, nel disegnare riforme che vadano ad aggredire le marcate criticità lungo queste due dimensioni, è cruciale che i margini di spesa disponibili vengano efficacemente sfruttati, calibrando le misure sulle classi e i gruppi sociali maggiormente svantaggiati – categorie professionali con minore aspettativa di vita, disoccupati di lungo periodo, individui con carriere frammentate e basse retribuzioni. Evitando invece provvedimenti che, come “Quota 100” e le attuali proposte di “Quota 102/104”, approfondirebbero ulteriormente le disuguaglianze e i profili di regressività nell’accesso al pensionamento.

*Professore ordinario, Università di Milano

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Previdenza Precaria. Pensioni, sindacati contro l’idea del governo: platea minuscola, serve invece flessibilità in uscita da 62 anni e assegno di garanzia. L’inventore è sempre Alberto Brambilla. Con i 7 miliardi non usati possibile una riforma sistemica

Un lavoratore edile: per lui Quota 102 è un miraggio  © Foto LaPresse

Quando lo scorso 11 aprile il Corriere lanciò la proposta «Quota 102» nessuno si sarebbe aspettato che sei mesi dopo Mario Draghi l’avrebbe usata per quietare la Lega, orfana del suo cavallo di battaglia.

 

IL DEMIURGO DELL’ENNESIMO obbrobrio pensionistico è lo stesso di Quota 100: Alberto Brambilla. Il presidente di «Itinerari previdenziali», che ha sempre puntato alla presidenza dell’Inps, nel 2018 si inventò la misura spot che la Lega utilizzò per sostenere – in totale malafede – di aver «cancellato la riforma Fornero». In realtà il governo gialloverde del «cambiamento» non cambiò alcunché: la Fornero tornerà quasi totalmente dal primo gennaio riportando l’età di pensione a 67 anni – la più alta d’Europa – proprio a causa della decisione di fare di Quota 100 un «esperimento triennale» che si è rivelato un fragoroso flop. Doveva mandare in pensione un milione di persone – di cui metà doveva essere sostituita al lavoro da giovani – e invece ne ha mandati meno di un terzo. Come mostra la tabella dell’Osservatorio Previdenza della Cgil guidato da Ezio Cigna, doveva costare 21 miliardi e invece il «basso tiraggio» ne ha fatti risparmiare quasi 7, già utilizzati dai governi Conte e Draghi per finanziare altri comparti di bilancio, a partire dal Reddito di cittadinanza. Un grande classico degli interventi sulle pensioni: basti pensare che la riforma Fornero del 2011 ha prodotto (e produrrà) risparmi per oltre 20 miliardi, finiti a riduzione del debito pubblico.

ALLA FACCIA DELL’OCSE che anche ieri sosteneva come «l’Italia spende per pensioni molto di più rispetto agli altri paesi Ocse e questo penalizza i giovani», l’incidenza delle pensioni sul Pil è calata fino al 2018 e il principale effetto del tormentone Quota 102 è stato quello di far sparire dal dibattito la «pensione contributiva di garanzia», proposta che permetterebbe – con un costo inferiore e spalmato su molti più anni – a giovani e precari di avere un assegno dignitoso, riempiendo i buchi contributivi delle generazioni che hanno subito lo tsunami precarietà in questi decenni.

QUOTA 102 NEL 2022 e Quota 104 nel 2024 saranno un altro flop. Draghi e il ministro Daniele Franco ne sono totalmente consapevoli e c’è da scommettere che stiano già valutando su quale altro capitolo di bilancio dirottare i risparmi della copertura, stimati nel Documento programmatico di bilancio in 601 milioni nel 2022; 451 milioni nel 2023; 507 milioni nel 2024.

Se con Quota 100 (62 anni di età e 38 di contributi) sono sostanzialmente stati premiati i dipendenti pubblici uomini, la platea per Quota 102 (64 anni di età e 38 di contributi o 63 e 39) sarà ancora più ristretta, fatta principalmente di dirigenti pubblici con alti stipendi, non certo di lavoratori e ancor di meno lavoratrici con salari bassi, pochi anni di contributi e lavori pesanti.

