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IN GUERRA. Supermaggioranza atlantista con Pd e Calenda. Conte si unisce ai rossoverdi: basta invii

 Giorgia Meloni alla Camera - LaPresse

Trova le differenze tra Giorgia Meloni, nella sua prima comunicazione al Parlamento in vista del Consiglio europeo, e Mario Draghi? Ci sono se si guarda ai toni, perché la premier è per indole più stentorea e bellicosa. Quanto alla sostanza, invece, è una fotocopia: la posizione sulla guerra e sulla reazione, anzi sull’assenza di reazione, della Ue alla crisi energetica è identica. Persino sull’immigrazione lo scarto è esiguo. Il voto confermerà l’esistenza di una supermaggioranza atlantista che sulla guerra e l’adesione totale agli imperativi della Nato mette da parte ogni distinguo, e si blinda.
ALLA CAMERA LA RELAZIONE della presidente passa col voto contrario del M5S e di ASV, mentre Pd e Terzo Polo si astengono. Ma al Senato dove, previa comunicazione del ministro Crosetto, si vota una più concreta risoluzione sull’invio delle armi l’astensione non basta. Pd, Terzo Polo e maggioranza si votano vicendevolmente le rispettive risoluzioni. In serata stesso film alla Camera, con i deputati di Articolo 1 che non votano a favore della maggioranza e non dicono no alle mozioni del M5s e dei rossoverdi: una presa di distanza dalla

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SCOMPARSE. Addio a 87 anni al giuslavorista bolognese, studioso che si è battuto con la Fiom per i diritti dei lavoratori. Fu a fianco dei metalmeccanici della Cgil nella battaglia che portò alla vittoria in Corte costituzionale nei confronti di Marchionne e contro il Jobs act di Renzi

 

Etica, acume e ironia. Umberto Romagnoli se n’è andato a 87 anni nel giorno in cui la Fiom di Bologna ha concluso il suo congresso. Una coincidenza che non può essere casuale.
Il «professore» da tempo era malato ma dalla sua casa del centro non aveva smesso di dare il suo contributo al sindacato con cui aveva tanto collaborato.

SE IL DIRITTO DEL LAVORO in Italia perde uno dei suoi più grandi pensatori e demiurghi, la Fiom (e la Cgil) perdono un amico prezioso, sempre vicino ai lavoratori.
Memorabile fu il suo impegno nella battaglia contro la «rivoluzione» di Marchionne e il cosiddetto «modello Pomigliano»: il «ricatto» che scambiava «la speranza di un posto di lavoro» con «la rinuncia a diritti fondametali come quello di sciopero». Un impegno che lo legò strettamente a Maurizio Landini con cui impostò la strategia giuridica che portò alla vittoria in Corte costituzionale e al ritorno della Fiom nelle fabbriche Fiat, da cui il manager col maglioncino l’aveva cacciata. Una battaglia poi proseguita nell’opposizione al Jobs act renziano che secondo Romagnoli puntava a «far scomparire il sindacato senza neppure darsi la pena di abrogarlo». Scriveva Romagnoli: «Quella del Jobs act è una storia d’inganni, furbizia malandrina e apparenze falsificanti. Ce n’è per tutti i gusti. Si va dall’uso (senza precedenti) di anglicismi con un forte impatto mediatico, ma d’incerto significato nella stessa lingua-madre, all’uso spericolato di parole che reclamizzano la figura di un contratto di lavoro (quello a “tutele crescenti”, ndr) spacciato per innovativo mentre alle spalle ha un’esperienza secolare».

LUNGO TANTI ANNI, I LETTORI del manifesto lungo tanti anni hanno imparato ad apprezzarne la sagacia e la chiarezza di pensiero. Il tema centrale dei suoi editoriali era «la destrutturazione del diritto del lavoro»: dal decreto Sacconi alla sostanziale abolizione dell’articolo 18, Romagnoli ha sempre motivato con eleganza e al tempo stesso con verve polemica la sua contrarietà ad ogni intervento che facesse arretrare i diritti dei lavoratori.
Romagnoli, a quarant’anni di distanza, definiva «lo statuto dei lavoratori» «il più serio tentativo di riportare la realtà sindacale nel quadro costituzionale». E denunciava da anni il processo di «privatizzazione del diritto del lavoro», partito con il famoso pacchetto Treu per passare al famigerato articolo 8 di Sacconi: la possibilità di derogare al contratto nazionale di lavoro.

