IL LIMITE IGNOTO. Incontra Macron alla Casa Bianca e dice "conferenza a Parigi", ma non è quella di pace, è quella già convocata di aiuti all’Ucraina
Civili ucraini salgono a bordo di un mezzo di evacuazione a Pokrovsk, nel Donbass - Getty images
Da una parte, una conferenza stampa di due ore e mezzo: il ministro degli esteri russo Sergei Lavrov non sarà una vescica di ferro come Giorgio Almirante, che nel 1970 parlò per dieci ore contro il nuovo ordinamento delle regioni, o gli antichi radicali di fine anni ’70 (i Boato, i Teodori, i Cicciomessere) che bloccavano il parlamento anche loro per una decina di ore ciascuno, ma insomma, a 72 anni è comunque una prodezza.
Dall’altra Joe Biden e Emmanuel Macron, presidenti di Stati uniti e Francia, che si sono incontrati ieri a Washington in un faccia a faccia preceduto da dichiarazioni non tutte amichevoli, e invece filato talmente liscio che la dichiarazione congiunta dopo l’incontro, oltre alla scontata dichiarazione “sosterremo l’Ucraina finché sarà necessario” e “lavoriamo insieme perché la Russia sia riconosciuta responsabile dei suoi crimini”, aggiunge la citazione di “una conferenza internazionale che si terrà a Parigi il 13 dicembre”.
CITAZIONE che ha fatto correre un brivido di eccitazione su molti media – soprattutto italiani – nella speranza che un colloquio di pace fosse dietro l’angolo. Non sembra così, purtroppo: quella citata da Biden e Macron è solo la conferenza internazionale di assistenza all’Ucraina convocata dall’Eliseo il 1. novembre scorso, concordata con il presidente ucraino Zelensky, per garantire a Kiev di sopravvivere all’inverno nonostante le infrastrutture distrutte, l’elettricità che non c’è, l’acqua che manca.
Joe Biden si è detto “disposto a parlare con Putin se dicesse di voler mettere fine alla guerra, ma finora non lo ha fatto”. Macron ha dichiarato che “continuerà a parlare con Putin per cercare costantemente le condizioni per la pace”. Tutto qui, per ora.
L’UOMO DEGLI AFFARI esteri del presidente Putin, invece, ha detto che “la Nato e gli Usa sono direttamente coinvolti nel conflitto, non solo con la fornitura di armi ma con l’addestramento di personale militare” ucraino. Sergei Lavrov ha anche detto Ha detto che “il papa ha usato parole poco cristiane” denunciando le crudeltà commesse da burieti e ceceni – etnie russe – nel conflitto, “forse è stato un malinteso, ma questo non aiuta l’autorità dello stato pontificio”. Ha detto che la Russia aspetta che in Unione europea si presentino persone sensate con proposte sensate, “secondo il “ministro degli esteri” della Ue Joesp Borrell il conflitto deve finire con la vittoria dell’Ucraina sul campo di battaglia, e questo la dice lunga sulla diplomazia europea” – questa della vittoria militare dell’Ucraina come fine della guerra è una costante che si sta ripetendo sempre più spesso nelle ultime settimane, e non può portare a nulla di buono.
MA ALLA FINE, Lavrov ha detto che John Kerry è l’americano di cui i russi potrebbero fidarsi: “L’ho incontrato più di cinquanta volte, e adesso vedo in John una persona sinceramente interessata a risolvere i problemi insieme”. Peccato che il candidato presidenziale sconfitto da Bush jr quasi vent’anni fa non sia nemmeno più ministro degli esteri, come fu con Obama, ma inviato speciale del presidente Biden per il clima – che è certamente una questione centrale del pianeta, ma non è a colpi di de-carbonizzazione che si risolverà la guerra in Ucraina. Ma importa davvero il suo ruolo formale?
E non aiuta certo il continuo battere dei leader occidentali sui crimini di guerra russi, che pure sono certamente stati commessi, ma a giudicare i quali non può essere una potenza vincitrice – accadde a Norimberga alla fine della seconda guerra mondiale, ma il mondo si augura di non vedere mai l’inizio della terza.