ED È PER QUESTO CHE IERI i sindacati – per molti disinformati commentatori a favore – hanno criticato aspramente la misura. «L’ipotesi di Quota 102 o 104 sarebbe una vera e propria presa in giro perché nessun lavoratore e nessuna lavoratrice potrebbe accedere a quella misura», attacca il segretario confederale della Cgil Roberto Ghiselli. «Quota 102 è una beffa; unita a quota 104 fra due anni diventa un vero e proprio sfottò per milioni di lavoratori – gli dà man forte il segretario confederale della Uil Domenico Proietti – . La platea interessata da questa “geniale idea”, infatti, è di poche migliaia di persone che hanno già avuto la possibilità di andare in pensione con Quota 100. È invece necessario introdurre una flessibilità di accesso alla pensione diffusa intorno a 62 anni – conclude -, utilizzando l’ottimo lavoro svolto dalla commissione istituzionale sui lavori gravosi» che ha individuato 27 nuove mansioni da includere nell’Ape social. «L’unico modo serio di parlare di pensioni è quello di aprire un vero tavolo di confronto con il sindacato: questo ci aspetteremmo dal governo», chiosa Ignazio Ganga della Cisl.

IL GRANDE RIMOSSO dell’allucinante dibattito in corso sulle pensioni è l’effetto sociale della riforma Fornero a partire dagli esodati ancora rimasti, costati già ai vari governi 12 miliardi per le varie salvaguardie che ne hanno mandati in (meritata) pensione la non totalità. Martedì il comunicato di palazzo Chigi e ieri il testo del Documento di bilancio parlavano di «interventi in materia pensionistica per assicurare un graduale ed equilibrato passaggio verso il regime ordinario». Dunque il governo pur di non citare la riforma Fornero già la considera qualcosa di inciso nella costituzione materiale del paese. Figuriamoci se vuole modificarla.

 

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Dopo l'aggressione alla Cgil. Il balletto delle mozioni al senato. Destra e centrosinistra non si votano contro. Passa un ordine del giorno che impegna il governo «a valutare le modalità per dare seguito al dettato costituzionale»

Forza nuova: Giuliano Castellino e Roberto Fiore nella piazza dalla quale è partito l'assalto alla Cgil

Undici giorni dopo l’assalto fascista alla Cgil, depositata un po’ di polvere sui perentori inviti a sciogliere immediatamente per decreto Forza nuova, al senato restano gli atti parlamentari e arriva il giorno in cui bisogna votarli. La maggioranza di governo è spaccata e nessuna delle due metà ha i voti necessari. Eppure alla fine due documenti vengono approvati e tutti si dicono soddisfatti. Com’è successo?

Palazzo Madama, ieri pomeriggio. Le mozioni sono tante. Quattro, diverse, del centrosinistra in senso lato. Quella del Pd e quella del M5S chiedono al governo di «adottare i provvedimenti di sua competenza per procedere allo scioglimento di Forza nuova». Non si parla di scioglimento per decreto legge, modalità prevista dal secondo comma dell’articolo 3 della legge Scelba ma mai utilizzata, essendo i precedenti scioglimenti arrivati con decreto ministeriale e «vista» una sentenza di condanna. Draghi è sembrato orientato a seguire questa via già battuta, quando in conferenza stampa ha sottolineato che il caso Forza nuova è all’attenzione della magistratura. Ma dalla manifestazione di sabato scorso e dai sindacati è arrivata, invece, una richiesta di scioglimento immediato. Allude proprio al decreto legge la terza mozione, quella di Italia viva che chiede al governo di adottare un atto «con urgenza». Mentre non indica il provvedimento, ma aggiunge anche CasaPound e Lealtà e azione alla lista delle formazioni da sciogliere, la mozione di Leu firmata anche dalla senatrice a vita Segre.

Per non farsi mancare niente, ci sono anche le mozioni della destra. Fratelli d’Italia traduce plasticamente l’iper attivismo di Meloni sul tema fascismo firmandone ben due. Una solitaria che nelle premesse ripercorre i crimini del comunismo e impegna il governo a contrastare tutti i totalitarismi e l’estremismo islamico. Si erano dimenticati l’antisemitismo, ma lo inseriscono in corsa con un nuovo paragrafo che fa anche tanti esempi, tutti a carico della sinistra. Fratelli d’Italia firma in sovrappiù la mozione di tutto il centrodestra, con Lega e Forza Italia, che nelle premesse se la prende con i centri sociali, Indymedia (buonanima), i No Tav . A questo punto tocca ricordare che l’occasione per questo dibattito in senato è l’aggressione neofascista alla Cgil. Il dispositivo della mozione di centrodestra impegna il governo «ad adottare tempestivamente ogni misura prevista dalla legge per contrastare tutte, nessuna esclusa, le realtà eversive». Nella terza versione del testo si ricordano anche dell’antisemitismo. E tolgono «tempestivamente». Alla fine è l’unica mozione che sopravvive.