IL SUO ULTIMO ARTICOLO sul manifesto è uscito nel maggio del 2020. Ricordava un collega più giovane di Romagnoli, quel Massimo D’Antona ucciso dalla Br nel 1999. Si chiudeva proponendo «una torsione al diritto del lavoro» che mettesse al centro la «cittadinanza».

Tantissimi i ricordi e le reazioni alla notizia della scomparsa di Romagnoli. Prima fra tutte l’Alma mater per la quale insegnò per decenni Diritto del lavoro pubblicando moltissimi testi: Il lavoro in Italia. Un giurista, Il Mulino, 1995; Giuristi del lavoro. Percorsi italiani di politica del diritto, Donzelli 2009. L’università di Bologna gli darà l’ultimo saluto venerdì alle 15, alla Cappella Bulgari in Archiginnasio.

LA CGIL LO HA RICORDATO in una nota in cui sottolinea come «il professore» sia stato «protagonista della stagione statutaria, sempre vicino al movimento sindacale, attento alle nuove tendenze del mercato del lavoro e coraggioso innovatore della frontiera dei diritti, fine letterato capace di innestare nel codice linguistico giuslavoristico una spiccata fantasia, con lui finisce la generazione dei padri costituenti».

Il Comune di Bologna invece ricorda lo storico «Commentario allo Statuto dei lavoratori» del 1970, scritto nel 1972 insieme a Giorgio Ghezzi e sottolineando il suo «esempio di impegno civile e di integrità morale».

A Bologna intanto veniva rieletto segretario della Fiom Michele Bulgarelli: un suo studente di Diritto del lavoro che lo ha ricordato con affetto. La lezione di Umberto Romagnoli nel «suo» sindacato non verrà mai dimenticata.

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ECONOMIA DI GUERRA. L'Autorità di regolazione del mercato avvia un'istruttoria e ha preso provvedimento cautelari contro sette fornitori di energia e gas che hanno modificato unilateralmente i prezzi nel corso del 2022. Le aziende protestano e si difendono. Le associazioni dei consumatori: "Bene, ma non basta. Bisogna intervenire anche sui produttori". Il caso è importante e interessa l'80% del mercato italiano

Caro-bollette, l’Antitrust: «No agli aumenti per sette milioni di persone» Bollette impazzite - Ansa

Sono 2,66 milioni i consumatori che hanno già subito aumenti ingiustificati dei prezzi delle bollette di gas ed elettricità da parte di Enel, Eni, Hera, A2a, Edison, Acea e Engie. E altri 4 milioni e 879.836 cittadini potranno ricevere brutte notizie nelle loro bollette. Ad essere danneggiate dal caro bollette registrato nel primo anno dell’economia di guerra potrebbero essere in totale 7 milioni 546.963 persone. Lo sostiene l’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato che ha avviato sette procedimenti istruttori e ha deciso di adottare altrettanti provvedimenti cautelari contro le principali società fornitrici di energia elettrica e di gas naturale che rappresentano circa l’ottanta per cento del mercato italiano.

PROVVEDIMENTI analoghi sono stati già adottati contro le società Iren, Dolomiti, E.On e Iberdrola e sono l’esito di un’indagine svolta su 25 imprese da cui è emerso che solo circa la metà degli operatori ha rispettato la legge evitando di modificare le proprie condizioni dopo il 10 agosto 2022, giorno in cui è entrato in vigore il «decreto aiuti bis», o ha revocato gli aumenti illecitamente applicati. Le imprese dovranno sospendere l’applicazione delle nuove condizioni economiche, mantenendo o ripristinando i prezzi praticati prima di quella data. Alle imprese è stata contestata la mancata sospensione delle comunicazioni di proposta di modifica unilaterale delle condizioni economiche, inviate prima di agosto e, quelle che hanno aggiornato o rinnovato i prezzi di fornitura, di carattere peggiorativo. Cambiamenti che sono stati giustificati sulla base di una scadenza delle offerte a prezzo fisso. Ad Acea in particolare è stata anche contestata la modifica unilaterale del prezzo di fornitura perché è stata inviata prima dell’entrata in vigore del «Decreto Aiuti bis» e non è stata «perfezionata» prima della stessa data. Entro sette giorni, le imprese potranno difendersi e l’Autorità potrà confermare o meno i provvedimenti cautelari. A quel punto dovranno sospendere l’applicazione dei nuovi prezzi, mantenendo o ripristinando quelli praticati prima del 10 agosto 2022. Inoltre dovranno comunicare all’Autorità le misure che adotteranno. La risposta delle aziende non si è fatta attendere. Edison sostiene di non avere mai fatto modifiche unilaterali e che l’interpretazione del decreto è «illegittima». Così ieri hanno fatto Hera e A2a. Quest’ultima sostiene di avere permesso un risparmio «di circa 520 milioni di euro rispetto ai prezzi del mercato tutelato nei primi 9 mesi del 2022».