IL LEADER dell’Occidente e il suo omologo francese hanno invece insistito molto sul “riconoscere la Russia come responsabile delle sue colpe” nell’aggressione all’Ucraina e nei crimini di guerra che ne sono derivati. A questo proposito in Europa ha fatto scalpore la proposta di Von der Leyen di istituire un tribunale speciale contro Mosca, una cosa abbastanza tremenda che scavalcherebbe la Corte penale internazionale – e hanno in qualche modo ridotto le distanze pre-incontro, con Macron che criticava gli aiuti pubblici alle aziende americane nella grande finanziaria “anti-inflazione” di Biden, e Biden che rispondeva – e anche ieri ha risposto – di non esserne assolutamente pentito, anzi, ma che avrebbe fatto il possibile per sostenere l’economia francese.
Vertice Biden-Macron sull’Ucraina. I due leader rilanciano la Conferenza di Parigi in dicembre, ma è il summit sulla ricostruzione che era già previsto. Il presidente Usa pronto a incontrare Putin, solo a parole. Mentre Lavrov definisce «cobelligerante» la Nato e attacca anche il papa, resta una certezza: il governo Meloni invia armi a Kiev. La pace può attendere
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SALARIO ZERO. Nonostante la Direttiva Ue il governo alla camera si limita a impegni generici per il 2024. Manovra, Cgil e Uil «mobilitate». I pochi aumenti automatici previsti (pensioni e contratto badanti) tagliati o criticati
Una cameriera al lavoro, una delle tante categorie interessate dall'introduzione di un "salario minimo" - Foto LaPresse
Più che «salario minino», salario zero. Nel giorno in cui l’Istat stima il tasso di inflazione stabile all’11,8% – valore più alto in occidente – la maggioranza Meloni boccia il «salario minimo» in tutte le sue versioni, compresa quella mediata dall’ex ministero del Lavoro Andrea Orlando e che vedeva i sindacati confederali a favore: estensione erga omnes dei minimi del contratti nazionali e, solo per i lavoratori esclusi, introduzione di un salario minimo orario di 9 euro comprensivo di tutte le voci complementariì (contributi, Tfr, ferie, malattia) e definito Trattamento economico complessivo (Tec).
A GESTIRE IL DIBATTITO alla Camera è stato l’ineffabile neo sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon (demiurgo del flop Quota 100 e ora Quota 103) che in poche parole si è fatto beffa perfino della Direttiva europea che impone una sostanziale introduzione del «salario minimo» nei (pochi) paesi ancora sprovvisti entro il 15 novembre 2024. Proprio i due anni di tempo-limite sono stati la ragione addotta dalla maggioranza per bocciare il provvedimento condendolo di farneticanti e contraddittori impegni. No all’introduzione del salario minimo, al suo posto il governo dovrà invece «raggiungere l’obiettivo della tutela dei diritti dei lavoratori attraverso una serie di iniziative, a partire dall’attivazione di percorsi interlocutori tra le parti non coinvolti nella contrattazione collettiva», «monitorare e comprendere motivi della non applicazione, avviare un percorso di analisi rispetto alla contrattazione collettiva nazionale» (sic). I 163 voti a favore da parte della maggioranza, 121 no (M5S, Pd e Avs) e 19 astenuti (Azione-Iv). Respinti tutti i testi delle opposizioni a prima firma di Andrea Orlando (Pd), Giuseppe Conte (M5S)e Marco Grimaldi (Avs), financo quella minimale di Matteo Richetti.
In questo modo vanno al macero almeno 4 anni di lavoro fra governi e sindacati prima sulla proposta Catalfo (9 euro «soglia dignitosa valida per tutti») e poi su quella Orlando, che ieri ha portato il suo partito a votare a favore di tutte le proposte, anche quella del M5s.
