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Dal blog di Carlo Galli "Ragioni politiche"
(7 marzo 2018)

Sconfitta del «sistema»; ovvero, rigetto dell’impianto politico-economico che ha generato il larghissimo scontento che percorre tutta l’Italia: questo è, in estrema sintesi, il significato del voto del 4 marzo; i perdenti sono, essenzialmente, Renzi e Berlusconi. Sui due leader contavano i «poteri forti» – italiani, europei, internazionali – per continuare a gestire l’esistente, anche dopo le elezioni. Ciò che ne è seguito, invece, è stato il successo elettorale delle forze percepite (ovviamente nelle intenzioni degli elettori; altra cosa è la capacità e la volontà delle élites politiche dei partiti vincitori) come anti-establishment – M5S e Lega –, e, parallelamente, il crollo del Pd e la condanna all’irrilevanza della sinistra confluita in Liberi e Uguali.
A fronte della diffusa e stringente richiesta di sicurezza che la Grande crisi ha generato, da parte del Pd si è risposto con dissennato ottimismo e in un modo completamente interno alla logica neoliberista (la stessa che ha generato la crisi del 2008, dalla quale siamo usciti a pezzi): cioè a colpi di bonus e con una fuoriuscita del Paese dalla crisi dovuta prevalentemente ai comparti della nostra economia rivolti all’export. Tutti gli esiti negativi della lunga crisi sono di fatto ancora vivi e operanti nella nostra società. Non c’è stata nessuna ipotesi di un intervento strutturale anticiclico dello Stato in economia, né l’idea di creare occupazione. Dietro la proposta elettorale del Pd ci sono, ancora una volta, le fallimentari formule neo/ordoliberali: l’idea che il lavoro è subalterno (il jobsact è stato rivendicato a oltranza), che il mercato è signore delle nostre vite e che lo Stato può soltanto assecondarlo e, all’occorrenza, sostenerlo ricorrendo alla logica della regalìe, sotto forma di bonus alle persone.
Parallelamente, il risultato disastroso di LeU è dato non soltanto dall’incapacità dei dirigenti di prendere sufficientemente le distanze sia dall’esperienza del centro-sinistra sia dal Pd di Renzi. Il fallimento si spiega, soprattutto, con la mancanza di un’analisi strategica

Prima di commentare sarebbe molto utile prendere in considerazione alcuni numeri, che, mi sembra, pur nel profluvio di grafici e analisi proposti dai giornali, non siano stati adeguatamente messi a fuoco.
Ho considerato i voti della Camera (uninominale) con l’esclusione dell’estero e della Valle d’Aosta.
Innanzitutto l’intera area di centro-sinistra e sinistra (nel 2013 Pd e alleati + Rivoluzione civile di Ingroia) fra il 2013 e il 2018 (Pd e alleati + LeU + Potere al popolo) ha perso quasi 2 milioni di voti (da 10.814.582 a 8.986.047).
Distinguendo fra area del Pd e alleati (nel 2013 scorporando SEL) da una parte e sinistra (SEL + Ingroia nel 2013) (LeU + Potere al popolo nel 2018) si può osservare che l’area Pd ha perso quasi 1 milione e mezzo di voti (da 8.960.162 a 7.502.056) e la sinistra quasi 400 mila voti (da 1.854.420 a 1.483.991, 1 elettore su 5). Una debacle storica e rovinosa, per gli uni e per gli altri.
Tenete conto (ma influisce assai poco) che il numero dei votanti è leggermente diminuito (del 2,27%) cioè circa 22.700 voti in meno ogni milione di voti conseguito nel 2013.

Scorporando i voti degli alleati e considerando solo quelli dati al Pd (si considerano i voti solo uninominale come tutti dati al Pd) si evidenzia come il Pd da solo ha perso 2 milioni e mezzo di voti (da 8.646.034 del 2013 a 6.154.036 del 2018).
Il dato appare ancora più clamoroso se si considera che gli analisti dei flussi elettorali (ho guardato l’Istituto Cattaneo e CISE della Luiss) considerano che circa 2/3 degli elettori che nel 2013 votarono per Scelta Civica con Monti hanno, nel 2018, votato per il Pd.

Nel 2013 Sc x Monti ottenne 2.823.842; togliendo i 2/3 (1.891.947) risulterebbe che degli 8.646.034 elettori del Pd nel 2013 solo 4.262.089 cioè meno della metà lo hanno rivotato nel 2018.
Naturalmente i fattori sono numerosi ed i flussi elettorali in entrata e uscita molto più complessi, ma appare tuttavia assai evidente che il PdR (il Pd di Renzi) ha una base elettorale profondamente diversa da quello che fu il Pd di Bersani.

