LEGGE DI BILANCIO. La Cisl chiedeva il 100% fino a 5 volte il «minimo». Il governo concede solo 9 euro lordi al mese. Lo Spi Cgil: salta la rivalutazione a gennaio
Pensionati in fila in una sede dell'Inps
Briciole dovevano essere, e briciole sono state. Gli emendamenti del governo alla legge di bilancio in fatto di pensioni accontentano più Forza Italia che la Cisl. L’aumento delle pensioni minime a 600 euro era stato chiesto a gran voce da Silvio Berlusconi, che punta a quota 1.000 euro entro fine legislatura, per il suo elettorato di artigiani e commercianti che hanno eluso il versamenti dei contributi. Ma i 16 milioni di pensionati rimangono largamente la categoria più colpita dalla manovra e i risparmi dovuti al taglio della rivalutazione -il meccanismo di tutela relativa rispetto all’inflazione – restano la voce più importante di entrate: 3,7 miliardi nel 2023, circa 10 miliardi nel triennio.
Il pressing della Cisl per salvare la piena rivalutazione almeno per le pensioni fino a cinque volte il minimo (pari a 2.100 euro lordi, circa 1.600 netti) ottiene il misero risultato di una riduzione del solo 5% del taglio: l’emendamento del governo fa passare dall’80 all’85% la rivalutazione per gli assegni tra 4 e 5 volte il minimo (pari a 2.600 euro lordi, circa 2.000 netti). Le stime dello stesso governo parlano di un innalzamento di soli 9 euro lordi al mese (da 153 a circa 162 euro) rispetto a una «perdita media pro-capite di oltre 1.200 euro all’anno per 4,3 milioni di pensionati», come denuncia lo Spi Cgil.
Ma, mentre il misero innalzamento viene finanziato recuperando dagli altri scaglioni, i risparmi complessivi – 3,7 miliardi – vengono usati per finanziare l’innalzamento della flat tax per i lavoratori autonomi. Per finanziare l’emendamento infatti vengono riviste le rivalutazioni degli altri scaglioni pensionistici: dal 55% al 53% per quelle tra 5 a 6 volte il minimo; da 50% a 47% tra 6 e 8 volte da 40% a 37% da 8 a 10 volte e da 35% a 32% negli assegni oltre 10 volte il minimo (oltre 5000 euro).
Con questa operazione fra l’altro il governo riesce a risparmiare ulteriormente sul capitolo «rivalutazione»: altri 8 milioni. Una vera presa in giro verso i pensionati.
Beffa delle beffe, per i pensionati di questo scaglione, la rivalutazione a gennaio non ci sarà. Come denuncia lo Spi Cgil. «A causa della confusione e dei ritardi del governo nell’approvazione della manovra, a gennaio salta la rivalutazione delle pensioni per 4 milioni di pensionati – scrive in una nota il segretario generale Ivan Pedretti – . L’Inps non è stato messo nelle condizioni di erogare gli importi rivalutati per tutte le pensioni sopra 4 volte il minimo e quindi a rivaluterà solo quelle sotto». Si spera che il conguaglio sia a febbraio.
Commenta (0 Commenti)REGIONALI. L’assemblea del Coordinamento 2050 boccia la candidatura di Alessio D’Amato alla Regione Lazio
C’è una partita nazionale dentro le elezioni regionali di febbraio, Non riguarda solo la tenuta della già claudicante destra di governo. Ha a che fare con gli equilibri nel centrosinistra e la fine dell’egemonia del Pd. Se qualcuno ha ancora bisogno di capire come Giuseppe Conte si sta prendendo tutto ciò che non si riconosce nel Pd, deve ascoltare l’assemblea convocata da Coordinamento 2050, rete di sinistra che ha lo scopo di ancorare al fronte dei progressisti i 5 Stelle.
Più di duecento persone affollano il teatro della XII, estrema periferia di Spinaceto. Roma Sud. Siamo nel municipio che dovrà accollarsi i costi ambientali del mega-inceneritore voluto dal sindaco di Roma Roberto Gualtieri e che da anni affronta la questione della mega opera che collega Roma a Latina, una delle arterie che dovrebbe cimentarsi con il pendolarismo verso la capitale e che minaccia questo pezzo di agro romano. «Abbiamo promosso questo incontro perché il quadro per le regionali non è quello che avremmo voluto – dice Stefano Fassina – C’è un programma chiuso nonostante i punti controversi e un candidato deciso a priori».