Il voto è stato criticato da tutti i sindacati, perfino dalla Cisl, la più recalcitrante al «salario minimo legale»: «È paradossale che dopo mesi di proficuo lavoro anziché capitalizzarne gli esiti si ricominci da zero il dibattito», protesta il segrerario confederale Giulio Romani.
IL TUTTO AVVIENE A CONFERMA di un dibattito politico e mediatico paradossale. Tutti sostengono la gravità della situazione di impoverimento generale dovuto all’aumento dell’inflazione ma allo stesso tempo gridando e denunciando i pochi casi di meccanismi di tutela automatica che garantiscono in parte adeguamenti all’inflazione stessa.
L’esempio delle pensioni è lampante: già il 9 novembre il ministro Giorgetti aveva denunciato l’impatto nefasto per i conti pubblici (50 miliardi in 10 anni) dell’indicizzazione delle pensioni: il meccanismo di perequazione con cui l’Istat ha fissato al 7,3% medio l’aumento degli assegni per difenderli in parte dal caro-vita (all’11%). Quella dichiarazione era il prodromo del taglio ora previsto in legge di Bilancio. Indicizzazione tagliata per oltre 4,3 milioni di pensionati e risparmio per le casse statali di oltre 36,8 miliardi sempre in 10 anni.
Ieri la Cgil ha aggiunto altri dati: in legge di bilancio per il capitolo previdenza per il 2023 ci «sono solo 726,4 milioni di euro, si sottraggono al sistema ben 3,7 miliardi di euro» in gran parte per il taglio della rivalutazione delle pensioni in essere (3,5 miliardi) con i paletti stringenti che prosciugheranno Opzione donna («solo 870 uscite rispetto alle 2.900 previste») e Quota 103: platea «di sole 11.340 persone, di cui 9.355 lavoratori e appena 1.985 lavoratrici».
Il secondo esempio è più ristretto ma altrettanto illuminante. Ieri è arrivato l’allarme su colf e badanti: «il contratto collettivo scade al 31 dicembre e in assenza di un accordo, dal primo gennaio scatteranno gli aumenti automatici che prevedono l’adeguamento all’80% dell’inflazione con un incremento delle retribuzioni del 9%, insostenbile» per Assindatcolf.
I SALARI RESTANO DUNQUE in totale balia dell’inflazione e nemmeno la 13esima (per chi la percepisce) sarà detassata, come invece chiedevano i sindacati.
La partita sulla manovra intanto va avanti. La convocazione di Cgil, Cisl e Uil per mercoledì 7 da parte di Meloni ha quietato solo la Cisl: «Un risultato che premia il pressing di questi giorni». Cgil e Uil invece ieri hanno già intrapreso la via della mobilitazione, «nessuna esclusa». La Cgil nel suo Direttivo ha deciso all’unanimità di non attendere l’incontro a palazzo Chigi dando mandato alla segreteria di «mettere in campo tutte le iniziative di mobilitazioni necessarie», seppur «nel confronto con Cisl e Uil». Sulla stessa linea la Uil che nel suo Esecutivo ha deciso di «avviare un percorso di mobilitazione». La divisione dello sciopero generale dell’anno scorso Cgil-Uil riaffiora tutta.
Commenta (0 Commenti)CONGRESSO PD. Evento a Roma per la neodeputata. Bettini loda il sindaco di Pesaro ma precisa: il candidato più autorevole resta Orlando
Elly Schlein rompe gli indugi. Ieri ha annunciato sui social un appuntamento per domenica mattina a Roma, al Monk, un locale in passato teatro di eventi della Cgil.
«Abbiamo bisogno di vederci con le tante persone con cui ci siamo scritti e sentiti in queste settimane dentro il Pd così come fuori», spiega. «Abbiamo bisogno di confrontarci attorno a quella visione di futuro fatta di proposte concrete che vogliamo portare come nostro contributo a questo percorso, bisogno di organizzarci e di costruire insieme una nuova strada che parta da noi, da voi, e che attraversi il Paese per cambiarlo», il messaggio di Schlein. «Ci vediamo domenica, sarà una bella cosa», ha risposto ai cronisti che le chiedevano se intenda annunciare la sua candidatura alla guida del Pd.
