AUTUNNO CARO. Per gli «occupabili» nel 2023 solo 8 mensilità, dal 2024 nessuna. Niente stop all’Iva su pane e latte, ridotto lo sconto sulla benzina
Il tavolo del Consiglio dei ministri - Ansa
«Sarà una manovra coraggiosa», anticipa Giorgetti prima di entrare nel vertice pomeridiano che dovrebbe sciogliere i nodi prima che il cdm, convocato per le 20.30, licenzi la legge di bilancio da 32 miliardi. E in effetti ce ne vuole di coraggio per fare cassa sulla pelle dei più deboli, pudicamente definiti «occupabili» anche se sarebbe più preciso chiamarli disoccupati o sottopagati. La premier, donna di carattere, quel coraggio ce l’avrebbe. La ministra del Lavoro Calderone no e quando il vertice, completato dai vicepremier Salvini e Tajani, apre i battenti il braccio di ferro va avanti già da ore.
A FARE UN PO’ PENDERE il piatto della bilancia a favore della ministra, che chiede di posticipare di un anno la mannaia per dare almeno
Leggi tutto: Taglio al reddito, mini rinvio. Manovra, tutti scontenti - di Andrea Colombo
Commenta (0 Commenti)Aveva 93 anni la leader dell'associazione che denunciò in tutto il mondo i crimini della dittatura militare argentina
E' morta, all'età di 93 anni, Hebe de Bonafini, la storica presidente delle "Madres de Plaza de Mayo", l'associazione che denunciò in tutto il mondo i crimini della dittatura militare argentina tra il 1976 e il 1977. Bonafini, che aveva perso due figli nella cosiddetta 'guerra sporca' in cui 30mila oppositori, attivisti, accademici scomparvero, insieme ad altre 13 madri di desaparecidos iniziarono la proteste nell'aprile del 1977, nella piazza di Buenos Aires da cui presero il nome, per chiedere al regime la verità sugli scomparsi. "Siamo un'organizzazione politica, con un progetto nazionale e popolare di liberazione", affermava Bonafini.
Commenta (0 Commenti)ARIA FRITTA. Via libera anche al fondo per i danni da riscaldamento ai «vulnerabili». Ma nessun riferimento a un picco delle emissioni nel 2025. Niente addio alle fonti fossili... Prevista la riduzione del solo carbone. Resiste il tetto di 1,5°C di aumento della temperatura rispetto all’era preindustriale
L’attivista climatica filippina Mitzi Jonelle Tan guida una protesta alla Cop27 - Ap/Peter Dejong
«Difendete il tetto massimo di 1,5°. Approvate il Fondo per le perdite e i danni. Non deludeteci». Questo chiedevano i cartelli di un gruppo di attivisti ieri alla Cop27 sul clima. Che avrebbe dovuto concludersi già il 18 ma si è giocata in un’atmosfera di caos, sospetti e colpi di scena. Una piccola Odissea ha conosciuto in particolare il fondo internazionale per le perdite e i danni (loss and damage) imputabili al riscaldamento globale nei paesi in via di sviluppo, chiesto da tempo da G77 e Cina e fino a pochi giorni fa negato dal Nord (che lo riteneva troppo oneroso).
Stando alle reazioni alle ultime bozze in vista dell’accordo finale, il fondo è stato istituito, ma l’Unione europea l’ha avuta vinta su alcuni elementi centrali. Aveva messo paletti già giovedì, quando con una svolta aveva deciso di accettare l’idea per non rompere con il Sud. Puntualizzava il vicepresidente della Commissione europea Frans Timmermans: «Noi possiamo accettare un fondo per le perdite e i danni, ma deve essere mirato ai paesi più vulnerabili, a chi ne ha davvero bisogno». Alla fine, ieri per non rischiare il fallimento G77 e Cina hanno accettato.
L’altra richiesta dell’Ue: «Il fondo deve essere basato su di un’analisi del mondo di oggi, dobbiamo ampliare la base di chi riempie questo fondo di soldi». Quindi non solo Ue, Usa, Giappone, Canada, Australia, ma anche paesi – soprattutto la Cina – che seguendo la suddivisione presente nella Conferenza Onu per i cambiamenti climatici – Unfcc del 1992 risultano ancora fra quelli in via di sviluppo; uno schema che secondo l’Ue va archiviato). E gli europei anche questo hanno ottenuto, anche se senza dettagli.
Soddisfatto a caldo – ma forse troppo ottimista? Dopotutto, non è chiaro come verranno circoscritti i paesi «più vulnerabili» – il capo dei negoziatori africani alla Cop27, il guineano Alpha Oumar Kaloga: «Trent’anni di pazienza. Il giorno è arrivato. È fatta. Sì, un nuovo fondo per rispondere alle perdite e ai danni nei paesi in via di sviluppo… Questo è un momento unico, una vittoria per tutti i cittadini del mondo. I capi delegazione hanno raggiunto l’accordo». Per l’ambientalista indiano Harjeet Singh, il nuovo fondo «dà speranza ai popoli vulnerabili di ottenere aiuto adeguato per riprendersi dai disastri climatici e ricostruire le loro vite».
