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Ensemble. 300.000 manifestano in tutta la Francia. «Dal Fronte all’Affronto repubblicano». 160.000 nelle strade di Parigi. Prossimo appuntamento il primo ottobre allo sciopero indetto dalla Cgt

La protesta a Place de la Nation a Parigi contro il governo Barnier La protesta a Place de la Nation ieri a Parigi - Ap

Centocinquanta manifestazioni in tutto il paese, da Nantes a Marsiglia passando per Parigi: dietro a La France Insoumise, la gauche ha manifestato ieri contro il «colpo di mano» di Macron contro la democrazia, come hanno denunciato gli organizzatori della prima giornata di mobilitazione di un autunno che si annuncia rovente.

L’appuntamento era stato lanciato giorni fa dalle più importanti organizzazioni studentesche francesi, vicine a Lfi, alle quali si erano poi unite i partiti del Nuovo Fronte Popolare (tranne il Partito socialista) e numerose associazioni del mondo della sinistra. Secondo gli organizzatori, circa 300.000 persone hanno manifestato in tutto il paese, 160.000 delle quali a Parigi.

Michel Barnier, primo ministro incaricato

Il governo è sotto il controllo democratico di tutti i francesi e di tutti i gruppi politici. Sono sotto l’occhio vigile di ogni francese

OVUNQUE, dal sud nizzardo alle strade della capitale, a tenere banco erano i medesimi slogan, un po’ contro l’inquilino dell’Eliseo, un po’ a denunciare le forzature istituzionali del medesimo: «Macron destitution» (ovvero la procedura d’impeachment intentata da Lfi contro il presidente della Repubblica), «Macron dimissione», «vendesi tessera elettorale – motivo: l’ho usata ma non serve», recitava, addirittura, un cartello nel corteo parigino.

Ian Brossat

La democrazia è stata presa in ostaggio. La sinistra vince le elezioni ma la destra governa, in totale continuità con la politica macronista

Nel frattempo, il primo ministro fresco di nomina Michel Barnier, membro del partito di destra dei Républicains, si è recato in visita a un ospedale a Parigi. «Bisogna ascoltare le persone, rispettarle, per agire con dovizia», ha detto, davanti ai microfoni dei media francesi. Poco prima, il presidente del Rassemblement National Jordan Bardella si era permesso di gongolare davanti alle telecamere: «Ormai, niente si può fare senza di noi», ha detto a proposito del governo Barnier, da lui definito «sotto sorveglianza» del Rn. «In politica, ora, niente si potrà svolgere contro di noi, senza l’approvazione del Rn,» secondo l’ex-candidato premier dell’estrema destra.

La più o meno tacita alleanza Le Pen-Macron, che ha escluso la sinistra dal governo nonostante la vittoria del Nfp alle legislative, era l’oggetto della rabbia dei manifestanti di ieri, nonché il contenuto del messaggio dei politici della gauche.

Jean-Luc Mélenchon, La France Insoumise

Non sta a Macron decidere, è l’Assemblée Nationale a doverlo fare, ed è per questo che non ci sarà né pausa né tregua

IN PIEDI SUL CAMION che apriva la manifestazione parigina, il leader insoumis Jean-Luc Mélenchon, con indosso una coccarda tricolore di memoria rivoluzionaria, ha avvertito il capo dello Stato di fare attenzione a questo sentimento di rabbia sollevato dalle proprie manovre per escludere la sinistra. «La democrazia è anche l’arte e l’umiltà di accettare la sconfitta, e voi avete perso», ha detto Mélenchon tra le ovazioni della folla. «Non sta a voi (Macron, ndr) decidere quale sia una soluzione stabile in democrazia, è l’Assemblée Nationale a dover decidere, ed è per questo che non ci sarà né pausa né tregua, ma sarà una lotta di lunga durata», ha proseguito il leader di Lfi, avvertendo l’inquilino dell’Eliseo che «se non ci sono più regole, si entra in un contesto nel quale conta la legge del più forte; ma in un paese, il più forte alla fine è sempre il suo popolo».

