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IL LUTTO. Scomparso per una malattia fulminante a 85 anni. Il cordoglio dell'amico Lula. Vitalità e battuta sempre pronta, non gli impedivano di essere realista: «la destra governerà a lungo»
Domenico De Masi, foto LaPresse Il sociologo Domenico De Masi scomparso a 85 anni - Foto LaPresse

Una malattia fulminea si è portato via Domenico De Masi. Il sociologo del lavoro è morto ieri a 85 anni, un’età che a conoscerlo e vederlo non dimostrava certamente. La vitalità era il suo tratto principale: nato in Molise, formatosi in Campania per poi diventare un vero giramondo fra la Parigi dove fu allievo di Touraine al Brasile dell’«amico» Lula – che ieri lo ha ricordato con un tweet e una foto insieme molto tenera – che incontrò in carcere e dal quale era tornato recentemente a festeggiare la nuova vita da presidente.

Cattedratico guascone, De Masi ha sempre interpretato il ruolo di professore universitario come impegno civile e totale disponibilità per i suoi studenti. Da preside della facoltà di Scienze della Comunicazione alla Sapienza organizzò con loro nel 2009 la protesta contro i tagli dell’allora ministra Gelmini facendo lezione nelle piazze, denunciando le condizioni «da straccioni» in cui versavano gli atenei.

Da accademico ha sempre posto l’attenzione sui cambiamenti tecnologici – che amava e utilizzava immediatamente – e sulle loro conseguenze per migliorare e semplificare la vita di chi lavora, forse per l’imprinting avuto nella sua esperienza con Adriano Olivetti.

Ma la consacrazione mediatica e popolare De Masi la ottiene come «intellettuale» – uno dei pochi, se non l’unico – «vicino» al Movimento 5 stelle. È fra i primi a lanciare l’idea del Reddito di cittadinanza e consigliare Beppe Grillo su come metterla a punto.

Uomo «profondamente di sinistra», ha sempre visto nel M5s una evoluzione nella «battaglia per l’egualitarismo», nonostante la delusione per l’esperienza del governo giallo-verde con la Lega, che spesso criticò. «Quelli del Movimento mi danno ragione in privato e criticano Salvini, ma poi davanti alle telecamere non tengono coraggio», amava ripetere, per poi rivedere le sue posizioni: «Il M5s era fatto da granelli di destra e di sinistra, Salvini si è fregato i granelli di destra e il M5s si è quasi dimezzato».

Aveva inutilmente tentato di fermare la deriva di Luigi Di Maio e la rottura con Giuseppe Conte – «Ho passato ore a discutere con Luigi Di Maio o con Beppe Grillo: temo non sia servito a nulla» – ma continuava a dialogare con il M5s e a non lesinare consigli. Anche come «direttore» della «scuola» del Fatto Quotidiano.

Nelle tante interviste fatte con il Manifesto – «non so come facciate ogni giorno a compiere il miracolo di fare un giornale pieno di cose» – aveva la rara capacità di usare pochi e semplici dati – accurati e incontestabili – per corroborare le sue tesi sulla necessità di «una misura universale e incondizionata contro la povertà», «la riduzione drastica dell’orario di lavoro a parità di salario» o «un salario minimo più alto possibile che trascini all’insù tutti gli altri salari».

Battaglie che ieri sono state ricordate dai tanti che ne piangono l’inaspettata scomparsa: da Beppe Grillo a Giuseppe Conte fino a tutti gli esponenti del governo di destra che gli hanno tributato «stima» postuma.

Il suo ultimo libro – 2022 – si intitola «La felicità negata» e, partendo da un assunto fortemente americano, si tramuta in una spietata disamina del liberismo.

La battuta sempre pronta non gli evitata una lucidità e capacità di previsione di grande realismo. Il suo giudizio sulla situazione politica in Italia e sulla sua futura evoluzione era assai lucido: «La sinistra non esiste più», ripeteva, «in Italia ci aspettano quattro lunghi anni di opposizione. Potrebbero essere però l’occasione per trovare un modo di rifondare la sinistra. E bisognerebbe partire proprio dai 14 milioni di poveri che ci sono in Italia, ma devono diventare una classe, una classe sociale consapevole: individuare i nemici, come Meloni, e organizzarsi. Come insegnava Marx. Ma nessuno lo legge più»

 

 

 

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Morte e macerie dalla medina di Marrakesh ai centri di montagna ancora isolati e senza aiuti, oltre mille vittime accertate, ore di angoscia per salvare feriti e superstiti in trappola. Il più potente sisma che abbia mai colpito il Marocco presenta il conto

L'ATLANTE STRAPPATO. Habitat informel, bidonville, le abitazioni «precarie». Sarà capace la monarchia di ascoltare le richieste che verranno mosse dalle vittime delle aree interne?