Dulcis in fundo: non abbiamo mai preso sul serio le rodomontate di Renzi, ma lui sì, tant’è vero che sulla base di una di queste aveva predisposto leggi elettorali ad hoc. Prima l’italicum bocciato per violazione della Costituzione, poi il rosatellum ora aborrito da tutti ma di cui Renzi e Gentiloni sono i diretti responsabili (8 fiducie per approvarlo). Ora Renzi affermò dopo la (per lui) rovinosa sconfitta referendaria del 4 dicembre 2016 che il suo bacino di consenso era quel 40% di elettori che aveva votato sì. Affermazione assurda ma che ha fatto da bussola per il Pd renziano. Ora i sì furono 12.708.172 (surclassati dai 19 milioni di No): si può osservare che il Pd renziano ha perso 6 milioni e mezzo di voti (più del 50%). Calcolo assurdo, ovviamente, ma dovete convincere Renzi!

 Alessandro Messina

L’area di centro-sinistra + sinistra ha perso quasi 2 milioni di voti

Il Pd da solo ha perso 2 milioni e mezzo di voti

L’area Pd ha perso quasi 1 milione e mezzo di voti

La sinistra ha perso quasi 400 mila voti (circa 1/5 dei suoi voti del 2013)

Degli elettori del Pd nel 2013 meno della metà (probabilmente) lo hanno rivotato nel 2018

Del famoso 40% di elettori che votò sì al referendum costituzionale meno della metà ha votato Pd (6 milioni e mezzo di voti in meno)

 

(mappa tratta da ilbuounsenso.net) A Faenza il Centro Sinistra arretra ma mantiene la maggioranza; il Centro destra avanza nelle campagne; il M5S arriva in testa in tre seggi...

Lavorare ed esserci ha contato nel confermare più o meno il numero dei voti che L’Altra Faenza aveva conquisto nel 2015. Però il dramma è che noi, la sinistra, in Italia non esistiamo più! Non solo in termini di voti, ma soprattutto nella cultura che si è fissata nella testa della stragrande maggioranza delle persone (idee, ragionamenti, stili di vita, prospettive di futuro).

A Macerata la Lega passa dallo 0,6% ad oltre il 20% (Traini docet), tutta l'Umbria al Centro destra con percentuali lombarde, in alcune zone oltre il 50%. Qui da noi non è tanto diverso: vincono in diversi Comuni (otto fra cui Cervia), sono primi anche nel comprensorio faentino (non Faenza), dove guarda caso è maggiormente visibile la presenza di immigrati. I grillini sono di poco più indietro, ma i punti percentuali di separazione fra PD, Centrodestra e 5 Stelle sono ridotti al minimo, con la Lega che fa il botto. Poi riguardo alle cartine dell'Italia con i vari colori viste in TV, nei pochi collegi dove ha vinto il PD, vedere che li hanno evidenziati in rosso fa veramente piangere, visto che il PD di sinistra non ha praticamente nulla (tranne forse alcuni elettori, ma pochi). Qualcuno ci dovrebbe dire per esempio cosa c’entra Casini con la sinistra.

Ho i brividi se penso ad un governo Salvini che si servirebbe sicuramente della manovalanza dei fascisti. Ma anche un governo 5 Stelle con i tanti voti che hanno preso al Sud provocherebbe delle fitte dolorose al mio pensiero sul tipo di futuro che ci aspetta. Paradossalmente il "Reddito di cittadinanza" è stato vincente in quei territori proprio dove sono stati denunciati i falsi forestali, come in Sicilia... Niente di nuovo sotto il sole: il riscatto delle classi deboli è di la da venire.

E' triste svegliarsi in un Paese dove un bambino africano adottato da una famiglia italiana viene apostrofato in malo modo nel bus da persone anziane che lo ingiuriano dicendogli di tornare in Africa, oppure vedere che, dopo Traini a Macerata, ieri un’altra persona a Firenze ha sparato a caso conto un immigrato senegalese uccidendolo. Di questo passo ci riduciamo come gli USA. Ma è un allarme che non ha modificato le espressioni del voto di chi ha scelto di votare Lega e 5 Stelle. Riflettendo, mi chiedo: cosa succederà quando i cittadini che hanno dato il mandato di rappresentarli a quei partiti si troveranno di fronte al fatto che i problemi italiani non sono dovuti alla presenza degli immigrati, ma a quelli che rubano?