Marine Tondelier, Ecologisti

Abbiano l’impressione di essere stati calpestati, si è partiti dal Fronte Repubblicano per arrivare all’affronto Repubblicano

Una serie di testimonianze raccolte dall’Agence France-Presse testimoniavano del sentimento di diniego democratico provocato dalla nomina di Michel Barnier. «Penso in ogni caso che esprimere il proprio voto non serva a niente, fintanto che Macron è al potere», ha detto per esempio la 21enne Manon a Parigi all’Afp. Per il 20enne Abel – citato sempre dall’Afp – Barnier è «un vecchio elefante della politica che non ha nessun rapporto con le aspirazioni espresse dai francesi.» Alexandra, di 44anni, ha affermato invece all’Afp che «è una dittatura quella che si sta organizzando. Già da un po’ non siamo ascoltati quando scendiamo in strada, e ora non siamo ascoltati neanche quando votiamo».

TUTTI I LEADER della sinistra, o quasi, sono scesi in piazza ieri, cosa non scontata prima della nomina di Barnier. L’appuntamento era stato infatti chiamato inizialmente dagli Insoumis e accolto con una certa esitazione dagli alleati del Nfp. Alla fine, tuttavia, gli unici a nicchiare la piazza sono stati i socialisti; mentre gli Ecologisti e il Partito Comunista Francese sono scesi anch’essi in strada.

«La democrazia è stata presa in ostaggio», ha detto per esempio Ian Brossat, uno dei leader del Pcf, durante il corteo parigino. «È tutto assurdo, è la sinistra che vince le elezioni ma è la destra che governa», ha aggiunto rimarcando come «gli elettori abbiano chiesto un cambiamento, ma alla fine ci troviamo con un governo in totale continuità con la politica macronista degli ultimi sette anni».

Anche gli Ecologisti erano presenti un po’ ovunque, distribuendo dei segnalibri con l’effigie di Macron, sui quali era scritto un invito a «girare la pagina del macronismo». «Gli ecologisti hanno manifestato ovunque in Francia contro il colpo di mano di Macron», ha scritto il partito su X. Dal nord della Francia dove ha manifestato, la segretaria degli Ecologisti Marine Tondelier ha denunciato come si sia «partiti dal Fronte Repubblicano per arrivare all’Affronto Repubblicano».

Jordan Bardella, Rassemblement National

Da oggi il primo ministro è sotto la nostra sorveglianza democratica, in politica adesso niente si potrà svolgere contro di noi

PERSINO dissidenti di Lfi come Clémentine Autain, che è uscita dal partito in polemica dopo le legislative, sono scesi in piazza – anche se fuori dalla capitale – «contro la presa in ostaggio della democrazia col beneplacito di Le Pen», ha scritto Autain sui suoi account social. Per tutti, insomma, si tratta del primo capitolo di una crisi che è ben lungi dall’essere conclusa – anzi, che incomincia appena. Il prossimo appuntamento è tra qualche settimana, il primo ottobre, allo sciopero inter-professionale indetto dalla Cgt

 

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 Commissario straordinario alla ricostruzione, generale di corpo d’armata, Francesco Paolo Figliuolo

Delude le attese degli alluvionati l’ordinanza sui beni mobili emessa dalla struttura commissariale. A conti fatti il risarcimento sarà di soli mille euro perché dal massimale di 6mila euro previsto vanno decurati i 5mila ricevuti come Cis (Contributo immediato sostegno) tramite altre forme. Si presume quindi che si possano ricevere soltanto mille euro. «Abbiamo tutti l’amaro in bocca, ci sentiamo mortificati, umiliati, offesi»: in questi termini è intervenuto ieri il Comitato alluvionati Borgo di Faenza, ma si può immaginare che queste considerazioni siano condivise anche dal resto delle persone colpite dall’alluvione in Romagna. «I mobili intesi come arredamento - dice un portavoce del Comitato - sono diventati beni mobili in tutti i sensi e c’è finito dentro di tutto: qualsiasi cosa rimovibile. Avevamo chiesto un budget di 15mila euro per riarredare casa, una cifra ragionevole, che è diventata 6mila euro e adesso nel migliore dei casi saranno 1.000, oppure addirittura 0 e comunque si dovrà passare sempre per la complicatissima piattaforma Sfinge».