Il convitato di pietra si chiama Alessio D’Amato, che il Pd e il Terzo polo hanno scelto unilateralmente come candidato alla presidenza della Regione anche in nome della fedeltà al termovalorizzatore di Roma. «Noi non ci rassegniamo . scandisce Fassina – Il Pd si fermi a riflettere». «A questa regione serve discontinuità – rincara la dose Loredana De Petris – Ci è stato impedito il un confronto programmatico». Tutte ragioni note, ma si capisce che c’è qualcosa di più. Paolo Cento sintetizza: con la crisi del ceto medio non basta più la buona amministrazione.
Il colpo al Pd arriva dai cosiddetti corpi intermedi. Erano tutti lì per «ascoltare», «interloquire», «confrontarsi». Fatto sta che sia i segretari regionali di Uil e Cigl, che il presidente di Arci Roma riconoscono a questo ambito la capacità di raccogliere le voci dai territori e dalle organizzazioni sociali. Il segretario regionale della Cgil Natale Di Cola non si spiega come mai le due consiliature di Zingaretti siano state dichiarate finite dall’oggi al domani. «Sono stati liquidati dieci anni. Questa non è più la regione di Batman. – dice Di Cola citando il soprannome del capogruppo del Pdl in quota post-Msi Franco Fiorito ai tempi della giunta di destra di Renata Polverini – Tutti hanno votato atti che dal 2019 vincolano a non fare più inceneritori. Si era scelto di andare a sinistra, là sono rimasto». Di Cola passa in rassegna i motivi per i quali la Cgil ha detto da subito no all’inceneritore. «Abbiamo detto no per tre motivi. Intanto, la partecipazione: non si può annunciare dall’oggi al domani un progetto del genere. Poi, il rispetto dei programmi elettorali. E la crisi globale: prima di bruciare tutto bisogna tentare un’alternativa. Potevamo costruire la multiutility dell’economia circolare. Ma abbiamo scelto arricchire i privati».
Quando arriva Giuseppe Conte Fa un comizio contro il governo e boccia D’Amato: «Non posso accettare una persona che deve alla Regione Lazio quasi 300 mila euro, perché ha creato un danno erariale accertato». In platea, dove compaiono da auditori anche quelli di Sinistra civica ecologista, si scatenano le interpretazioni. Il fatto che Conte abbia concentrato il fuoco sul D’Amato implicherebbe un segnale al Pd: un altro candidato e si riaprono i giochi. D’Amato ostenta sicurezza: «Le porte sono sempre aperte ma se hanno deciso di rompere se ne assumano a responsabilità». Paola Taverna, dalle retrovie, dice: «Entro due giorni chiudiamo». Il tempo della trattativa sembra davvero finito.
Giuseppe Conte-LaPresse
Commenta (0 Commenti)LEGGE DI BILANCIO. Buona adesione per la giornata finale della settimana di scioperi in tutte le Regioni. Salvini: protesta inutile, lasciate a piedi gli operai. La replica: non hai mai lavorato, sei tu che tagli il fondo Trasporti pubblici
La manifestazione di Cgil e Uil a piazza Affari a Milano - Foto Ansa
La settimana di scioperi di Cgil e Uil si è conclusa ieri con adesioni alte, piazze piene nelle undici regioni rimaste e un battibecco con Matteo Salvini.
Di primo mattino il leader leghista e vicepresidente del consiglio ha provocato i sindacati in un tweet in cui lodava «il buonsenso di Cisl e Ugl» che non sostengono «uno sciopero immotivato e ideologico contro il governo» e «non complicheranno la giornata a milioni di lavoratrici e lavoratori».
LA RISPOSTA È ARRIVATA dal palco di fianco all’altare della Patria a piazza Madonna di Loreto a Roma dove
Commenta (0 Commenti)SINISTRA. Il 22 dicembre primo incontro tra i tre (finora) candidati alla segreteria, Bonaccini, Schlein e De Micheli. Si terrà al Nazareno
Nel Pd traumatizzato dal Qatargate va avanti anche la discussione congressuale. Il 22 dicembre primo incontro tra i tre (finora) candidati alla segreteria, Bonaccini, Schlein e De Micheli. Si terrà al Nazareno, alla presenza di Enrico Letta: l’occasione sarà la discussione di un documento sottoscritto, tra gli altri da Graziano Delrio, Walter Verini e Giorgio Tonini, che ha l’obiettivo di tutelare le radici del partito, dall’Ulivo fino al Lingotto del 2007 di Veltroni. Il concetto è semplice: «Si può e si deve innovare profondamente, anche radicalmente, analisi, progetto, programma, ruolo, forma, e quindi identità dei democratici. Ma senza toccare le radici del Pd».