LE ASSOCIAZIONI dei consumatori ieri sono entrate in ebollizione dopo l’annuncio. Assoutenti ha chiesto di chiarire quali potrebbero essere le modalità di un eventuale rimborso e ha posto il problema dell’organizzazione del mercato capitalistico dell’energia. Per capire il senso di questa notizia bisogna partire dalla distinzione tra fornitori e venditori. Le imprese interessate dai provvedimenti dell’Autorità sono i venditori che «hanno comprato l’energia ad un determinato prezzo più caro e lo hanno venduto sottocosto qualora abbiano obblighi contrattuali a tariffe fisse» sostiene il presidente di Assoutenti Furio Truzzi. «Tale richiesta però – aggiunge – è immotivata in presenza di scadenze contrattuali sopravvenite senza obbligo di rinnovo automatico. Abbiamo bisogno di uscire dalla confusione e dagli annunci clamorosi». A Truzzi risulta che alcuni dei casi esaminati dall’Autorità potrebbero rientrare nella seconda ipotesi. E questo potrebbe portare a un contenzioso infinito con gli utenti senza alcun vantaggio per questi ultimi, a cominciare dagli indennizzi a chi ha subìto l’aumento delle tariffe in maniera unilaterale. Dunque, l’intervento andrebbe fatto anche alla fonte, sui produttori di energia, e non solo sui venditori.

«NON BASTA» sostiene il Codacons che ha annunciato di avere presentato un nuovo esposto a 104 procure per accertare se le pratiche adottate possano configurare «fattispecie penalmente rilevanti, dalla truffa all’appropriazione indebita fino all’interruzione del servizio pubblico». Nel frattempo si resta in attesa anche della decisione del Consiglio di Stato per il 20 dicembre che dovrebbe pronunciarsi sul blocco di tutti gli aumenti di luce e gas nel 2022 e tornare alle tariffe precedenti. Chiesta anche un’istruttoria all’Arera sui «super-profitti» delle aziende e sul reale prezzo pagato per acquistare gas e energia rivenduti ai consumatori a tariffe stratosferiche».

LE IMPRESE «dovrebbero mettere in atto le decisioni del Garante – sostiene Altroconsumo – È bene che gli utenti inviino un reclamo al proprio operatore con un modulo predisposto dall’associazione. Per l’Unione nazionale consumatori il codice di condotta dell’Arera prevede un preavviso non inferiore ai tre mesi. Dunque, visto che la legge è entrata in vigore il 10 agosto, ogni comunicazione delle variazioni dei prezzi successivo al primo maggio «non è più valido». Federconsumatori ha infine ricordato che il blocco delle variazioni contrattuali è ancora valido fino al 30 aprile 2023.

 

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PD, PRIMARIE AL MIELE. Ma che differenza c’è tra Elly Schlein e Stefano Bonaccini? E soprattutto: perché i due principali sfidanti alla guida del Pd evitano di rispondere alla domanda, che è persino banale […]

Elly Schlein e Stefano Bonaccini a Bologna nell’ottobre 2021 foto di Ansa Stefano Bonaccini con Elly Schlein - Ansa

Ma che differenza c’è tra Elly Schlein e Stefano Bonaccini? E soprattutto: perché i due principali sfidanti alla guida del Pd evitano di rispondere alla domanda, che è persino banale in una sfida politica per la leadership di un partito? La scorsa domenica televisiva ha alimentato i dubbi: lui a In Onda su La7, lei nel salotto di Fazio su Raitre. Identica la volontà di sfuggire al quesito dirimente.