Il Comitato Borgo di Faenza è tra i più vigili e attivi nel seguire la fase dei ristori post alluvione e ha fatto sentire la sua voce in diverse occasioni: si ricorderà la protesta insieme al Comitato di via Ponte Romano, portata in maniera civile durante il passaggio da Faenza del Tour de France.

«In questi giorni - continua il portavoce - ci incontreremo per analizzare meglio l’ordinanza, anch’essa difficile da interpretare, come se fosse un crudele accanimento contro chi ha già vissuto un’immane tragedia, ma la prima impressione è di un ulteriore abbandono ed elusione delle aspettative, nonché delle promesse di rimborsi totali. Le procedure sono complesse, non troviamo i periti e le cifre considerate sono minime. Solo una piccola percentuale dei danneggiati è riuscita a terminare la procedura Sfinge e ad avere un riconoscimento, seppur minimo. Viene da chiedersi perché? Qualcosa che non va c’è sicuramente se dopo 18 mesi dall’evento ci si trova ancora a dover risolvere gli enigmi della Sfinge. Deve fare pensare».

Se vi saranno ulteriori mobilitazioni sarà deciso nei prossimi giorni: «Al momento speriamo che a livello politico qualcuno si accorga di quanto sta avvenendo, che ci dia sostegno fattivo, visto che i risarcimenti non sono stati portati avanti come si doveva».

Alla decifrazione della nuova Ordinanza stanno lavorando gli avvocati del Comitato ai quali i comuni cittadini colpiti si sono rivolti, oltre che ai periti, nella speranza di ottenere gli indennizzi, ma anche per farsi spiegare in parole povere i contenuti del documento, ricco di rimandi ad ordinanze precedenti, richiami a leggi e articoli, ad eliminazione di termini precedenti, sostituiti con altri. Pur avendo sottomano il tortuoso percorso burocratico risulta macchinoso districarsi.

PER CHI VOLESSE LEGGERE IL TESTO COMPLETO DELL'ORDINANZA: 

Ordinanza n. 31 Beni Mobili pubblicata il 04 Settembre 2024

 

 

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Venezia 81. «Gran finale» a sorpresa del neo presidente Buttafuoco: una celebrazione governativa con citazioni latine. «La stanza accanto» di Almodóvar è il miglior film, leone d’argento a «Vermiglio» di Maura Delpero. Migliore attrice Nicole Kidman, miglior attore Vincent Lindon, miglior regia Brady Corbet. L’intervento di Moretti: «Dovremmo essere più reattivi contro questa legge cinema»

Pedro Almòdovar con il Leone d'Oro Pedro Almodóvar riceve il Leone d'Oro - Ap

Ha vinto Pedro Almodóvar col cinema fuori dal tempo del suo The Room Next Door, melodramma di cromatismi tra vita e morte che sceglie la vita, accetta la morte e non si perde mai dentro le sue emozioni.

Ma la liturgia (abbastanza letale) di quella che è stata la cerimonia di premiazione che ha chiuso questa Venezia 81, coi sui ringraziamenti, sorrisi, pianti, balbettii, sussurri nel microfono per mamma&papà è stata cancellata dal «gran finale» a sorpresa di Pietrangelo Buttafuoco, il neo-presidente che in un impeto oratorio ha monopolizzato l’elegante platea della Sala Grande con un intervento lunghissimo – cosa insolita, a dire il vero mai vista nelle Mostre del passato e neppure nei festival nel mondo.

E fra la celebrazione dei successi dell’edizione appena terminata e le citazioni dei classici latini ha tessuto una bella ode al governo che in questi giorni in ciò che concerne la «cultura» è apparso assai in difficoltà.

Ci aveva provato Nanni Moretti prendendo il Leone d’oro per il restauro di Ecce Bombo a mettere al centro le crisi e le questioni che il cinema nazionale dovrà affrontare: «Dovremmo essere più reattivi contro questa legge cinema». La stessa presentata trionfalmente – fra innumerevoli ma silenti scontenti – qui al Lido.