Ieri debutto romano per Stefano Bonaccini, che ha partecipato alla riunione di amministratori che era stata organizzata dal sindaco di Pesaro Matteo Ricci, inizialmente per lanciare la propria candidatura. L’evento, che si è tenuto a pochi passi da Botteghe oscure, è stato invece l’occasione per stringere la truppa attorno al governatore emiliano. Che ha ribadito la sua guerra alle correnti: «Sono un problema, un elemento di divisione, non aiutano il pluralismo». Il candidato ha anche annunciato di voler modificare lo statuto: «Un congresso non può durare 5 mesi, ma le primarie devono restare». E ha sposato la proposta di Ricci per una legge di iniziativa popolare sul salario minimo.
Bonaccini ha spiegato la necessità di «non lasciare a Meloni il popolo delle partite Iva, degli autonomi», ha ribadito il «valore sociale» dell’impresa e ha benedetto le mobilitazioni di Cgil e Uil contro la manovra. Oggi sarà a piazza SAnti Apostoli a Roma alla manifestazione indetta dei dem contro la finanziaria. Dal palco parleranno Letta, Speranza, Zingaretti e i candidati governatori del Lazio e della Lombardia, D’Amatop e Majorino. Tra i dem c’è timore per la riuscita dell’evento, che arriva nel mezzo della bufera sull’europarlamento. Bonaccini non alza i toni contro il governo: «Dobbiamo essere un partito che non demonizza l’avversario: se sarò eletto segretario andrò subito da Meloni per dire che come opposizione ad ogni “no” affiancheremo una proposta alternativa».
Se il governatore dice di voler fare del Pd un partito «laburista», sui temi sociali restano le distanze sui temi sociali con la sinistra interna, che ieri si è riuita via web per discutere della costituente. «Dobbiamo far sì che ci sia un controesodo della nostra base sociale, di quel mondo del lavoro che non ci ha più ritenuti affidabili», ha detto Peppe Provenzano, che ha lanciato una frecciata a Bonaccini: «Il lavoro lo crea l’impresa? Certo, ma può farlo anche lo stato: non a caso Biden, che non è un sovversivo, ha lanciato l’American Jobs plan».
E Andrea Orlando ha rincarato: «Si parla troppo di correnti e di contrapposizione abbastanza fittizia tra amministratori e rappresentanza centrale come se il nostro partito non fosse stato diretto quasi sempre da amministratori o ex amministratori».
Commenta (0 Commenti)Con la scusa dei tempi del Pnrr da rispettare la Lega impone la deregulation
Il nuovo codice degli appalti si riassume in un solo verbo: liberalizzare, liberalizzare, liberalizzare, liberalizzare. Se è solo Matteo Salvini, ministro delle Infrastrutture, a illustrarlo in conferenza stampa è solo per coincidenza, la premier essendo impegnata al funerale dell’amica uccisa nella strage di Roma. A volte però le coincidenze sono provvidenziali: il codice è un successo della Lega, che dell’abbattimento di vincoli e paletti aveva fatto una bandiera. La strada, è vero, la aveva aperta Mario Draghi: i limiti che restavano sono stati spianati ieri.
IL TESTO È VOLUMINOSO, 229 articoli, ma l’architrave è il ritorno della legge Obiettivo varata nel 2001 da Berlusconi e dall’allora ministro Lunardi: la filosofia e spesso anche la lettera sono quelle. Al centro del disegno figura l’appalto integrato, l’affidamento cioè della progettazione e dell’esecuzione dell’opera allo stesso soggetto, scelto con il criterio dell’offerta economicamente più vantaggiosa. È una dinamica che da un lato porta all’impennata dei tempi e delle spese, dall’altro abbatte la sicurezza sul lavoro. Sino all’ultimo minuto il Codice limitava ancora l’appalto integrato ai «lavori complessi». La specifica è saltata in extremis su insistenza del ministro delle Infrastrutture che esulta: «È l’iniziativa più importante del governo».