Soccorritori in cerca di sopravvissuti sotto le macerie di una casa a a Moulay Brahim Fadel Senna/ Getty Soccorritori in cerca di sopravvissuti sotto le macerie di una casa a a Moulay Brahim - Fadel Senna/ Getty Images

Chiunque abbia visitato almeno una delle città imperiali del Marocco, o qualsiasi altro centro urbano rilevante, avrà sicuramente impressa nella memoria la configurazione urbana e architettonica delle medina, i centri storici labirintici e densi di vita. Non risulta, purtroppo, molto difficile immaginare l’effetto domino che i crolli causati da scosse sismiche possano imprimere all’insieme del tessuto abitato. Vicoli stretti spesso tortuosi che rendono ancora più problematiche le operazioni di soccorso e di rimozione di detriti alla ricerca di superstiti.

MENTRE le amministrazioni del governo del regno alawita sono alle prese con il conteggio febbrile di vittime, dispersi e danni strutturali al patrimonio immobiliare e architettonico, una riflessione importante investe già da ora il futuro della popolazione direttamente colpita dal sisma. Quali aiuti saranno messi in campo a livello nazionale per la popolazione? Sarà capace la monarchia di ascoltare le innumerevoli richieste che verranno mosse dalle vittime delle aree interne?

Una delle prime questioni che vengono sollevate in seguito ad eventi sismici mortiferi è se si sarebbe potuto prevedere, se si sarebbe potuto costruire diversamente per

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SENATO. Voto unanime in commissione. Il dem Giorgis: «Un piccolo segnale di resipiscenza della maggioranza, ma faremo di tutto per fermare un provvedimento che spacca l'Italia»

Autonomia, sì alla proposta Pd: lo Stato potrà revocare i poteri dati alle regioni Il senatore Pd Andrea Giorgis - LaPresse

Il Pd riesce a infilare una correzione nel disegno di legge leghista sull’autonomia differenziata. Ieri in commissione Affari costituzionali al Senato è arrivato il via libera (unanime) a un emendamento del dem Andrea Giorgis che rende «modificabile» e persino «revocabile» l’autonomia che lo Stato, una volta approvata la legge, potrà concedere alla regioni che la chiederanno.

«Con questa modifica chiariamo che l’interesse nazionale prevale su tutto, e che esso viene tutelato se la differenziazione delle Regioni va a lederlo», spiega Giorgis. «Abbiamo registrato qualche primo piccolo segnale di resipiscenza da parte della maggioranza. Vedremo nel prosieguo dei lavori se ascolteranno le nostre fondate obiezioni su un testo che rischia di compromettere la coesione sociale e politica dell’Italia».

Calderoli esce dall’aula soddisfatto e così anche il presidente della commissione Alberto Balboni di Fdi: «È così che si deve lavorare in Parlamento. Alcune osservazioni dell’opposizione sono state accolte perché erano fondate». Il ministro per gli Affari regionali tira un sospiro di sollievo e spera di aver schivato l’ostruzionismo delle opposizioni: «Lo scontro nelle precedenti sedute era nato su contenuti estranei al disegno di legge». Approvato all’unanimità anche un emendamento di Fdi che riguarda le isole maggiori e prevede che, nel momento in cui verranno decisi i Livelli essenziali di prestazione (Lep) e relativi costi standard, si dovrà «tener conto degli svantaggi derivanti dall’insularità», a tutela di Sicilia e Sardegna.

Pd, M5S e verdi-sinistra puntano comunque a rallentare i lavori e, nonostante il clima di ieri, non rinunciano alla battaglia contro l’autonomia. «Vogliamo scongiurare il pericolo di un provvedimento che rischia di spaccare e dividere il Paese, a danno di tutta l’Italia e non solo della sua parte oggi più fragile. Noi faremo di tutto», spiega Giorgis. Le opposizioni, complice la legge di Bilancio che inizierà il proprio iter proprio in Senato a metà ottobre, puntano a far arrivare il via libera del Senato solo a inizio 2024. Visto che il ddl dovrà poi passare alla Camera, il sì definitivo potrebbe non esserci prima delle europee di giugno, indebolendo così la campagna elettorale della Lega che non potrebbe sventolare il trofeo davanti agli elettori di Lombardia e Veneto.