Certo, c’è il fair play, ancora più comprensibile tra chi fino a poche settimane fa governava insieme la stessa regione. Legittima anche la volontà di non alzare i toni dello scontro, di fugare i rischi di scissione. Lui svicola perché vuole essere ecumenico, sentendosi in vantaggio, almeno tra gli iscritti. Lei invece vuole rassicurare la truppa che intende guidare pur essendosi iscritta al Pd solo ieri, “non sono una marziana”.

E tuttavia la situazione attuale del partito rende questa ritrosia incomprensibile. Goffredo Bettini nel suo ultimo libro ha spiegato che nel Pd convivono un’anima critica verso il modello capitalista ed una apologeta, che vuole fare piccoli ritocchi di tipo redistributivo ma senza scomodare nessuno ai piani alti.

Questa divaricazione è evidente agli occhi di qualsiasi osservatore, si è persino insinuata dentro il dibattito del comitato dei 100 che dovrebbe riscrivere il manifesto dei valori. Personalità come Orlando, Cuperlo, Speranza e la politologa Nadia Urbinati hanno documentato come il Pd sia nato in un’altra era geologica, del tutto sprovvisto degli strumenti per far fronte a una crisi economica e sociale come quella attuale. Un partito buono come perno di governi di unità nazionale e poco più.

Altri hanno legittimamente replicato che invece va tutto bene così, che servono solo piccoli ritocchi, che l’impianto di Veltroni del 2007 non ha perso la sua spinta propulsiva: l’unità dei riformismi, la vocazione interclassista, il patto tra produttori che sfuma il conflitto sociale in un pranzo di gala. Sono due posizioni politicamente legittime, in Francia le interpretano Mélenchon e Macron, che però sono avversari politici, non compagni di partito.

Enrico Letta è stato l’ultimo segretario a tentare di far sopravvivere la politica del “ma anche”: come vice ha scelto la liberale Irene Tinagli e il laburista Peppe Provenzano. Ha difeso il governo Draghi come il migliore possibile e poi ha presentato agli elettori un programma schiettamente di sinistra sui temi del lavoro. Ha sostenuto la linea iperatlantista sull’Ucraina ed è sceso in piazza per la pace. Non ha funzionato.

E da questa è sconfitta è scaturita la necessità impellente di fare chiarezza, condivisa da quasi tutti, almeno a parole. Di scegliere una linea e un profilo chiari. Che non vuol dire buttare fuori i liberali (o i socialisti), ma fare come i grandi partiti progressisti europei: al congresso vince una linea, gli altri stanno in minoranza, come fece Corbyn negli anni del blairismo. Il Pd invece è così fragile da non riuscire a permettersi di scegliere, perché i big temono che la maionese impazzisca. Ma sotto il fuoco incrociato di Calenda e Conte il tempo del “ma anche” è finito.

Ora, nessuno pretende da Bonaccini e Schlein una disputa filosofica sull’attualità di Marx. Ma i nodi di fondo vanno affrontati a viso aperto. Anche perché tra loro alcune differenze ci sono: è evidente che lei si pone tra i critici dell’attuale modello di sviluppo, che ha parole più chiare su diseguaglianze e precariato (sulle proposte occorre attendere ancora).

È parimenti evidente che lei guarda con più attenzione al M5S e alle forze di sinistra, mentre lui è più in sintonia con Calenda e Renzi, punta sull’impresa «che crea ricchezza, altrimenti non c’è nulla da redistribuire», anche se con una venatura più sociale. Però non lo vogliono dire. Schlein a domanda ha risposto: «Differenze tra noi? I capelli e la barba». E poi, a domanda successiva: «Per fare emergere le differenze dovremmo fare un confronto pubblico». E lui: «Non mi sentirete mai criticare Elly di cui sono amico, non ne posso più di una classe dirigente che si fa la guerra dentro casa».

Lei non accetta neppure la vecchia contrapposizione «riformista vs radicale». E parla di quanto il governo Meloni trascuri temi come il precariato e il clima. Persino il mite Fazio la incalza: «Sì ma io le ho chiesto di Bonaccini…». Niente da fare. Per capire su cosa intendano contrapporsi bisogna leggere tra le righe: lui punta sull’«esperienza» di chi per anni ha governato il partito locale e poi la regione; lei sulla maggiore «credibilità» di una nuova generazione.