Quanto agli altri aspetti «caldi», la bozza più recente mantiene il riferimento al tetto di 1,5°C di aumento della temperatura media rispetto all’era preindustriale, e ai rapporti dell’Ipcc (organismo scientifico intergovernativo per la valutazione dei cambiamenti climatici). L’Unione europea poneva il punto come condicio sine qua non per il suo sì al loss and damage, e in giornata aveva accusato il presidente egiziano della Cop27 di averlo ignorato in una delle bozze. Quest’ultimo spiegava che invece c’era. L’ambasciatore Alessandro Modiano, inviato speciale dell’Italia sul clima, precisava che la bozza «mantiene l’obiettivo di 1.5° formalmente ma svuota i meccanismi di monitoraggio e coordinamento concordato alla Cop26, per far sì che tutti i paesi si allineino all’obiettivo». Non chiarissimo. E Frans Timmermans, vicepresidente della Commissione europea, precisava: «Se non facciamo abbastanza per ridurre le emissioni e per tenere vivo l’obiettivo di 1,5 gradi, non ci sarà nessuna somma di denaro sul pianeta per affrontare i disastri naturali che avverranno».
Circa la purezza europea si mostrava scettico il Climate Action Network, coalizione di 1.900 gruppi in 150 paesi: «l’insistenza dell’Ue e di altri sugli 1,5°C non ha senso se i paesi ricchi continuano a investire nei combustibili fossili, permettono nuove esplorazioni, rifiutano di fare davvero la loro parte nell’azione climatica e non onorano i loro impegni per la finanza climatica a favore di una giusta transizione energetica dei paesi in via di sviluppo».
Nella bozza del documento, analizzata fra gli altri dall’Italian Climate Network, non viene invece menzionato il riferimento al picco delle emissioni globali al 2025. Quanto agli impegni climatici dei paesi, largamente insufficienti all’obiettivo di 1,5°C, come già indicato da bozze precedenti, si chiede l’aggiornamento dei piani di decarbonizzazione degli Stati (obiettivi al 2030) entro la Cop28 del 2023.
Sui combustibili fossili, si mantiene la blanda formulazione di Glasgow: riduzione (phase-down) del carbone (non di tutti come chiesto dall’India), e semplice eliminazione graduale (phase-out) dei sussidi «inefficienti». Indignati gli ambientalisti che ci vedono lo zampino dei lobbisti e dei petro-Stati. Certo, si riconosce il ruolo decisivo delle rinnovabili. Scomparso il paragrafo sui diritti umani e il diritto a un ambiente salubre presente nella bozza di due giorni fa. Compare la riduzione delle emissioni di metano, oggetto del patto Methane Pledge coinvolgente già 150 paesi.
Infine nella bozza si ammette che neanche quest’anno raggiungeranno i 100 miliardi di dollari in finanza per il clima a vantaggio dei paesi in via di sviluppo. Naturalmente. Sarebbe troppa grazia. Così come un riferimento alla necessità di un phase-down delle emissioni del settore militare, che se fosse un paese sarebbe il quinto al mondo.
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LA MAPPA. Taglio del "reddito di cittadinanza". Conseguenze drammatiche al Sud, lo dice anche il presidente di destra della Calabria Occhiuto. Nel mirino ci sono i precari, le donne, i giovani e gli stranieri: ecco i primi obiettivi del furore ideologico delle destre leghiste e postfasciste al governo ispirato all'aporafobia: la paura e l'odio del povero "che non lavora". E invece il governo colpirà innanzitutto coloro che lavorano ma non arrivano alla fine del mese. Ecco i dati
Salvini, Meloni e Berlusconi a Villa Grande - Ansa
Il taglio da 1-2 miliardi di euro al «reddito di cittadinanza» dovrebbe colpire 660 mila «occupabili» su 2,3 milioni di beneficiari complessivi di quello che, in realtà, è un sussidio di ultima istanza contro la «povertà assoluta». Questa prospettiva preoccupa anche le destre al governo delle regioni del Sud. Con le bollette alle stelle, l’inflazione record e la precarietà di massa l’effetto del taglio sarebbe drammatico.