A tutti quelli che fanno analisi molto complicate e politicistiche, che ritengono che un certo partito abbia perso barcate di voti per una parolina sbagliata in tv, per un obiettivo errato nel programma, per quel candidato indigesto ecc., va ricordata una semplice verità: che il grosso dell’elettorato si orienta e ragiona in maniera molto più semplice. Se la «sinistra» è divenuta indigesta e invotabile agli occhi degli elettori questo si ripercuoterà a raggi concentrici, da Renzi a Grasso e ancora più a sinistra.

Le distinzioni che gli appassionati di politica fanno, spaccando il capello in quattro, non hanno alcun valore e non sono intellegibili per l’elettore comune. Si tratta di capire perché vi sia stato un rigetto così ampio e probabilmente definitivo di ciò che è stato considerato «sinistra» negli ultimi decenni. Un fenomeno non sorprendente, e che viene da abbastanza lontano, da un’inversione di ruoli e di rappresentanza di ceti e di stili di vita, raffigurato plasticamente da tutte le analisi del voto degli ultimi anni, che hanno contrapposto benestanti soddisfatti dei centri cittadini a popolo delle periferie che esprimeva un bisogno al tempo stesso di ribellione e di protezione.

Non è che mancassero offerte di sinistre possibili, anche molto variegate, se pure di scarsa qualità: a questo punto è mancata la domanda di sinistra, diciamo. Tutta la sinistra (moderata, radicale, antagonista) è stata percepita e giudicata dall’elettorato come parte integrante di un sistema da cambiare.

Assistiamo anche in Italia all’inabissamento della sinistra liberal che era stata a lungo egemone con la sua visione del mondo. La stessa cosiddetta «sinistra radicale» era stata null’altro che l’ala estrema di questa ideologia diffusa, sensibilissima alle tematiche dei diritti civili e delle battaglie «umanitarie», di fatto inerte sul terreno dei diritti sociali.

E anche complice della costruzione del mito europeista, che è sullo sfondo il grande sconfitto di questa consultazione. Parte integrante dell’establishment europeista il Pd, molto spesso ascari della «più Europa» i suoi critici di sinistra.

Non solo euro e regole ci troviamo di fronte, ma anche una ideologia complessiva potentissima e pervasiva, un fronte politico e culturale vastissimo, convinto che «più Europa» sia la soluzione ai problemi che l’Europa stessa ha posto con la sua folle attuazione. Si tratterebbe di affrontare un lavoro di lunga lena per demistificare – come si diceva un tempo – le risultanze di una egemonia costruita con molti decenni di impiego massiccio di risorse culturali, mediatiche, economiche, ma che riposa su basi storiche e teoriche fragilissime, testimoniate da quell’imbarazzante documento che è passato alla storia come «manifesto di Ventotene».

Il problema dell’europeismo di sinistra è che ormai non è più soltanto ideologia sostitutiva di quelle novecentesche crollate nell’89 e non è più solo «religione civile» imposta ai sudditi dall’establishment. Ma ormai è religione vera e propria, con i suoi dogmi, i suoi atti di fede cieca e assoluta, il credo quia absurdum (credo perché è assurdo) e anche una dose massiccia di sacrifici umani. Cominciare almeno a porre il problema, discuterne apertamente e laicamente a sinistra, sarà sicuramente un fatto positivo (oltre che doveroso).

Senza ripensare tutto sarà impossibile ripartire. Non mi faccio grandi illusioni, la Repubblica continuerà a delirare su populismo e «sovranismo», la sinistra continuerà a trattare da fascisti e razzisti le masse popolari che esprimono disagio per le loro condizioni di vita, continuerà a discettare di «ossessioni securitarie» e a immaginare che il “multiculturalismo” sia un pranzo di gala privo di lacerazioni e drammi. Si lascerà alla destra la difesa dell’interesse nazionale, e perfino l’esercizio della sovranità costituzionale per la quale avevamo votato il 4 dicembre del 2016.

«Non ci interessa la sovranità nazionale, siamo internazionalisti» dichiara la dirigente di una lista elettorale che ha preso l’1,1%. Ci si chiede da quando questa posizione, che ignora perfino il significato delle parole, e che sarebbe impossibile spiegare ai cubani, ai vietnamiti, ma anche ai curdi e a qualunque altro popolo, sia diventata luogo comune nella sinistra italiana.