La mossa di Calderoli di dare il via libera ad alcuni emendamenti Pd nasce dunque dalla volontà di allentare l’ostruzionismo, che era partito mercoledì. La Commissione tornerà a riunirsi il 12 settembre, per concludere il voto degli emendamenti sul primo articolo, che enuncia solo principi e criteri, per poi proseguire con quelli al secondo, che tratta delle procedure per stabilire le intese tra lo Stato e le Regioni. Si attenderà l’audizione di Sabino Cassese, presidente del Comitato per i Lep, attorno al 20 settembre, prima di iniziare l’esame degli emendamenti all’articolo 3, che riguarda la definizione degli stessi Lep e dei relativi fabbisogni standard. Ad oggi sono stati esaminati circa 30 emendamenti su 600

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«Se dico treno dovete spostarvi». L’ultimo video di Kevin Laganà è da brivido, il giovane operaio è nel cantiere della strage di Brandizzo e una voce avverte: «Io guardo il segnale, appena dico via…». Lavorare senza i treni fermi era la prassi, non l’eccezione. Come in tragedie precedenti

STRAGE SENZA FINE. Le parole del funzionario di Rfi nel video girato da Kevin Laganà, la vittima più giovane. Che dice: «Non abbiamo ancora l’interruzione». L’ad di Rfi in audizione alla Camera. Scotto (Pd): non garantita la sicurezza

«Se vi dico “treno” dovete subito spostarvi» Frame tratti da un video girato la sera del 30 agosto, pochi minuti prima dell'incidente ferroviario a Brandizzo - Ansa

Sono 6 minuti e 48 secondi da brividi nonostante l’atmosfera apparentemente rilassata. Il video social di Kevin Laganà, 22 anni, una delle vittime della strage di Brandizzo, diffuso in esclusiva dal Tg1, registra gli attimi prima della tragedia. Lui si trova in quel momento a lato dei binari, altri colleghi già lavorano tra le rotaie. Una voce entra in campo: «Ragazzi se vi dico treno, andate da quella parte, eh?». La voce – è una circostanza ancora da verificare – potrebbe essere di uno dei due indagati, Antonio Massa, tecnico manutentore di Rfi, la cosiddetta «scorta» di Rete ferroviaria italiana al cantiere affidato in subappalto alla Sigifer di Borgo Vercelli. L’altro indagato, sempre per omicidio e disastro con dolo eventuale, è Andrea Girardin Gibin, capocantiere della ditta.

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

Vercelli si ferma in silenzio: «Non si può morire così»
DA QUEL CHE SI RICAVA dalla visione del filmato, recuperato dal profilo Instagram del giovane, gli operai erano informati che su quella linea era previsto il passaggio di convogli. Si sente, infatti, affermare dalla stessa voce: «Noi possiamo vedere il segnale, voi prendete le misure, io guardo il segnale e appena dico via e… uscite da quella parte perché i treni passano qua. Dovrebbero passare gli ultimi treni». Due minuti dopo, Kevin in camera dice: «Non abbiamo ancora l’interruzione». Ma si continua a lavorare.

SI INTUISCE CHE QUELLA di operare prima dell’interruzione della linea era probabilmente una prassi. «Sembrerebbe –

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FESTA DELL'UNITÀ. A Ravenna Schlein, Orlando, Landini e la leader di Sumar Yolanda Diaz. Il leader Cgil: «Referendum? È il tempo del coraggio per dare speranza ai giovani». L'ex ministro: tassare i grandi patrimoni, siamo in un nuovo feudalesimo

Pd -Cgil, fronte comune contro la precarietà e per la sanità pubblica Elly Schlein con Andrea Orlando e Yolanda Diaz alla festa dell'Unità

La festa dell’Unità di Ravenna mette al centro la lotta alla precarietà. Per il Pd, che pochi anni fa promosse il Jobs Act con l’abolizione dell’articolo 18, è una piccola rivoluzione copernicana. Eppure ieri, in due dibattiti (non a caso uno dopo l’altro), sentendo le parole dal palco e gli applausi, si è capito che, almeno nelle intenzioni, l’aria è cambiata. Prima Elly Schlein si è confrontata con l’ex ministra spagnola del Lavoro e leader di Sumar Yolanda Diaz e Andrea Orlando, poi è toccato al segretario Cgil Maurizio Landini in dialogo con don Luigi Ciotti. E si è capito che il renzismo è davvero archiviato.

L’ospite straniera, Diaz, che ha voluto norme contro i contratti a termine in Spagna, è stata l’esempio per dire cosa il nuovo Pd propone agli italiani. «Da loro si sono messi al tavolo con imprese e sindacati per ridurre il lavoro precario, mentre il governo Meloni ha esteso i voucher e i contratti a termine», ha detto Schlein, ribadendo il suo no a una «Repubblica fondata sullo sfruttamento» e il suo obiettivo politico: «Recuperare la credibilità perduta tra i lavoratori».