Torna sbrigliato anche il subappalto. A cancellare il vincolo che imponeva di non subappaltare lavori oltre il 30% dell’opera era stato già Draghi. Il nuovo governo conferma e rincara: ora è possibile appaltare anche i subappalti. Sarà contenta la Ue che ai vincoli sul subappalto è contrarissima. Peccato che brinderanno anche le grandi organizzazione criminali. Anche i piccoli comuni potranno procedere all’affidamento diretto o alla commissione autonoma delle opere con soglie vertiginosamente innalzate: da 40mila a 150mila euro nel primo caso, da 150mila a 500mila nel secondo. «È l’80% dei lavori», canta vittoria Salvini.
L’ANAC PROTESTA, in particolare per il depotenziamento molto drastico delle norme sul conflitto di interessi e l’eliminazione secca dell’elenco delle aziende che permetteva all’Autorità anticorruzione i controlli sugli affidamenti in house, quelli che le aziende assegnano a società da loro stesse controllate. La replica del leghista è definitiva: «L’Anac può rivolgere le sue critiche al Consiglio di Stato ma io rivendico la separazione dei ruoli e la cabina di regia è politica». Il sottosegretario alfredo Mantovano è più tassativo: «L’aveva detto la presidente che il nostro motto sarebbe stato ’Non disturbare chi vuol fare’». Un tempo era Laissez Faire ma la sostanza non cambia.
CON L’OBBLIGO di rispettare i tempi del Pnrr, missione che sarà ben più difficile nella fase di implementazione, la Lega ha avuto gioco facile nell’imporre la deregulation. Nel governo si è diffuso così uno sfrenato ottimismo a tutto campo. Ieri mattina il ministro Raffaele Fitto, responsabile dell’attuazione del Piano, ha convocato un vertice e alla fine ha annunciato che su 55 obiettivi 40 sono stati centrati, 10 in più di quelli lasciati in eredità da Draghi. Ne mancano 15 e i giorni a disposizione per tagliare in tempo il traguardo sono altrettanti, con le feste di mezzo. Fitto però è convinto che il governo ce la farà e incasserà senza problemi la prossima tranche del Next Generation Eu: «Ormai è questione di dettagli e a volte di adempimenti burocratici». Il problema si porrà nei prossimi mesi, quando bisognerà rinegoziare con Bruxelles un piano che l’impennata del prezzo delle materie prime ha reso impraticabile. Ma va da sé che arrivare all’appuntamento con gli obiettivi tutti raggiunti renderebbe la trattativa molto meno ardua.
OGGI DOVREBBERO arrivare anche gli emendamenti del governo alla manovra. Ieri sembrava in programma un vertice di maggioranza con i capigruppo, propedeutico alla presentazione degli emendamenti, probabilmente accorpati in un maxiemendamento, entro questa mattina. I tempi sono slittati e il vertice non si sa neppure se verrà convocato. Intanto però dovrebbe essersi concluso un lunghissimo braccio di ferro: i tempi della presentazione della dichiarazione di avvenuto inizio dei lavori per accedere al bonus del 110% e non del 90% slitteranno dal 24 novembre al 31 dicembre. Una vittoria per Fi.
Commenta (0 Commenti)BRUXELLES . Il Qatargate si è aggiunto alla lunga lista dei problemi irrisolti e da risolvere sotto la pressione di un’attualità ad alta tensione. Al centro del Consiglio europeo di fine anno, il primo per Giorgia Meloni, l’approvvigionamento di gas per il prossimo anno, il braccio di ferro sul price cap, nelle mani dei ministri dell’Energia che si riuniscono lunedì, e la competitività dell’industria europea scossa dalla minaccia americana. Concesso lo status di paese candidato alla Bosnia-Erzegovina
Ursula von der Leyen, Giorgia Meloni e Viktor Orbán al Consiglio europeo - Ansa
Lo scandalo del Qatar ha gettato un’ombra più che imbarazzante sul Consiglio europeo di fine anno, un ultimo terremoto – riguarda la questione fondamentale della fiducia dei cittadini nelle istituzioni europee – che si è aggiunto alla lunga lista dei problemi irrisolti e da risolvere sotto la pressione di un’attualità ad alta tensione. I capi di stato e di governo hanno puntato a liquidare la crisi della corruzione in apertura del vertice, nell’incontro con la presidente dell’Europarlamento, Roberta Metsola.