A poco serve ricordare ai due sfidanti che negli Usa alle primarie scorre il sangue, cosa che anche il moderato Prodi ricordò ai due contendenti nella sfida del 2021 per il sindaco di Bologna. A queste primarie invece scorre il miele, accompagnato da tarallucci e vino. Una melassa che rischia di mettere sotto il tappeto, ancora una volta, le profonde divisioni che nel Pd esistono. E viene il sospetto che il “ma anche” sopravviverà anche dopo il 19 febbraio. Lui segretario e lei vice. O viceversa. Tanto che differenza c’è?

 

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SBALLATI. La maggioranza: eliminare la «congruità» dell’offerta di lavoro, versare l’affitto direttamente al locatore, sanzionare i «Neet». Meloni aggiorna il «diario» virtuale, svia le critiche di Bankitalia sulla manovra e contesta solo le critiche sulla «Flat Tax» e il «tetto al contante»

 Giorgia Meloni, in un video dal suo profilo Facebook durante la rubrica 'gliappuntidigiorgia' - Ansa

la legge di bilancio segnalati dalla maggioranza nella quinta commissione alla Camera ce ne sono almeno tre utili per capire come il «reddito di cittadinanza» sarà fatto a pezzi e ripensato, in attesa del suo ripensamento.

IL PRIMO EMENDAMENTO è stato presentato da una delle gambe della maggioranza, «Noi Moderati» di Maurizio Lupi che intende togliere il sussidio agli «occupabili» dopo sei mesi e non più otto come sostiene il governo Meloni. Inoltre si cerca di eliminare l’astratto concetto di «offerta congrua di lavoro» togliendo la parola «congrua». Nella prospettiva improbabile di un lavoro questo significherebbe che i beneficiari del «reddito» sarebbero costretti ad accettarlo anche a mille chilometri di distanza dalla residenza con paghe da fame e contratti precari. Dal canto suo il governo taglierà il numero delle offerte da due a una. Chi non l’accetta, perderà il sussidio teoricamente prima di agosto quando sarà abolito per gli «occupabili». È una prospettiva prevedibile già da quando i Cinque Stelle con la Lega hanno collegato il «reddito» alle offerte di lavoro.

UN ALTRO COLPO BASSO ai beneficiari potrebbe arrivare dall’emendamento che prevede l’erogazione del contributo all’affitto direttamente al proprietario di casa. Chi riceve il reddito dovrebbe comunicare i dati del locatore alle autorità. Apparentemente si tratta di una diversa declinazione della misura esistente, in realtà si tratta della negazione dell’autonomia dei beneficiari già ristretta dai paletti posti dal governo Conte 1 che impone, tra l’altro, di spendere l’imposto del «reddito» entro il mese. La norma è una di quelle che nega la possibilità a chi è in difficoltà di risparmiare e gestire spese impreviste che possono rendere la vita ancora più difficile a chi è in condizioni di necessità.

TRA GLI EMENDAMENTI che tendono a controllare e disciplinare i «poveri» ci potrebbe essere anche quella sbandierata dall’ideologo del governo, il ministro «dell’Istruzione e del Merito» Giuseppe Valditara. La Lega ne ha presentato uno che lega il «reddito» all’iscrizione e alla frequenza di un percorso di studi almeno triennale per i beneficiari del «reddito» tra i 18 e i 29 anni che non lavorano, né studiano (i cosiddetti «Neet»). Giovani disoccupati e precari, che cercano di integrare salari irrisori e intermittenti, per lo più costretti a vivere nell’economia informale, subirebbero gli effetti di un uso sanzionatorio o ritorsivo di uno strumento che, per loro, terminerà comunque ad agosto.

DAL PACCHETTO emendamenti è spuntato uno firmato dai capi gruppo di maggioranza e opposizioni che deroga al Jobs Act e chiede la sospensione dei vincoli ai contratti a tempo determinato per i dipendenti di gruppi parlamentari e consiliari. Tra quelli presentati dalle opposizioni (250) c’è quello dei Cinque Stelle che prova a salvare 5 mila assegnisti di ricerca che rischiano di essere espulsi dalle università a causa dell’applicazione delle nuove norme sulle assunzioni.