Però il doppio premio ai film italiani, coincidenza davvero unica dopo anni – al giovane interprete di Familia di Francesco Costabile e soprattutto il Gran premio della Giuria a Maura Delpero per Vermiglio, una storia contadina formato presepio che mette al centro le donne come madri, perché in fondo è questa la loro ricchezza e resistenza – non fa che oscurare ancora di più le questioni a venire nel trionfo celebrativo del festival quale «vetrina unica per ribadire prodotti e artisti del cinema italiano» come si legge nel comunicato del sottogretario alla cultura Borgonzoni, e delle politiche cinematografiche governative. Tutto si tiene, appunto.

E IL PALMARÉS? Già il palmarès. Esclusa dunque la grazia di un grande maestro, quale è Almodóvar , che coniuga con sapienza il tema (l’eutanasia) e il cinema, e la sorpresa della giovane regista georgiana Dea Kulumbegashvili col suo April – premio speciale della giuria – che declina questo sì con pudore il femminile nel suo conflitto – a proposito: su cinque registe donne in gara tre hanno avuto il premio, includendo Halina Reijn e il suo Babygirl Coppa Volpi a Nicole Kidman – a dissolvere le critiche di un eccesso maschile della Mostra di Alberto Barbera – non poteva esserci spazio in questi premi per un film libero e rivoluzionario come è Queer di Luca Guadagnino, il grande sconfitto di questa Mostra a cui azzardo e rischi sono mancati.

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Il successore. Il passaggio di mano alla cultura meloniana è anche un cambio di testimone tra generazioni

Alessandro Giuli foto Ansa Alessandro Giuli - foto Ansa

L’altro giorno, mentre il claudicante Gennaro Sangiuliano era nei camerini Rai a prepararsi per la sua intervista-vaudeville al Tg1, il cinquantenne Alessandro Giuli, con tipico vestito color crema, era stato visto immergersi nell’androne del ministero con fare dinoccolato. Il passaggio di mano alla cultura meloniana è anche un cambio di testimone tra generazioni. Se Sangiuliano appartiene a quella, più ingessata, che si è formata con Giorgio Almirante e che ha provato in tutti i modi a inscrivere la propria storia dentro il solco del pensiero reazionario e conservatore prima italiano e poi europeo, Giuli ha una storia più estremista ma a suo modo disinvolta: si forma nel ciclo dei Novanta, quando tra i giovani del Fronte della gioventù circola la voglia di rimettersi in discussione e provare a mischiare le carte, per uscire dal Msi, considerato nostalgico e in fondo inservibile.

Insomma, negli stessi anni in cui la giovane Giorgia Meloni si infila in una sezione missina affascinata dalla figura del giudice Borsellino, secondo la prosopopea che circola da anni, il giovane Giuli è stato il giovane e intellettuale ed enfant prodige della destra romana più estrema. Aderisce a Meridiano Zero, organizzazione fondata da Rainaldo Graziani, figlio del dirigente di Ordine nuovo Clemente, la cui esperienza dura poco più di due anni che appaiono decisivi per fornire al futuro ministro un codice di riferimento. Il gruppo si scioglie nel 1993, anticipando gli effetti della legge Mancino contro l’odio razziale. Al momento di comunicare alla Digos il dissolvimento promette di proseguire l’attività per superare la «logica neofascista, che comunque abbiamo rappresentato, e di questo siamo fieri, ma che oltre ad un patrimonio indissolubile, rappresenta anche un ostacolo per garantire una continuità con il futuro». A questo punto, Giuli si muove tra destra postfascista di governo ed estremismo, accreditamento nel sistema culturale e mediatico e tentazioni eretiche. Proviene da una famiglia della piccola borghesia della zona di piazza Bologna, ma si è diploma al Tasso, liceo upper class tra i banchi con Giulia Calenda, sorella di Carlo, e la futura ambasciatrice Jessica Laganà. Studia filosofia alla Sapienza coltivando i riferimenti neofascisti (approfondisce Julius Evola, ça va sans dire), finisce gli esami senza discutere la tesi, fonda riviste radicali con sponde istituzionali (è l’epoca del nazionalalleato Silvano Moffa presidente della provincia di Roma)