Anziché evocare il Popolo bisognerebbe cominciare almeno a parlarci. Quando ci si deciderà a farlo non sarà mai troppo tardi.

Tomaso Montanari – storico dell’arte, intellettuale gauchiste e ogni tanto, per così dire, agitatore politico – non ha dubbi: “È andata bene”. Si riferisce ai risultati delle urne e, in particolare, alla batosta presa dalla parte politica a cui appartiene: “La sinistra che c’era in realtà non c’era: quella che non aveva più nulla di sinistra, cioè il Pd, ma anche la penosa operazione di Liberi e Uguali e il velleitarismo di Potere al popolo che non ha neanche i voti di Rifondazione. L’anno zero è un bene, si riparta dalle macerie”.

Domanda provocatoria: dice che con la sua “lista del Brancaccio” andava meglio?

Risposta provocatoria: se il M5S mi contatta per il ministero dei Beni culturali evidentemente pensa che il mio nome parli a quel pezzo di elettorato che oggi sceglie i 5 Stelle venendo da sinistra. D’altronde l’idea del Brancaccio era costruire una sinistra diversa – nel linguaggio, nelle proposte e nelle persone – che dialogasse col Movimento, mentre alla fine LeU ha deciso di competere col Pd per poi accordarcisi. Secondo me una lista costruita coi nostri criteri poteva davvero puntare al 10%.

E invece LeU ha preso il 3 e spiccioli…

Perché molti elettori di sinistra hanno votato 5 Stelle, hanno riconosciuto qualcosa nelle loro parole d’ordine: è evidente anche dal fatto che l’affluenza non è scesa poi così tanto. A meno che non si pensi che improvvisamente il 75% dell’elettorato sia diventato di destra.

Torniamo ai suoi rapporti coi 5 Stelle: farà il ministro?

Non lo so, vedremo. Il problema che ho posto all’inizio è la loro proposta di modifica della Costituzione, cioè l’introduzione del vincolo di mandato. Ora però si verifica una situazione bizzarra: Luigi Di Maio, che propone di vincolare i parlamentari al “mandato”, cercando intese post-voto si muove in modo costituzionalmente impeccabile in un Parlamento nato da una legge proporzionale; dal Pd rispondono che gli elettori li hanno messi all’opposizione, cioè ragionano – ammesso sia vero – come se ci fosse il vincolo di mandato.

Lei è dunque uno dei sostenitori dell’accordo di governo M5S-centrosinistra.

Berlinguer, con l’astensione del Pci, consentì nel 1976 la nascita del governo Andreotti e Andreotti non era uno antipatico, ma uno che secondo una sentenza definitiva in quel periodo aveva rapporti con la mafia. Che in Parlamento si dialoghi è normale, specie in una Repubblica parlamentare. Mi pare che l’establishment non abbia del tutto capito cosa sta succedendo.

Un bel pezzo però, anche a livello europeo, liscia il pelo agli ex populisti dei 5 Stelle.

L’idea di fondo in questi ambienti è che serva un potere stabile e, banalmente, si affidano a chi ha più forza numerica tra quelli che sperano “compatibili”. Ma il Movimento tiene finché resta anti-sistema, se riesce a capovolgere il sistema.

Il buon Longanesi diceva: “Un’idea che non trova posto a sedere è capace di fare la rivoluzione”.

È per questo che ho preferito rimanere in piedi. Io credo e spero che non si debba diventare democristiani appena si arriva al potere. Ho visto che hanno fatto una campagna rassicurante, ma se fossimo di fronte all’ennesimo episodio di gattopardismo della storia italiana sarebbe una tragedia.

Ma l’accordo col Pd non sarebbe già un segnale?

No, secondo me di fronte a due opzioni – un governo M5S e quello a guida Salvini – il Pd dovrebbe porsi un problema di responsabilità. Ovviamente non certo in cambio di nulla: ci si incontra, si discute del merito delle questioni, perché forme di reddito di cittadinanza, ad esempio, sono una storica proposta di sinistra. Io nel 2013 firmai un appello con altri per un governo 5 Stelle-Pd e allora Grillo ci prese in giro: oggi la penso come allora e spero che il veto non arrivi dall’altra parte.

Dal Pd potrebbero giustamente obiettare: rischiamo di scomparire.