L’evento di Schlein durerà al massimo un paio d’ore. Ci saranno personalità del Pd e non, l’intervento finale della neodeputata sarà il cuore della mattinata. La scelta è caduta su una domenica, esattamente due settimane dopo la candidatura di Stefano Bonaccini, il 20 novembre a Campogalliano, Modena. Schlein, che pure è bolognese dai tempi dell’università (nata a Lugano) ha invece optato per la Capitale, dove già a marzo aveva organizzato una convention a cui avevano partecipato Enrico Letta e Giuseppe Conte.
Per ora, l’ex vicepresidente dell’Emilia-Romagna balla da sola: una scelta in parte voluta da chi gioca molto sulla novità e sull’estraneità ai logori meccanismi del Pd; in parte subìta, perché la sinistra dem (quella a lei più vicina) continua a non credere in questa candidatura.
Mentre il possibile sostegno dell’area Franceschini (che pure è divisa al suo interno) non piace alla stessa Schlein. E tuttavia nel primo tempo del congresso, quello che si giocherà tra gli iscritti (per scegliere i due da mandare alle primarie) il sostegno dei big del Pd è indispensabile.
Importante sarà vedere chi della sinistra parteciperà domenica all’evento di Schlein. Brando Benifei, capodelegazione in Europa e considerato non lontano dalla sensibilità della deputata (che lo ha citato nel discorso in cui ha aderito al congresso) non ci sarà per un impegno già in agenda e avverte: «Ora concentriamoci sull’identità prima che sui nomi».
Nelle ultime ore nella sinistra interna sta maturando la candidatura di Matteo Ricci, il sindaco di Pesaro di cui si parla da settimane anche se non è ancora sceso in campo ufficialmente. Lunedì Goffredo Bettini lo ha elogiato durante la presentazione nelle Marche del suo ultimo libro: «Delle piattaforme presentate finora quella di Ricci è quella che sento più vicina».
Anche Andrea Orlando lunedì ha mandato un segnale: «Apprezzo il suo approccio perché ha provato a caratterizzarsi partendo dai problemi del Paese e non in una dinamica prettamente interna». «Naturalmente siamo ai primi passi», precisa Orlando, come a dire che a sinistra nessuna decisione è stata ancora presa. Anche l’ex segretario Zingaretti è considerato in avvicinamento a Ricci.
Ieri Bettini è tornato sul tema parlando con Open: «Allo stato attuale le idee proposte da Ricci mi sembrano le più convincenti. Ma non mi pare affatto che Orlando si sia sfilato. Continuo a pensare che sarebbe il candidato più autorevole». Da vedere come si posizioneranno i governatori del sud, a partire da Michele Emiliano che lunedì ha partecipato alla presentazione con Bettini e Ricci.
Sul fronte opposto Bonaccini continua a mandare segnali di dialogo a Dario Nardella, che alla fine potrebbe decidere di sostenere il governatore emiliano. Tra i due è previsto un incontro nei prossimi giorni.
Commenta (0 Commenti)CRISI UCRAINA. Dopo le proteste, il governo cambia strategia. M5S, Verdi e Si per la «via diplomatica»
L’emendamento al decreto sull’emergenza sanitaria calabrese all’esame delle commissioni esteri, difesa e affari sociali in Senato che conteneva la proroga dell’invio armi in Ucraina per tutto il 2023 è stato prima accantonato e successivamente ritirato.
LA DECISIONE del governo arriva dopo le proteste delle opposizioni, di fronte alle quali fonti ministeriali fanno sapere che l’esecutivo era alla ricerca di una scappatoia «tecnica» che rendesse agile e veloce la procedura. Soltanto che questa faccenda diventa a ogni giorno di guerra più politica, dunque di tutto ha bisogno tranne che di artifici regolamentari. «Il governo non si è mai nascosto sul tema dell’invio delle armi in Ucraina», spiega il ministro dei rapporti col parlamento Luca Ciriani al termine della conferenza dei capigruppo al Senato.
