Palestina La carovana solidale arriva nel luogo che più di altri simboleggia il genocidio: c'è tutto, medici, ambulanze, aiuti, eppure non c'è niente perché dal 2 marzo Gaza è privata di ogni supporto. Dall'altra parte del muro giunge il boato soffocato delle esplosioni: in poche ore Israele ha ucciso oltre 120 palestinesi. E annuncia l'avvio dei "Carri di Gedeone"
La carovana solidale italiana "Gaza oltre il confine" al valico di Rafah, 18 maggio 2025 – Chiara Cruciati
A cinquanta chilometri di distanza il suono delle esplosioni arriva come un boato soffocato. Lungo la costa di Al-Arish, in Sinai, l’eco interrompe per qualche secondo lo scroscio dell’acqua sul bagnasciuga. Come fossero fuochi d’artificio in lontananza. Gli egiziani che vivono qui dicono di aver iniziato a sentire le bombe che si abbattono su Gaza un anno fa, quando partì l’operazione terrestre su Rafah.
Era il 6 maggio 2024, da quel giorno i tank israeliani hanno occupato il lato palestinese del valico che conduce in Egitto, dopo averlo distrutto e reso inservibile. Era l’unica porta di Gaza sul mondo fuori, il passaggio all’esterno, l’idea di una libertà in potenza, come lo è il mare.
OGGI IL VALICO di Rafah è un guscio vuoto, una porta su quello che dovrebbe essere e non è: di qua, sul lato egiziano, ci sono i paramedici e gli operatori della Mezzaluna rossa egiziana, ci sono le ambulanze ferme, ci sono due magazzini da 50mila metri quadrati talmente pieni di aiuti umanitari che stanno costruendo nuovi compound. C’è un sistema di accoglienza, stoccaggio e distribuzione degli aiuti provenienti da tutto il mondo che ha raggiungo livelli di organizzazione che un anno fa non esistevano. Tutto per rendere più rapida la consegna e abbattere il rischio che, a Gaza, arrivino prodotti danneggiati.
C’è tutto, eppure non c’è. Il valico è un non-luogo, surreale, il confine tra la vita e la morte e l’immagine plastica del genocidio: una popolazione prigioniera, affamata e bombardata, separata da aiuti salvavita, nell’ormai chiaro obiettivo di avviare un processo inesorabile di espulsione. In un luogo invivibile, non si può vivere.
La carovana solidale italiana “Gaza oltre il confine” arriva in un valico che si è trasformato. C’è un nuovo pezzo di muro in cemento, sembra l’embrione di una chiusura che può diventare definitiva. C’è la strada sterrata che conduce verso nord, verso il valico di Karem Abu Salem, ma nessun camion la percorre dal 2 marzo scorso. Non ci sono più i capannelli di “operatori” dell’agenzia egiziana Hala, quella che per un anno e mezzo ha gestito l’uscita dei palestinesi dalla Striscia, con tariffe che hanno dissanguato le famiglie, fino a 5mila dollari a persona per stare sotto un cielo senza bombe.
La redazione consiglia:
La fuga da Gaza vale un milione di dollari. Al giornoAlle 9.30 del mattino, Israele ha già ammazzato oltre cento palestinesi in poche ore. I raid sono caduti e cadono ovunque, sono incessanti: a Rafah se ne sente uno ogni pochi minuti, il boato soffocato e la consapevolezza che ogni esplosione significa morte.
Yousef Hamdouna è di Gaza. Era uscito qualche settimana prima del 7 ottobre 2023, da allora non è potuto più tornare. Lavora per l’ong italiana Educaid. Davanti al valico fa quello che fece un anno fa, durante la prima carovana: chiama sua sorella Manal di là dal muro. «Mi ha detto che hanno finito il cibo, che hanno finito l’acqua. Che ieri notte hanno bombardato in modo terribile. Non sa dove fuggire, non lo sa nessuno. In sottofondo sentivo i bombardamenti intorno a lei, lei sentiva quelli vicino a me».
CON UN GESSETTO BIANCO Yousef segna il contorno di piccole t-shirt da bambino. La carovana organizzata da Aoi, Arci, Assopace Palestina in collaborazione con l’intergruppo parlamentare per la pace tra Palestina e Israele, composta da oltre sessanta persone tra deputati di Avs, M5S e Pd, operatori umanitari e giornalisti, ha poggiato a terra, davanti all’ingresso del valico, peluche, giocattoli, vestitini e le foto di alcuni bambini uccisi a Gaza dai raid israeliani, a simboleggiare i 18mila minori ammazzati in questa offensiva, ma anche le
decine di migliaia feriti e orfani e le centinaia di migliaia privati del cibo, della sanità, della scuola.