LA PRESIDENTE del Consiglio Giorgia Meloni, ripresasi dalla febbre, ieri ha riaperto il suo «diario» virtuale. E ha ribadito, in primo luogo, che il «bonus cultura» per i diciottenni sarà rimodulato in base all’Isee familiare, non ancora precisato il tetto (25 mila euro?). Il tutto per evitare «truffe» che rappresentano una percentuale infinitesimale. Prospettiva contestata da tutta l’industria del libro in un comunicato congiunto con i sindacati: «Legare la carta cultura al reddito, cancellarne il carattere universale, vuol dire svilirne la natura di sprone alla partecipazione». Meloni ha cercato anche di riorientare, e sminuire, il senso delle dure contestazioni all’impianto della legge di bilancio fatte dalla Banca d’Italia in un’audizione la settimana scorsa. Meloni ha ridotto le critiche solo al Pos («Togliere le commissioni sarebbe incostituzionale», al «tetto del contante» e alla «Flat Tax». E le ha pure equivocate. Sul Pos Fabrizio Balassone, capo del servizio della struttura economica di Bankitalia, ha detto che «il costo del contante in percentuale dell’importo della transazione è superiore a quello delle carte di debito e credito». Sul taglio del «reddito di cittadinanza» nella prospettiva di un aumento della povertà nel 2023 quando l’economia rallenterà rischiando inflazione e recessione. Sulla «Flat tax» Balassone ha visto il rischio di «trattare in modo ingiustificatamente dissimile individui con la stessa capacità contributiva». Ci sarà una discriminazione tra i dipendenti e le partite Iva. E tra le partite Iva medio-ricche e quelle proletarizzate.

 

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QATARINTANGENTI. L’allarme della presidente dell’Europarlamento. Perquisizioni a tappeto a Strasburgo

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Visi lugubri, ieri nel tardo pomeriggio a Strasburgo, all’inizio della riunione plenaria dell’Europarlamento. Il Qatargate, scoppiato venerdì e gonfiato nel fine settimina, sta scuotendo tutte le istituzioni della Ue. E’ esploso nell’anello più debole e per di più quasi esclusivamente a sinistra, tra i socialisti, con effetti dirompenti tra le ong umanitarie (due sono implicate: Fight Impunity e No Peace without Justice, che ha padrini eccellenti, sono membri onorari l’ex Mrs.Pesc, Federica Mogherini, l’ex primo ministro socialista francese, Bernard Cazeneuve, l’ex commissario Dimitris Avramopulos, Emma Bonino).

IERI È STATO PERQUISITO il Parlamento europeo, dove ssarebbero stati sigillati alcuni uffici (tra questi quello dell’eurodeputato Pd Andrea Cozolino). L’inchiesta è stata fatta dalla polizia belga, mentre nessuna struttura della Ue finora si era mai inquietata delle derive di corruzione, di quello che per molti potrebbe essere «la punta dell’iceberg» e nascondere vergogne molto più diffuse. Quattro persone sono in stato di arresto, la più significativa è quella della greca Eva Kaili, una dei 14 vice-presidenti del Parlamento europeo (è in carcere, l’immunità parlamentare non ha giocato perché è stata presa con le mani nel sacco, piene di banconote). Per il momento, è stata sospesa dalla carica, ma per dimetterla ci vorrà un voto con una maggioranza dei due terzi (l’Autorità greca indipendente contro il riciclaggio ha congelato i suoi beni, mentre il Pasok l’ha esclusa, come il gruppo S&D). Il Qatar aveva particolare interesse a fare pressione sull’Europarlamento alla vigilia della World Cup, sicuro di poter trovare orecchie sensibili, tanto più in un periodo di crisi energetica, con Doha molto sollecita a fornire Gnl agli europei affamati di energie fossili.

IERI, IN UNO STATO di precipitazione, la presidente dell’Europarlamento, Roberta Metsola, che nel fine settimana ha dovuto tornare in fretta a Bruxelles per assistere alle operazioni di polizia (come vuole la legge belga), ha convocato in una riunione informale i presidenti dei gruppi parlamentari. Per Metsola, «la democrazia europea è sotto attacco» e promette un’inchiesta interna. La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha affermato in mattinata che i sospetti di corruzione sono «molto gravi», si tratta di «sospetti estremamente preoccupanti», perché la relazione tra cittadini e la Ue «è questione di fiducia nelle persone al cuore delle nostre istituzioni. Questa fiducia suppone standard elevati di indipendenza e di integrità». Ma anche la Commissione ha le sue colpe: da tempo aspetta in fondo ai cassetti di diventare realtà la proposta di creare un’autorità indipendente sulle questioni etiche. L’Alto Rappresentante per la politica estera, Josep Borrell, si è detto «molto preoccupato» e assicura che segue l’inchiesta passo dopo passo. Reazioni anche da molte capitali. La ministra degli Esteri tedesca, Annalena Baerbock, dopo aver parlato di scandalo «incredibile», che «adesso deve essere elucidato senza equivoci e sulla base della legge». Per Baerbock «ci va di mezzo la credibilità della Ue». La presidenza ceca del Consiglio parla di «corruzione inaccettabile».