Il quale conferma che, come da provvedimento approvato dall’esecutivo precedente, il ministro della difesa Guido Crosetto dovrà riferire in aula dei successivi invii di armi. «La scelta dell’emendamento è ‘tecnica’ – dice sempre Ciriani – Per rendere più veloce il deposito e garantire la conversione dello stesso entro fine anno». Dopo di che, dal governo rivendicano «garanzie da parte dell’opposizione a convertire il decreto entro il 31 dicembre». In tal caso, il consiglio dei ministri prenderà in esame questa possibilità «perché non c’è nessuna volontà di nascondersi». Calendario di Camera e Senato alla mano, il provvedimento potrebbe comparire già all’ordine del giorno dela riunione del Cdm prevista per domani.
IL CAMBIO di strategia dell’esecutivo non sarebbe legato a indicazioni dirette da parte del Colle. Al momento, i tecnici di Palazzo Chigi e quelli del Quirinale stanno lavorando insieme sulla manovra di bilancio e non risulta che da Mattarella siano arrivate comunicazioni circa l’insolita forma che era stata scelta per la proroga dell’invio di armi. Di certo, tuttavia, hanno pesato i precedenti, in particolare l’infortunio sul decreto anti-rave. Ecco dunque che si è scelto di evitare altri possibili incidenti.
«ABBIAMO DATO più volte ampia e totale disponibilità di riferire alle Camere – conferma Crosetto – Ho chiesto al ministro Ciriani di ritirare l’emendamento in questione dopo che mi ha confermato l’impegno di tutti i gruppi parlamentari a calendarizzare un decreto sul merito della questione e ad approvarlo entro il 31 dicembre. Se il decreto in questione non venisse fatto entro tale data, prevista dalla legge, cadrebbe la copertura giuridica con la quale lo Stato italiano sta dando seguito agli impegni internazionali presi in sede Ue e Nato. Impegni presi dal precedente governo con il sostegno anche di Giuseppe Conte». Ma Conte e il M5S chiedono da tempo che la questione venga affrontata in una discussione in aula: il leader pentastellato ne parlerà in aula questa mattina. «Lo diciamo da mesi – anticipa Conte – è tempo di negoziati, non di armi e guerra a oltranza. Lo diremo chiaro a questo governo».
VERDI E SINISTRA italiana hanno presentato una mozione per chiedere al governo di «cambiare strategia e approccio nel necessario sostegno all’Ucraina». «Chiediamo di interrompere la fornitura di armi, concentrando le stesse risorse sull’assistenza umanitaria e sulle attività dei Corpi civili di pace – spiega la capogruppo a Montecitorio Luana Zanella – riconoscendone pienamente il valore di prevenzione e trasformazione dei conflitti, nella difesa non armata e non-violenta alternativa all’uso della forza. Chiediamo la convocazione di una conferenza multilaterale per la pace e la sicurezza guidata dall’Onu, vogliamo che il governo dia al parlamento ogni elemento utile circa la natura e la quantità di equipaggiamento militare fin qui fornito all’Ucraina». Zanella cita il parere del Capo di Stato maggiore Usa, Mark Milley, secondo il quale esiste «una bassa probabilità che l’Ucraina possa costringere militarmente la Russia a lasciare tutto il territorio ucraino che occupa». «In tale contesto – conclude la deputata rosso-verde – non è immaginabile nessuna soluzione militare al conflitto».
Commenta (0 Commenti)VI FACCIAMO NERI. Il ministro Piantedosi: le quote di lavoratori stranieri subordinate all’utilizzo di quanti percepiscono il reddito di cittadinanza
Prima gli italiani, anche per coprire quei lavori normalmente svolti da cittadini stranieri. A deciderlo è stato il governo che nella programmazione del prossimo decreto flussi, utile tradizionalmente a far arrivare in Italia lavoratori stranieri in base alle esigenze del mercato, ha stabilito che le quote di ingresso verranno calcolate sulla base di quanti, tra coloro che oggi percepiscono il reddito di cittadinanza, accetteranno un’offerta di lavoro andando così a coprire la carenza di manodopera.