Il Pd scompare se continua a fare la destra (vedi Calenda), mentre il suo popolo esiste ancora: quel popolo è andato a votare e in larga parte ha scelto i 5 Stelle. In nome di quale ortodossia ci si dovrebbe opporre a lasciar nascere un governo? Gramsci avrebbe detto: dov’è il popolo?

Quelli di LeU, invece, ci starebbero.

Su LeU voglio dire una cosa: è stato un episodio grave. Un ceto politico ha dirottato la richiesta di una sinistra diversa per garantire la propria perpetuazione e ora in Parlamento vanno gli Epifani, i Bersani. Dovrebbero sparire, dimettersi tutti e lasciar posto in Parlamento a qualcuno più giovane e meno compromesso. Mi dispiace farne una questione personale, ma è personale: nessun futuro passa attraverso di loro.

 

di Marco Palombi | 11 marzo 2018   Il Fatto Quotidiano

Il risultato elettorale è andato peggio di ogni più funesta previsione.

L’analisi che ne consegue non può non essere netta, contraddistinta da luci (poche) ed ombre (molte).

Gli aspetti negativi di questo voto sono per me certamente da individuare nei seguenti fatti:

il bacino elettorale

LEU non è riuscito in alcun modo ad intercettare i voti in uscita dal Partito Democratico che sono stati quasi totalmente riversati sul Movimento 5 Stelle individuato dagli elettori come una forza politica credibile e in grado di poter “contare” (e non come il “populismo” e “l’antipolitica” come spesso superficialmente sono stati etichettati all’interno di una sinistra autoreferenziale e impermeabile agli stimoli provenienti dalla società).

I territori

In questa analisi non si può sottacere in alcun modo un altro dato.

I territori, pur impegnati nell’organizzazione di una fittissima rete di iniziative in campagna elettorale, non sono riusciti ad andare oltre, non sono riusciti a parlare con coloro con i quali abitualmente non parliamo, ci siamo ripiegati su noi stessi convincendo i già convinti della bontà delle nostre idee. Abbiamo un sistema di comunicazione sbagliato, da aggiornare ai tempi e all’elettorato. Dobbiamo uscire, farci vedere, parlare con le persone, non solo e sempre con e fra di noi.

I candidati

I candidati eccellenti oggi non sono più “un valore aggiunto”, ma forse, paradossalmente, un valore che si rivolta contro se stesso. Occorre discontinuità, quella vera, quella viscerale.

Guardiamo gli eletti sui territori e guardiamo soprattutto i “non eletti” di LEU.

Abbiamo al nostro interno eccellenze assolute che però sono state piegate a logiche vecchie di apparato e di ponderazione fra i componenti del percorso elettorale. Abbiamo eccellenze che meritavano sul campo un altro mandato per portare avanti le molte attività in cui si sono spesi che abbiamo subordinato ad una scelta dirigista e romanocentrica. Questo modo di fare politica NON PAGA PIU’. Dobbiamo dircelo. Dobbiamo chiedere alla Dirigenza Nazionale un passo indietro (o avanti, decidete voi!) vero, deciso, forte.

i giovani

non vengono da noi più intercettati, non offriamo spazi democratici, guardiamo con diffidenza a tutti quelli che si affacciano da noi, non diamo loro prospettive ( un esempio su tutti: parlare di ripristinare l’articolo 18 a chi non sa neanche cos’era l’art. 18 non può funzionare), non parliamo il loro linguaggio. Oggi chi vuol cambiare il mondo e ha meno di 30 anni vota Movimento 5 Stelle, non più la sinistra come negli anni 60 e 70. Allora eravamo in grado di rappresentare le battaglie sociali, oggi per la maggioranza dei giovani, rappresentiamo noi stessi.

Il PD

E’ giunto il momento di tagliare il cordone ombelicale. Basta compromessi ed ammiccamenti. Dobbiamo essere altro! Se continuiamo a percepirci come la spalla di qualcun altro non possiamo lamentarci del fatto che anche gli elettori ci vedono così

La coerenza e la credibilità

Termino questa analisi con due concetti per me indissolubili fra loro e per questo ancor più importanti. La coerenza politica porta credibilità, la credibilità si conquista con la coerenza dei comportamenti e delle scelte. Lasciando ad altri le analisi più approfondite mi limito ad affermare che LEU nel percorso di aggregazione, di individuazione delle candidature, di “continuità” con un passato che non sempre ci ha fatto onore non è stata in grado di garantire coerenza e credibilità, non nelle persone, ma nel progetto politico.