La sua storia è emblematica di come la galassia berlusconista abbia fornito appigli materiali e arnesi culturali al vecchio mondo neofascista in cerca di collocazione e in uscita dal ghetto. La svolta della sua carriera arriva quando arriva all’agenzia che cura il Foglio dei Fogli, inserto del quotidiano diretto da Giuliano Ferrara fatto di ritagli della settimana. Approda direttamente alla corte di quest’ultimo, fino a diventarne il braccio destro. Chi si è confrontato con lui nel corso degli anni racconta che proprio da Ferrara abbia appreso l’arte disinvolta di muoversi a cavallo tra il cinico realismo capitalista e il richiamo della foresta nera delle origini.

Resta l’amore-odio per il mondo post missino. Scrive Il passo delle oche, pamphlet puntuto su «l’identità irrisolta dei postfascisti». Non dimentica le fascinazioni pagane, che rimette insieme in un volume su Cibele uscito con Settimo Sigillo, la casa editrice di estrema destra che ha dato spazio a pubblicazioni esplicitamente antisemite e filo-naziste. Ricicla lo stesso tema in televisione, dove avrà qualche occasione (non riuscita) per proporsi come anchorman della destra, con il grottesco Vitalia, programma incentrato sulla ricerca delle radici pre-cristiane. Collabora con la fondazione Med-Or, braccio diplomatico di Leonardo. Viene dato più vicino alla Lega di Salvini che a Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni, il cui orizzonte culturale ed immaginario prima del boom elettorale definisce sarcasticamente come «la disneyficazione [nel senso di Walt Disney] del Movimento sociale italiano». Fino al riavvicinamento a Giorgia e la nomina al Maxxi, che usa come trampolino di lancio verso il governo, tra un palco con Morgan e Vittorio Sgarbi e l’autopromozione di un saggio su Gramsci di destra (aridanghete, povero Antonio) che colpisce più per la forma che per il contenuto: stile barocco e pretese da avanguardia letteraria

 

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Il limite ignoto. A Cernobbio il leader ucraino parla di ricostruzione e rassicura gli investitori italiani

Zelensky: «Niente pace finché non saremo più forti sul campo» Volodymyr Zelensky al Forum Ambrosetti di Cernobbio - Ap

Non vogliamo di più di quanto ci avete dato, ma datecelo lo stesso. Forse a causa della particolarità della cornice, il 50° Forum Ambrosetti di Cernobbio, e della platea, Illy, Ibm, Veolia, Bonfiglioli tra gli altri, il presidente ucraino ieri ha tenuto a sottolineare che il suo Paese non è ingrato o inappagabile. «Ma dall’altra parte c’è un nemico che vuole distruggerci e dobbiamo continuare a difenderci».

PERSINO quando la moderatrice gli ha ricordato che il ministro Tajani poco prima aveva rinnovato il pieno supporto dell’Italia all’Ucraina da tutti i punti di vista ma non per l’autorizzazione a colpire in territorio russo con le armi fornite da Roma, Zelensky non si è scomposto troppo. Ha risposto con una battuta (o meglio, dichiarando che era una battuta solo dopo averla detta) «nonostante mi piacerebbe colpire il Cremlino – e a quel punto dalla platea si sono sentite diverse risate – le armi a lungo raggio in dotazione all’Ucraina hanno una gittata di 200/300km massimo». Mosca è troppo lontana e quindi gli alleati possono stare tranquilli. «Abbiamo bisogno di quell’autorizzazione per colpire strutture militari». Il capo di stato si riferisce agli aeroporti russi dai quali partono i bombardieri che bersagliano quasi quotidianamente le città ucraine, alle basi dove sono posizionate le batterie missilistiche, alle caserme da cui partono i rinforzi. «Noi non abbiamo mai, mai e poi mai, colpito infrastrutture civili nemiche» ha poi sottolineato con grande enfasi. Peccato che non sia così, a meno che non si vogliano considerare le raffinerie di petrolio, i siti di stoccaggio del gas o le sottostazioni energetiche di Belgorod come infrastrutture militari. Non era il contesto per obiettare, la platea era interessata a possibili investimenti e alle priorità di Kiev per la ricostruzione. Zelensky ha accontentato tutti: «Il ruolo della tecnologia? Fondamentale! La rete energetica? Resterà efficiente e si connetterà a quella europea. Gli investimenti? Saranno protetti dagli alleati». Insomma, per il presidente ucraino il futuro ha una sola parola: Europa. Il perché è presto detto: «In un Paese che ha alle spalle un solido sistema di sicurezza che prevenga situazioni simili a quella scatenata dall’invasione russa le aziende sono più invogliate a investire». La domanda più interessante interroga l’ospite sugli accordi di Minsk, «il loro fallimento che scenari fa presagire per il periodo post-bellico?». Qui Zelensky si lancia nella spiegazione di quanto Putin sia inaffidabile e infido e di come per l’Ucraina fidarsi di lui sia stato letale. «Non succederà più» conclude perentorio. Ma allora che scenario prevede per la fine del conflitto e quando, domanda la moderatrice, si potrà parlare di negoziati?