Srotolano una striscione, «Stop complicitity», e alzano dei cartelli, «Stop genocide now», «No impunity for international crimes», «End illegal occupation», «Stop arming Israel», i messaggi che intendono mandare da Rafah. Sollevano anche i volti dei leader europei, Meloni, Macron, Von der Leyen, Kallas.
«Qui fuori c’è tutto quello che non riesce a entrare in Palestina, compreso il diritto internazionale – ci dice Alessandra Annoni, giurista e docente all’Università di Ferrara – L’elenco delle violazioni che vengono compiute quotidianamente sono tantissime: le quattro convenzioni di Ginevra, le norme di diritto umanitario e di diritto consuetudinario, i trattati che Israele ha accettato di rispettare e le convenzioni che ha ratificato, norme internazionali sui diritti umani che vengono violate in tutto il territorio occupato, tre ordinanze cautelari della Corte internazionale di Giustizia e due risoluzioni del Consiglio di Sicurezza che richiedono a Israele di far entrare gli aiuti nella Striscia senza impedimenti e su larga scala. Tutte queste violazioni fanno parte della strategia che Israele sta implementando per il genocidio della popolazione palestinese. L’ultimo atto di questa strategia è la deportazione che si sta preparando con l’operazione Carri di Gedeone».
È ORMAI PARTITA con l’obiettivo dichiarato di spingere la popolazione a sud, concentrata in uno spazio minimo. Lo si è visto oggi, con 125 palestinesi uccisi dall’alba al primo pomeriggio, 36 ammazzati nella tendopoli di al-Mawasi a sud e l’assedio totale e il bombardamento dell’Ospedale Indonesiano a nord, ormai fuori servizio. Muhammad Zaqout, direttore generale degli ospedali di Gaza, ha denunciato oggi il fuoco aperto dall’esercito israeliano su medici e pazienti dell’Indonesian Hospital, gli spari dei cecchini su qualsiasi cosa si muovesse e quelli su terapia intensiva.
La redazione consiglia:
“Carri di Gedeone”, Netanyahu lancia la conquista di Gaza«Siamo qui per testimoniare la realtà, l’apocalisse – ci dice Walter Massa, presidente di Arci – Ci siamo inventati la carovana per mettere a sistema realtà diverse: da soli non ce la possiamo fare. Credo che in parte ci siamo riusciti, è ancora troppo poco e abbiamo perso troppo tempo. L’Italia è uno dei pochi paesi che non è riuscito a fare una manifestazione nazionale. Questa è un’operazione politica: dobbiamo ora fare un passo in avanti, uno sforzo nel coordinare la nostra comunicazione per far uscire messaggi chiari e forti».
«Vogliamo denunciare la complicità dei leader europei perché nessuno agisce per fermare questo sterminio – aggiunge Laura Boldrini, parlamentare Pd – Servono sanzioni, serve sospendere l’invio di armi, senza le quali questo sterminio non durerebbe, serve sospendere l’accordo di cooperazione tra Ue e Israele perché è fondato sui diritti umani all’articolo 2. Al governo italiano chiediamo tutto quello che non ha fatto finora: fare pressione sull’alleato Netanyahu affinché si fermi. Vorrei che ci fosse una presa di distanza e che votasse la nostra mozione in aula mercoledì».
A RAFAH c’è soprattutto chi, da decenni, lavora in Palestina e che ora – con le nuove norme introdotte da Israele – rischia di non poterci più tornare: le ong italiane. «Come organizzazioni della società civile siamo abituati a lavorare con le vittime dei conflitti, ma a Gaza si è giunti a un livello talmente grave che anche ong come le nostre sono impotenti – spiega Giulia Torrini di Un Ponte Per – Visto l’intento genocidario, è una tale ingiustizia che non si può non agire sul piano politico. Essere parte della carovana significa partecipare a questa battaglia, che è politica. I partiti presenti hanno promesso di esserci vicini da domani nelle piazze e nelle iniziative che conduciamo».
La redazione consiglia:
La scure israeliana sulle ong: chi racconta cosa vede in Palestina è fuoriLa carovana riparte verso i magazzini dove gli aiuti sono in attesa da due mesi e mezzo, una delle facce più feroci che l’occupazione israeliana assume. «L’anno scorso giornalisti, attivisti, cooperanti palestinesi ci hanno chiesto come prima condizione il cessate il fuoco – dice Valentina Venditti, responsabile dell’ong Ciss per il Medio Oriente e il Nord Africa – A distanza di un anno chiedono di intensificare le azioni, essere più incisivi. La priorità è fermare il genocidio e l’occupazione militare che ne è la causa. Si deve agire per la Palestina ma anche per noi stessi, perché ci troviamo di fronte a un cimitero di massa non solo di palestinesi, ma del diritto internazionale e dei nostri valori. Come ci ha detto Raji Sourani, loro non si arrenderanno mai. Ci ha parlato di ottimismo strategico: è sicuro che ce la faremo».