RISATE DA BUDAPEST: «Ciao Parlamento» ha detto Viktor Orban, scatenato, che ha pubblicato una foto di Reagan e Bush ilari, con un testo polemico, «qui ecco che hanno detto che erano davvero preoccupati per la corruzione in Ungheria» (il Parlamento ha votato sulla corruzione in Ungheria e la Commissione sta bloccando il versamento di più di 13 miliardi per i finanziamenti del Piano di rilancio e dei Fondi di coesione).

COSTERNAZIONE tra gli eurodeputati. La maggior parte dei sei indiziati di aver preso parte a un «sistema di corruzione a vantaggio di uno stato del Golfo» (la giustizia belga non ha specificato) sono deputati o ex, o assistenti, appartenenti in maggioranza al gruppo S&D (socialisti). Come gli italiani Pier Antonio Panzieri (deputato fino al 2019): la presenza di ex parlamentari tra i presunti corrotti è significativa, difatti all’Europarlamento questi ex continuano a sfruttare le loro relazioni e a operare nella più grande oscurità, senza nessuna regola da rispettare. Tra gli indiziati c’è anche il sindacalista Luca Visentini, che è stato alla testa della Ces e dal mese scorso era stato nominato segretario generale dell’International Trade Union Conference, istituzione che è stata un’eccezione tra i sindacati europei, perché ha rifiutato di condannare il Qatar per il non rispetto del diritto dei lavoratori (una posizione presa già prima del suo arrivo).

«SONO FUORI DI ME perché quando si fa correttamente il proprio lavoro al parlamento europeo, vedere queste attitudini che portano discredito a tutti, fa male», ha detto il deputato verde David Cormand, riassumendo un’opinione ampiamente condivisa. Manon Aubry, della Left, che ha difeso una risoluzione di condanna del Qatar per il non rispetto dei diritti durante i lavori per la Coppa del Mondo, sospetta: «io andrei anche a interessarmi della destra, perché il Ppe è sulle stesse posizioni di S&D sul Qatar». Difatti, tre settimane fa, al difficile voto sulla risoluzione sul Qatar un bel gruppo di S&D ha votato contro (tra cui anche la presidente, Iratxe Garcia Perez) e solo una dozzina a favore. I gruppi dei Verdi, Renew e Left avevano rifiutato un incontro sollecitato dall’ambasciatore del Qatar, accettato invece dagli altri partiti presenti all’Europarlamento.

IL QATARGATE È UNO SCOSSONE. Già a brevissimo tempo, dovrebbe essere escluso un voto, che era previsto, per abolire i visti dei cittadini del Qatar che vengono nello spazio Schengen per meno di 90 giorni (già approvato nella commissione «libertà civili» con il voto di alcuni oggi incriminati). Dovrebbe anche essere annullata la tappa a Doha di alcuni europarlamentari nel Golfo, prevista tra due settimane. Ma in seguito l’Europarlamento dovrà fare i conti con il peso delle lobby e dei conflitti di interesse. Transparency International afferma di «non essere sotto choc» per lo scandalo: «sono dieci anni che lavoriamo sull’etica e sulla deontologia, ma non ci ascoltano». A Bruxelles esiste un «registro» delle lobby, a cui dovrebbero iscriversi tutti coloro che intervengono nelle istituzioni. Ma questo registro, oltre a non essere obbligatorio per il Parlamento, non si applica ai paesi terzi non Ue. Cioè, stati esteri possono fare pressione sotto traccia, come è successo con il Qatar.

IL COMMISSARIO ALLA GIUSTIZIA, Didier Reynders, si è impegnato ieri a «rendere molto più forti le regole per lottare meglio contro la corruzione».

 

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