«NON SI POTRÀ farlo finché l’obiettivo della Russia resterà annientarci». Il presidente spiega chiaramente che la posizione di Kiev ora non è abbastanza forte per un’eventuale trattativa e che quindi non vede spiragli per un negoziato nel breve termine. Anche per questo è stata lanciata l’offensiva di Kursk. Ma, interrogato nello specifico, Zelensky ha chiarito che «Kursk è servita per evitare che i russi tentassero di conquistare Sumy, avevamo dei rapporti dell’intelligence su questo rischio e abbiamo deciso di anticipare il nemico. Ora i russi sanno sulla loro pelle cosa vuol dire la guerra». Dunque, l’importante ora per i vertici ucraini è «arrivare ai negoziati in una posizione di forza perché altrimenti perderemo la nostra nazione». A tale proposito il presidente ha ricordato del piano di pace che presto presenterà agli Usa e che «avrà bisogno del continuo sostegno dell’Italia, così come è stato finora».

AVEVA PARLATO di negoziati anche il premier ungherese Orbán (ospite a Cernobbio) che non solo aveva dichiarato di «sperare» che Zelensky riuscisse a partecipare al Forum, ma di auspicare un incontro tra il leader ucraino e Putin perché «è in atto un fraintendimento nell’opinione pubblica occidentale per la quale dovremmo prima mettere insieme un piano della pace, poi iniziare una negoziazione e poi attuare un cessate il fuoco. Non è così. Prima il dialogo, poi il cessate il fuoco e poi si può iniziare una negoziazione».

ALLE 20 CIRCA si è conclusa una giornata molto intensa per Zelensky che aveva iniziato il suo viaggio diplomatico da Ramstein, in Germania. Nella sede della base aerea della Nato più grande dell’Europa centrale il capo di stato aveva incontrato i rappresentanti dei membri del Gruppo di contatto Nato per l’Ucraina, ovvero i fornitori di armamenti e supporto a Kiev. Le richieste del presidente si possono riassumere in più F-16, più armi e l’onnipresente autorizzazione a colpire in territorio russo. La Germania ha promesso 12 nuovi panzer, di cui 6 saranno entro dicembre. La Gran Bretagna 650 sistemi missilistici per un valore di oltre 200 milioni di euro. Anche la Francia ha promesso nuove armi senza specificarne il tipo

 

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Como . Dopo i divieti oggi inizia il forum di Sbilanciamoci, a pochi chilometri a Villa d’Este ci sarà il Forum Ambrosetti. Le proposte: una «Contro finanziaria» e una mobilitazione contro l’aumento delle spese militari

Il forum annuale di Sbilanciamoci "L'Altra Cernobbio" Il forum annuale di Sbilanciamoci "L'Altra Cernobbio"

Una «controfinanziaria» con una tassa sui grandi patrimoni e il taglio alle grandi opere insieme a una mobilitazione pacifista per tagliare la spesa militare in un paese definito come «complice delle guerre e del riarmo». Sono le proposte che saranno oggetto della discussione dell’«Altra Cernobbio» organizzata da oggi a domenica allo spazio Gloria Arci Xanadù e al Teatro Nuovo Rebbio di Como dalla rete Sbilanciamoci! composta da 52 associazioni, sindacati e movimenti. Dopodomani un incontro si terrà al centro civico Cernobbio 2000.