Il risultato finale determinerà la quota di stranieri ai quali sarà permesso di entrare e lavorare legalmente nel nostro Paese. Non tutti, però, riceveranno lo stesso trattamento. Una corsia preferenziale verrà infatti riservata ai cittadini di quei Paesi che accetteranno di collaborare nel fermare le partenze dei migranti e di riprendere quanti verranno rimpatriati.
Ad annunciare le nuove misure è stato ieri il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi: «Abbiamo discusso tra i ministri interessati per cominciare a porre le basi. Ci stiamo lavorando, non escludo che a breve ci arriveremo», ha detto. Per poi aggiungere. «Il numero di lavoratori stranieri sarà al netto di coloro che percepiscono il reddito e possono essere canalizzati verso il mercato del lavoro».
Per il governo la norma che sta per essere messa a punto rappresenta la quadratura del cerchio permettendo di raggiungere tre obiettivi con un solo provvedimento: limitare gli ingressi di cittadini stranieri, premere con i Paesi di origine per una collaborazione più attiva e, infine, spingere quanti oggi percepiscono il reddito di cittadinanza ad accettare il lavoro che gli verrà proposto.
Per vedere concretizzate quelle che per ora sono solo proposte allo studio dei vari uffici ministeriali, non bisognerà attendere molto. E’ infatti verso la fine dell’anno che dal governo arrivano le cifre sull’entità dei nuovi ingressi legali. Il decreto varato l’anno scorso dal governo Draghi prevedeva l’ingresso di 70 mila lavoratori stranieri e nonostante il numero fosse il doppio rispetto ai decreti degli anni precedenti, dagli imprenditori arrivò una richiesta nettamente superiore. Quest’anno solo da Coldiretti è arrivato l’auspicio di una quota superiore alle 100 mila unità, ma i settori compresi dal decreto riguardano anche l’autotrasporto, l’edilizia e quello turistico-alberghiero.
«C’è un allarme nel mondo agricolo che chiede di occupare persone che non riescono più a trovare sul mercato interno e si rivolgono al decreto flussi, che significa programmare. Ma questo viene programmato a valle, a fine anno, sulla base di una fotografia di quello che è già avvenuto», ha detto il ministro dell’Agricoltura, Francesco Lollobrigida. Che spiega così la decisione di fare ricorso anche al bacino di quanti usufruiscono del reddito di cittadinanza. «Noi abbiamo chiesto di verificare se ci sono persone sul piano interno che vogliono lavorare nel settore primario. Io mi rifiuto di pensare che noi importiamo schiavi, ma occorre dare la giusta formazione».
La cornice giuridica delle nuove misure viene fornita dal testo unico sull’immigrazione che permette al datore di lavoro che intende avvalersi di una persona residente all’estero di farlo a condizione che non esista analoga disponibilità da parte di una lavoratore presente nel territorio nazionale. «E qui – ha spiegato Piantedosi – si apre la partita de percettori del reddito di cittadinanza».
Commenta (0 Commenti)WIKILEAKS. New York Times, Guardian, Le Monde: l’appello del network di giornali che ha lavorato con l’attivista
Londra, 8 ottobre 2022: la catena umana intorno al Parlamento in sostegno di Julian Assange - Alberto Pezzali/Ap
Forse siamo di fronte ad una svolta decisiva. Gli editori e la redazione di New York Times, Guardian, Le Monde, Der Spiegel, El Pais hanno scritto un appello assai importante sul caso del fondatore di WikiLeaks «…è tempo che il governo degli Stati uniti ponga fine alla causa contro Julian Assange per aver pubblicato segreti di stato…».