Lo ha ipotizzato ieri il presidente della regione Calabria Roberto Occhiuto (Forza Italia). In una delle regioni dove «la povertà assoluta è tra le più alte, in questo momento – ha detto – non si può «cancellare il reddito». Occhiuto ha suggerito al governo Meloni, cioè alla sua maggioranza, di invertire le priorità: prima «le politiche attive del lavoro» nell’illusione che possano «incrociare domanda e offerta», poi la stretta contro i lavoratori poveri desiderata dalle estreme destre leghiste e postfasciste. È improbabile che il governo ascolti l’appello di Occhiuto. Il taglio del «reddito» è solo il primo «regalo» per lui, e i suoi colleghi meridionali. Il secondo arriverà con la «secessione dei ricchi», cioè le regioni del Nord: l’autonomia differenziata.
In più i giganteschi problemi che hanno impedito, e impediranno, di avviare un sistema di «politiche attive del lavoro» (il Workfare) restano ancora sul tavolo. E, prevedibilmente, saranno peggiorati dal taglio del «reddito».
La caccia ai 660 mila «occupabili» e beneficiari del «reddito di cittadinanza» colpirà di più in Campania e in Sicilia dove, secondo i dati dell’Agenzia Nazionale delle Politiche Attive del Lavoro (Anpal) (nota 9 dello scorso ottobre), c’è una concentrazione maggiore di beneficiari: il 47,2%. Un altro 24% risiede in Puglia, in Calabria e nel Lazio. Il restante 28,8% si suddivide fra 14 Regioni e due Province Autonome.
Si prepara un altro colpo di coda razzista. Il taglio al «reddito» rischia infatti di colpire i cittadini stranieri, in prevalenza comunitari. Gli extracomunitari non residenti da 10 anni sono stati esclusi da una norma razzista della legge sul «reddito» approvata dal governo «Conte 1» nel 2019. Per l’Anpal, gli stranieri comunitari che percepiscono il «reddito» e lavorano precariamente sono più numerosi degli italiani (34,3% contro il 18,8%).
Il senso della caccia al lavoratore povero del governo Meloni si comprende con l’analisi degli «occupabili». A giugno 2022 il 13% aveva un’esperienza di lavoro recente conclusa negli ultimi 12 mesi. Il 70,8% aveva conseguito al massimo il titolo della scuola secondaria inferiore. Solo il 2,8% possedeva titoli di studio terziari, mentre un quarto aveva un diploma di scuola secondaria superiore. Oggi si teme che, senza nemmeno un supporto a tempo e già condizionato come il «reddito», la loro situazione peggiori in un paese in cui tutti parlano di «lavoro», ma il lavoro (non precario) non c’è.
I primi candidati alla revoca del sussidio sono in realtà 173 mila persone che percepiscono il «reddito» e pagano spese di prima necessità a cominciare dalle bollette rincarate. Anche loro sono conteggiati tra i 660 mila «occupabili». La maggioranza (sei su dieci) risultava, a giugno, avere un rapporto di lavoro permanente o di apprendistato. Erano perlopiù donne, lavoratrici e straniere. Dunque la prima donna a palazzo Chigi colpirà le donne che lavorano e sono povere. Un cortocircuito creato dal furore ideologico chiamato «aporafobia» (la paura e il disgusto dei «poveri»). E, probabilmente, anche dalla modesta conoscenza delle politiche sociali.
Non solo. Si rischia di colpire i giovani under 30, cioè i più precari. Il 55% percepiva il «reddito», e lavorava con contratti a termine. Le destre stanno dunque, in queste ore, scivolando verso l’accanimento contro chi ha un rapporto di lavoro con durata compresa tra i 3 e i 12 mesi (il 66%). E il 19,3% aveva un contratto inferiore ai 3 mesi. Per questi lavori sono richieste «competenze basse e medio basse», così li descrive l’Anpal. Fuori anche loro. In attesa di un piano dettagliato nella manovra ieri M5S, Pd, Verdi-Sinistra hanno parlato di «classismo» e hanno annunciato «opposizione durissima».
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CRISI DEM. La proposta del segretario uscente raggiunge a fatica la soglia necessaria. Oggi Stefano Bonaccini annuncia la discesa in campo
Enrico Letta all'assemblea nazionale del Pd - LaPresse
La data per le primarie c’è. Il regolamento pure. I candidati si stanno facendo avanti. Sembra tutto pronto per il congresso (ri)costituente lanciato da Enrico Letta al momento delle sue dimissioni e varato ieri dall’assemblea nazionale del Partito democratico.
In mezzo a queste certezze, tuttavia, si trovano tutte le aporie della fase attuale.
LA CARICA dei 501 delegati necessaria a convalidare la proposta di modifica dello statuto è stata raggiunta a fatica, nonostante ai mille aderenti all’assemblea nazionale fosse stato concesso di poter partecipare anche da remoto.