Ma il Qatar è stato il pesante elefante nella stanza per tutto il Consiglio, il primo per Giorgia Meloni: c’è la questione della garanzia di approvvigionamento sicuro del gas non per quest’inverno (abbiamo riempito gli stock con il gas russo) ma per il prossimo, 2023-24, quando il gas di Mosca non ci sarà più (la Ue importa complessivamente 400 miliardi di mq l’anno, 150 erano comprati ai russi).
DIETRO LE QUINTE, la corsa ancora in atto per concludere contratti con i produttori di energie fossili, le imprese tedesche hanno appena firmato un’intesa con Doha per forniture su 15 anni, la società energetica ungherese Mum sta trattando per il Gnl, Emmanuel Macron, che la vigilia era in Qatar per la partita, ha fatto affermazioni molto compiacenti sull’organizzazione dei Mondiali (la spiegazione ufficiale è che è andato a vedere perché la Francia deve organizzare il mondiale di rugby nel 2023 e le Olimpiadi nel 2024).
Il braccio di ferro sul price cap è nelle mani dei ministri dell’Energia, che si riuniscono di nuovo lunedì, le posizioni divergenti si stanno riavvicinando (un cap tra i 160 e i 220 euro il mwh, si era partiti da uno scarto tra 50 e 270 euro), dove dovrà essere trovato un accordo anche sulle modalità per avviare la procedura (tempi e modi), si lavora su diverse soglie a seconda delle condizioni per lo scatto. Quindici stati spingono per un cap effettivo, ma i contrari continuano a insistere sulla prudenza: sarebbe la prima volta che la Ue interviene direttamente sui mercati mondiali, un’incognita con il rischio penuria. La Commissione, con Germania, Olanda e altri preferisce spingere sul tasto del risparmio energetico, delle rinnovabili, della diversificazione delle fonti e degli acquisti congiunti.
I 27 LEADER hanno chiesto ieri alla Commissione di fare delle proposte entro il prossimo gennaio sulla competitività dell’industria europea, scossa dal caro energia e ora dalla minaccia che viene dagli Usa di essere esclusa dai mercati americani a causa dell’Inflation Reduction Act di Joe Biden (sovvenzioni per l’economia verde, ma solo made in Usa). C’è il rischio di una fuga degli investimenti industriali europei verso gli Usa. La Francia è alla testa del gruppo che vuole una task force europea, non per fare la guerra a Washington, ma per difendere la produzione europea (Macron vorrebbe un Buy European Act, respinto dai nordici). La presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha messo in guardia i 27: la Ue non deve perdere il vantaggio sulle produzioni verdi. Parigi propone un fondo per l’industria, ma una decina di paesi sono contrari (i nordici e i piccoli), temono un accaparramento dei finanziamenti da parte dei “grossi”, Francia e Germania.
La Commissione ha promesso un piano su un Fondo di sovranità entro l’estate (ne aveva parlato von der Leyen nel discorso sullo Stato dell’Unione a settembre). Per ora siano a un «momento di orientamento». Bruxelles mette avanti i 300 miliardi di RePowerEu per gli investimenti, ci sono ancora dei fondi non utilizzati del Piano di Rilancio, da destinare nei Recovery nazionali. Nella Ue sono stati spesi 540 miliardi dall’inizio della crisi energetica per attenuare la fiammata dei prezzi (50% dalla Germania, 30% dalla Francia, tra il 2% e il 4,5% per Danimarca, Italia, Spagna e Finlandia).
IL CONSIGLIO è stato tenuto sulla corda dalla minaccia della Polonia di bloccare la tassa del 15% sugli utili delle multinazionali, correlata al piano di condizionalità per l’Ungheria e al versamento di 18 miliardi all’Ucraina nel 2023 (1,5 miliardi al mese), appena approvato: alla fine Varsavia, che chiede lo sblocco dei 35 miliardi che le spettano per il Recovery, promettendo la tanto attesa riforma della giustizia, ha dato il via libera.
Sul tavolo, anche il nono pacchetto di sanzioni contro la Russia.
In fine, approvando le conclusioni del Consiglio affari generali, è stato concesso lo status di paese candidato alla Bosnia-Erzegovina. «Un segnale forte alla popolazione, ma anche una chiara aspettativa che le nuove autorità realizzino le riforme», ha commentato il presidente del Consiglio ue Charles Michel
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