IL FORUM ANNUALE di Sbilanciamoci! si propone come l’alternativa al workshop dello Studio Ambrosetti giunto alla cinquantesima edizione. Alla grande kermesse che intende rappresentare il rientro dalle vacanze di un establishment finanziario-giornalistico-politico è stata annunciata la partecipazione della presidente del consiglio Giorgia Meloni, di Viktor Orban in quanto presidente di turno dell’Ue e del presidente ucraino Volodimir Zelenski. Trecento relatori si incontreranno nella decorativa Villa d’Este.

NON È STATO SEMPLICE organizzare, anche quest’anno, il «contro-vertice» giunto alla quarttordicesima edizione. Il comune di Cernobbio ha negato l’uso della sala principale e ha concesso solo quello di una minuscola. La questura di Como ha interceduto per avere una più grande che però non è stata concessa. In più è stato negato il permesso di organizzare una «biciclettata» da Como a Cernobbio di 45 minuti. «Una violazione degli articoli 3 e 21 della Costituzione. Hanno creato una zona rossa di 16 chilometri quadrati, lunga tre chilometri. Nemmeno a Genova nel 2011 fu così estesa – ha commentato Giulio Marcon, portavoce della campagna Sbilanciamoci! – Ci sono due pesi e due misure: all’establishment dello Studio Ambrosetti è garantita l’agibilità democratica e logistica. Alle associazioni di volontariato è negato tutto. Un atteggiamento ingiusto e ingiustificabile».

I RIFLETTORI saranno puntati presumibilmente su Meloni, alla prima uscita pubblica dopo il caso Sangiuliano e impelagata nella preparazione di una legge di bilancio di cui poco di preciso si sa tranne che sarà ugualmente mediocre come quella dell’anno scorso. Nel frattempo Sbilanciamoci! si propone di fare un lavoro si analisi e di raccordo a sinistra. Al forum sarà presentata una «Gazzetta non ufficiale» in cui Sbilanciamoci definirà i cinque pilastri della «contro-finanziaria» che sarà presentata a novembre dopo che il governo avrà attraversato il tunnel concordato con Bruxelles. Nel testo si legge la proposta di una riforma fiscale che incida sui grandi patrimoni per ottenere 25 miliardi di euro; la riduzione delle spese militari con un risparmio da 5 miliardi euro; la riduzione degli oltre 22,4 miliardi per i «sussidi ambientalmente dannosi»; la riduzione dei fondi per le «grandi opere», a cominciare dal Ponte sullo stretto caro al ministro Salvini. Questo sarà uno dei controcanti possibili alla «manovra» vera e propria alla quale sta lavorando il governo che sarà invece opaca, tortuosa e blindata.

DOPO LE INUTILI divagazioni estive che hanno riempito le pagine dei giornali il vero calcio di inizio all’intera vicenda sarà dato entro il 20 settembre quando il governo dovrà presentare il «piano strutturale di bilancio». Si tratta di un documento che congelerà economia e società nei prossimi sette anni in un’austerità non dichiarata come tale ma i cui effetti si faranno sentire. Entro questa cornice Meloni & Co. dovranno spiegare il modo in cui ridurranno il disavanzo di 0,5 punti all’anno del deficit per cui è stata aperta una procedura d’infrazione dalla Commissione Europea. Una volta scesi sotto la soglia del 3% nel rapporto tra deficit e Pil ogni anno il debito pubblico andrà ridotto di un punto percentuale portando contestualmente il deficit sotto l’1,5%. da inviare entro il 20 settembre a Bruxelles.

DURANTE GLI INCONTRI con 30 relatori e le 15 ore di seminari dell’Altra Cernobbio sarà avanzata anche una proposta di mobilitazione contro l’aumento delle spese militari e per il trasferimento delle risorse agli investimenti sociali e ambientali. Nelle bozze preparatorie si parla di organizzare il «No» al raggiungimento del 2% del Pil e del 20% in armamenti come chiesto dalla Nato e di tassare gli extra-profitti dell’industria militare

 

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