Si tratta di una pagina rilevantissima della sequenza che iniziò nel 2010, quando i cinque giornali internazionali (un network cui parteciparono gli italiani Espresso e la Repubblica nel periodo in cui sulle testate scriveva Stefania Maurizi, autrice del recente volume Il potere segreto) pubblicarono molte rivelazioni nate dal lavoro del gruppo diretto dal giornalista australiano. Com’è noto, le notizie riguardavano i misfatti delle guerre in Iraq e in Afghanistan, nonché una serie di 251.000 messaggi riservati del dipartimento di Stato Usa. Il cosiddetto Cablegate svelava brutture e arcani indicibili, ivi comprese gesta italiane non commendevoli.
I GIORNALI in questione, pur blasonati e interni alle élite internazionali, abbassarono la testa già nel 2011, quando le onde cominciarono ad incresparsi. E Assange fu lasciato solo, salvo l’impegno della citata Maurizi e di pochi altri.
Secondo le logiche spietate della repressione, la mannaia non tardò a calare sulla testa di un perfetto capro espiatorio, del nemico pubblico costruito a tavolino.
COME SI EVINCE dal testo pubblicato dal Guardian, il coraggioso navigatore dei mondi oscuri delle democrazie occidentali (Russia e Cina sono oggetto della polemica sulle libertà più agevoli e consueti) passò sul banco degli accusati. E, con somma ignominia del mondo dell’informazione che lo abbandonò per viltà, venne escogitata l’inverosimile minaccia di condanna per spionaggio in base ad una lontana legge del 1917.
Quindi, non essendo riconosciuta l’appartenenza alla categoria professionale, Assange non si vide riconosciuto il trattamento pur con fatica riservato ai protagonisti dei Pentagon Papers ai tempi della guerra del Vietnam: allora il primo emendamento della Costituzione di Washington fu lo scudo salvifico, mentre il ricorso all’Espionage Act travolse ogni certezza ne e del rapporto con la ricerca della verità.
Ora i quotidiani fratelli-coltelli fanno un’autocritica operosa, chiedendo alla all’amministrazione Biden di non incriminare Assange, come decise Obama per non vessare i principali organi di stampa coinvolti. In realtà, è una versione alquanto edulcorata della storia, perché i guai giudiziari cominciarono proprio in quella stagione, ancorché fosse poi l’età di Trump a precipitare verso la coercizione, per procura: grazie ai servigi della Svezia con le accuse di violenza sessuale poi ritrattate, e in virtù dell’azione poliziesca della fida Gran Bretagna. Proprio a Londra avvenne l’arresto il 12 aprile del 2019.
Assange è rinchiuso nel carcere speciale di Belmarsh nel Regno unito e si stanno definendo proprio in questi giorni le procedure dell’appello contro l’estradizione oltre oceano, grazie al collegio difensivo di cui è componente la moglie avvocata Stella Morris.
Sono intervenuti contro la condanna (175 anni in un apposito penitenziario) i presidenti del Brasile Lula e del Perù Pedro. Molteplici voci della cultura si sono levate a favore di Assange e numerosi comitati sono in piena attività.
LA FEDERAZIONE internazionale della stampa e la gemella italiana hanno assunto come propria l’iniziativa e l’ordine dei giornalisti ha consegnato al padre John Shipton – in occasione del premio dedicato a Roberto Morrione tenutosi in ottobre a Torino- la tessera professionale ad honorem.
Proprio tale riconoscimento, unito all’appello dei quotidiani, costituisce la premessa per la restituzione alle garanzie proprie del diritto di cronaca della vittima sacrificale.
Insomma, se una rondine non fa primavera, un’ammissione di colpa così forte da parte di chi ha alimentato le volontà delle istituzioni colpevoli è una rottura della continuità feroce degli ultimi anni.
JOE BIDEN ASCOLTERÀ? Quanto peserà sulle sue sensibilità l’orrore della guerra in Ucraina con le geopolitiche segnate dal conflitto? Troppo per un’immediata decisione. Tuttavia, all’establishment democratico non è certamente sfuggita la morale delle recenti elezioni di midterm: se si vuole frenare la parabola della destra repubblicana, qualche segnale dovrà pure uscire dalla Casa Bianca.
A proposito, ma la Repubblica si associa o no ai vecchi compagni di ventura?
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