Cannes 78 Il premio più importante al dissidente Jafar Panahi per «Un simple accident», nato dalla prigionia in Iran. A Joachim Trier il Grand Prix della giuria, miglior regia a Kleber Mendoça Filho
Jafar Panahi con la Palma d'oro a Cannes – foto Ap
Quando Juliette Binoche si alza per dire che questa Palma viene assegnata non solo per ragioni «politiche» ma per la potenza del film, sappiamo già che la Palma d’oro della 78a edizione del Festival di Cannes è stata vinta da Jafar Panahi. Un simple accident è un «film clandestino» – come lo sono tutti quelli del regista iraniano che rifiuta di sottomettersi alle regole e alla censura del regime di Tehran – che per la prima volta ha potuto accompagnare dopo quattordici anni, il ritiro del passaporto, la condanna a non viaggiare e a non girare più film, la prigione. Panahi, quando le telecamere lo inquadrano insieme alla sua equipe, gli attori, le attrici in lacrime, sprofonda nella sedia, e sembra farsi piccolo fino a sparire, per poi alzarsi di scatto mentre la sala in piedi lo applaude all’infinito.
SUL PALCO, accanto a Cate Blanchett che gli consegna la Palma, gli occhiali scuri sempre sugli occhi, chiede il premesso di ringraziare la famiglia che c’è sempre stata anche «per tutto il tempo che non siamo stati insieme», e tutta l’equipe: «Mi hanno accompagnato e sostenuto durante l’intera lavorazione, senza un’equipe impegnata come lo sono loro questo film non sarebbe stato possibile». E con la voce emozionata ma ferma dice: «Credo che questo sia il momento di chiedere a tutti gli iraniani, anche a chi ha opinioni diverse, di mettere da parte le divisioni, le disparità per con concentrarci insieme su quello che è ora l’obiettivo più importante, e cioè il nostro Paese e la sua libertà. Non devono più ordinarci che fare, come vestirci, cosa dire. E questo vale anche per il cinema, che è una parte della società: nessuno deve dirmi che film fare».
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«Jeunes mères», fragilità e solitudine nella maternità giovaneUn simple accident – in Italia sarà distribuito da Lucky Red – è un riflessione sul regime iraniano oggi e un racconto morale di ciò che causa nei cittadini e cittadine che ne subiscono la violenza. Il film è teso, doloroso, duro: assume i suoi rischi fino in fondo che sono quelli di una presa pubblica di parola, e di una resistenza di cui lo stesso regista è divenuto simbolo dalla sua prima condanna, nel 2010, fino all’arresto, rinchiuso per mesi nel 2022 nel carcere di Evin, dove inizia uno sciopero della fame mandando fuori questo messaggio: «Andrò avanti fino a che il mio corpo anche senza vita uscirà da questa prigione».
È DUNQUE politica questa Palma, e non c’è timore a dirlo, magari pensando di «diminuire» il valore del film, lo è perché mette al centro una lotta di liberazione che vede le donne iraniane protagoniste, e che nella rivoluzione in atto dall’assassinio di Mahsa Amini, la ragazza uccisa dalla polizia morale perché indossava «male» il velo, ha cambiato profondamente la realtà. Ed è un riconoscimento al lavoro simbolico degli artisti e delle artiste che non si tirano indietro, che resistono e chiedono a voce alta un cambiamento collettivo.
È stato un festival attraversato dal mondo in fiamme questo Cannes 78, da prima dei suoi inizi con l’uccisione di Fatma Hassona la giovane fotografa e giornalista palestinese, protagonista di Put Your Soul On Your Hand and Walk, che ha messo in movimento una serie di iniziative per rompere il silenzio sul genocidio a Gaza sempre più
atroce – pure se durante la premiazione a differenza dell’apertura nessun riferimento è stato fatto.
La redazione consiglia:
«Put Your Soul on Your Hand and Walk», un gesto contro il silenzioE che Palmarès è stato invece quello della giuria guidata da Juliette Binoche? La prima impressione è che giurate e giurati hanno cercato di tenere dentro molti film, forse per opinioni diverse. Non si spiega altrimenti l’ex-aequo a due titoli agli antipodi per sguardo e idea di cinema quali Sirat di Olivier Laxe, uno dei capolavori di questa edizione molto ricca nella sua qualità, e The Sound of Falling di Mascha Schilinski (anche la sola regista premiata). Chissà perché sono passati accanto a alcuni film importanti, quali Two Prosecutors di Sergei Loznitsa, Nouvelle Vague di Richard Linklater, The Mastermind, lucida analisi americana di Kelly Reichardt, con humor e passione fra presente di Trump e gli anni di Nixon: tutti film molto «politici» nel senso di non dogmatici ma capaci nella loro forma a confrontarsi con la contemporaneità.
Però ci sono i Dardenne, già due volte Palma, col premio alla sceneggiatura per Jeunes Mères, uno dei loro film più solidi negli ultimi anni, e soprattutto c’è il magnifico Kleber Mendoça Filho con O agente secreto che ha il doppio premio all’attore, Wagner Moura, e alla regia, mentre Nadia Mellitti, interprete folgorante del film di Hafsia Herzi, Petite dernière riceve quello alla migliore attrice. Il Grand Prix a Sentimental value di Joachim Trier, era anche anch’esso largamente anticipato dalle previsioni. La difficile relazione padre-figlie ha conquistato tanti, forse perché molto rassicurante nella sua narrazione e nei suoi riferimenti. Ma va bene così.