Sul salario minimo, Orlando ha spiegato che «non si tratta della rivoluzione socialista, ma appunto del minimo che si possa fare davanti al clamoroso aumento delle diseguaglianze che rischia di danneggiare la stessa economia». Diaz ha ricordato l’aumento del salario minimo durante l’ultimo governo Sanchez: «Perché non si parla dei salari eccessivi e indecenti che prendono i top manager?», si è chiesta tra gli applausi. E ancora: «Mi dicevano che col salario minimo avrei distrutto l’economia spagnola, è successo il contrario».

Orlando è tornato su una sua antica battaglia. «Colpire le concentrazioni di capitale che sfuggono alle tassazioni nazionali. Si tratta di un nuovo feudalesimo che uccide un pezzo delle imprese e comprime la capacità di consumo del ceto medio. Far pagare più tasse a chi ha grandi patrimoni sarebbe anche nell’interesse del mercato, una misura liberale». Arriva un attacco alla destre di governo: «Sono il cane da guardia dei grandi monopoli, un governo liberista se si tratta di diritti dei lavoratori e corporativo se si tratta invece di tutelare gli interessi più forti».

Subito dopo sul palco è arrivato Landini, che ha lanciato la sfida al governo: «Bisogna cancellare le forme di precarietà che sono state approvate negli ultimi trent’anni, da governi di tutti i colori». E poi riforma fiscale «a favore di chi ha sempre pagato». E investimenti in sanità. «Se nella legge di bilancio non ci sarà una netta inversione di tendenza siamo pronti a batterci».

Landini sa perfettamente che la gran parte delle sue richieste non saranno accolte a palazzo Chigi. E rilancia: «Questo livello di precarietà non si può più accettare, apriremo ovunque vertenze per far assumere chi è precario. Se il governo prosegue nella sua strada non abbiamo paura di proporre dei referendum per abrogare leggi balorde». Pensa al Jobs Act, ma non solo. «Mi chiedono in tanti se sono sicuro di andare fino in fondo. Ma ci sono momenti in cui deve prevalere il coraggio. Non lo so come andrà a finire nel caso di un referendum, se la gente andrà a votare. Ma sono sicuro che, se non faccio niente, è finita ancor prima di cominciare».

La sala dibattiti dedicata a Salvador Allende ribolle. «Ai giovani devo dare un esempio concreto di quello che vogliamo fare: loro sono entrati nel mondo del lavoro conscendo non i diritti, come capitò a me, ma lo sfruttamento. Ora è il momento di dire basta. Perché se la sfiducia cresce ancora, verso la politica e il sindacato, c’è un serio rischio di autoritarismo. E io non posso lasciare a chi verrà dopo un mondo pieno di diseguaglianze senza neppure aver provato a cambiarlo». Ovazioni.

Orlando, poco prima, aveva condiviso la stessa preoccupazione: quella per l’astensionismo di «non crede più che la politica possa migliorare la propria vita». Schlein, dal canto suo, rilancia la lotta per «alzare il potere d’acquisto» e si prepara a una nuova «battaglia comune con le altre opposizioni» sulla sanità pubblica. «Non basta difenderla, va migliorata, imparare la lezione della pandemia. Ci batteremo con le altre forze, insieme siamo in grado di costringere il governo a uscire dai suoi spot e a guardare in faccia la realtà»

 

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GERMANIA. Nove mesi dopo la chiusura dell’ultima centrale il cancelliere Olaf Scholz pronuncia la sentenza di morte definitiva per l’energia atomica

Olaf Scholz foto Ap Olaf Scholz - foto Ap

«Il nucleare è un cavallo morto». Nove mesi dopo la chiusura dell’ultima centrale il cancelliere Olaf Scholz pronuncia la sentenza di morte definitiva per l’energia atomica in Germania. «Non tornerà mai più» è la promessa alla radio pubblica Deutschlandfunk, supportata dai dati incontrovertibili che dimostrano come il Paese più industrializzato d’Europa abbia perfettamente digerito lo storico “phase out”, al contrario di quanto pronosticavano i nuclearisti.

Il mix energetico tedesco nei primi sei mesi del 2023, appena certificato dall’Istituto Fraunhofer di Monaco, restituisce la generazione di watt da fonti rinnovabili ormai a quota 57,7% (era il 51,8% nello stesso periodo del 2022) con il drastico calo della produzione da lignite (- 21%), carbone fossile (- 23%) e gas naturale (- 4%).

Insomma, dati alla mano, Berlino ha completato il distacco dall’atomo con successo. Anche se rimangono

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