Elezioni regionali permettendo i gazebo verranno montati il 19 febbraio, cioè almeno un mese prima di quanto pensasse l’attuale leader che
Leggi tutto: Passa il lodo Letta: primarie il 19 febbraio - di Giuliano Santoro
Commenta (0 Commenti)CRISI DEM. Oggi la riunione del parlamentino Pd. Tregua tra le correnti, la fase costituente durerà fino al 20 gennaio. La sintesi dopo una lunghissima trattativa, Bonaccini scalda i motori
Enrico Letta con Elly Schlein - Ansa
Primarie il 19 febbraio, presentazione delle candidature entro il 27 gennaio. Enrico Letta arriva oggi all’assemblea nazionale Pd con questa proposta, che ha il sapore di un ultimatum: prendere o lasciare. Il segretario uscente negli ultimi giorni ha lavorato a una faticosa mediazione tra le correnti, tra chi spingeva per anticipare le primarie e chi voleva una fase costituente più lunga (la sinistra).
Alla fine Letta è riuscito a mantenere la costituente nei termini previsti dalla direzione di qualche settimana fa, e cioè fino al 20 gennaio, quando l’assemblea dovrebbe approvare il nuovo manifesto dei valori.
Accorciate invece le fasi successive: tra il 27 gennaio e il 12 febbraio gli iscritti voteranno mozioni e candidati, i primi due classificati si sfideranno alle primarie il 19 febbraio. Più di così, Letta non poteva fare, volendo aprire un congresso costituente e non delle normali assise, vista la portata storica della sconfitta del 25 settembre.
A ieri sera il clima sembrava indicare che, alla fine, le correnti avessero accettato la mediazione. Ma nulla è scontato: oggi serviranno almeno 500 voti per approvare le modifiche allo statuto, pensate per accorciare i tempi del congresso (senza modifiche i gazebo sarebbero ad aprile) e per aprire agli esterni, e cioè a Bersani, Speranza e gli altri di Articolo 1 e ad Elly Schlein, che ad oggi è una delle principali aspiranti alla successione di Letta pur senza essere iscritta al Pd.
La mediazione convince poco la sinistra e le altre anime dem, ma dovrebbe essere accettata per rassegnazione. L’alternativa sono le dimissioni immediate del segretario, la fine di ogni di processo costituente e un normale percorso verso primarie a primavera, con il rebus su chi dovrebbe guidare il partito fino ad allora: la presidente Valentina Cuppi, sindaca di Marzabotto, o un reggente, che però dovrebbe trovare i voti in assemblea, cosa assai complicata.
Letta pare moderatamente ottimista sull’esito dell’assemblea, con la coscienza a posto per aver fatto «tutto il possibile» per avviare il percorso del congresso tenendo unito un partito sull’orlo dell’implosione. E del resto le liti degli ultimi giorni sulla road map sono state una pericolosa avvisaglia: nessuno si fida più di nessuno, e soprattutto nessuno è convinto di poter restare in un partito guidato dai suoi avversari interni: la destra degli ex renziani di Guerini non resterebbe in un partito guidato da Schlein o da Orlando; e viceversa le sinistre interne ed esterne farebbero molta fatica a restare in un Pd guidato da Stefano Bonaccini, aperto alla collaborazione privilegiata con Renzi e Calenda.
L’obiettivo della costituente è fissare una cornice di valori e programmi che possa tenere tutti insieme: ma è chiaro che se si dovesse iniziare a discutere seriamente di lavoro, fisco e precariato la spaccatura emergerebbe in modo plastico. Così come è avvenuto in queste ore sulla candidatura di Pierfrancesco Majorino in Lombardia, che non è andata giù alla destra interna che voleva seguire Calenda nell’abbraccio con Letizia Moratti.
Sulla carta, i 500 voti necessari per dare il via al congresso oggi ci dovrebbero essere: la sinistra interna si è convinta a votare la proposta di Letta per senso di responsabilità; così gli ex renziani di Base riformista. «Avremmo voluto tempi più rapidi, ma siamo persone responsabili e voteremo questa proposta di sintesi», spiega il coordinatore dell’area Alessandro Alfieri. «L’importante è dare un segnale di anticipo rispetto ai tempi previsti inizialmente e far partire il congresso».
Le primarie infatti erano state fissate il 12 marzo: l’anticipo è stato proposto dal segretario per accorciare questa fase di limbo e per rispondere alle pressioni arrivate dall’area vicina a Stefano Bonaccini: alcune donne dem guidate da Alessandra Moretti hanno infatti raccolto oltre 1000 firme su una petizione che chiedeva i gazebo già gennaio.
Se tutto filerà liscio, la prossima settimana la direzione Pd voterà il comitato costituente, composto da personalità di alto profilo (intellettuali, associazioni, mondo del lavoro, ecc.) che avrà il compito di redigere il nuovo manifesto. Probabile anche che nei prossimi giorni, una volta fissata la road map, Bonaccini sciolga la riserva e si candidi ufficialmente. Per Schlein percorso più lungo: prima valuterà gli esiti del percorso costituente
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