Perché dalle quattro mozioni di Pd, Leu, M5S e Iv viene fuori un testo comune, presentato però come ordine del giorno, che asciuga le premesse e conclude con un dispositivo che è identico a quello originario di Pd e M5S. Indica l’obiettivo dello scioglimento di Forza nuova, ma non lo strumento (decreto legge o decreto legislativo dopo una sentenza). «Per essere chiari – dice in dichiarazione di voto la capogruppo del Pd Malpezzi, ed evidentemente ce n’era bisogno – non è lo scioglimento a opera del parlamento di un partito». Soluzione diversa dall’ordine del giorno comune non c’era, visto il regolamento del senato, per non presentarsi al voto con quattro mozioni diverse. Resta l’ultimo problema, perché al governo tocca dare un parere.

Ed ecco il sottosegretario Scalfarotto che di fronte a una maggioranza che sta un po’ di là e un po’ di qua decide di rimettersi all’aula.
Questo ufficialmente. Dietro le quinte il governo chiede ai gruppi parlamentari di evitare di votarsi contro, eventualità che oltretutto avrebbe rischiato di non far passare nessun documento. Sai che figura. E allora nessuno chiede il voto elettronico, che avrebbe registrato le scelte dei senatori, e si finisce con due belle alzate di mano. La parte sinistra della maggioranza vota solo il suo ordine del giorno e non vota sulla mozione. La parte destra della maggioranza e con lei Fratelli d’Italia vota solo la sua mozione ma non vota contro gli altri. Il senato approva entrambi gli atti di indirizzo. Sono tutti contenti.

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Right2Cure. Se raggiungerà il milione di firme, la Commissione Ue dovrà ascoltare le ragioni dell’appello e comunicare, entro tre mesi, se e come intende dare seguito alle richieste dell’iniziativa

Si può firmare qui: https://noprofitonpandemic.eu/it/

Proteste contro i brevetti in Portogallo

Proteste contro i brevetti in Portogallo  © Ap

«Bisogna permettere a tutti i Paesi e a tutte le persone di potersi vaccinare. È una battaglia di giustizia per affermare la centralità della vita e il diritto alla salute per tutti, una battaglia di civiltà». Con queste parole il segretario generale della Cgil Maurizio Landini ha rilanciato la campagna per la sospensione dei brevetti su vaccini, farmaci e test diagnostici durante una conferenza ospitata ieri nella sede del sindacato.

Alla conferenza hanno partecipato anche alcune delle 120 Ong che sostengono la campagna Right2cure, un’iniziativa dei cittadini europei che sta raccogliendo le firme per spingere la commissione europea a cambiare posizione nei negoziati al Wto e schierarsi con India e Sudafrica a favore della moratoria. Emergency, Medici senza Frontiere, Libera sono intervenute a sostegno: «C’è urgenza di intervenire» ha detto don Luigi Ciotti. «Non farlo è una inerzia omicida, non accelerare ti rende complice. Perché si continua a morire. La moratoria dei brevetti è una questione essenziale di diritto alla vita, che non può essere oggetto di variabili economiche o umori politici»

La campagna Right2Cure ha raccolto finora oltre 220 mila firme in Europa, quasi la metà dall’Italia. L’iniziativa dei cittadini europei è l’unico strumento di democrazia diretta a disposizione nell’Unione. Se raggiungerà il milione di firme, la Commissione Ue dovrà ascoltare le ragioni dell’appello e comunicare, entro tre mesi, se e come intende dare seguito alle richieste dell’iniziativa. Anche Papa Francesco nei giorni scorsi aveva condiviso l’appello alle aziende farmaceutiche. «Compiano un gesto di umanità – aveva chiesto – e permettano che ogni Paese, ogni popolo, ogni essere umano, abbia accesso al vaccino».

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