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Lamorgese prepara la circolare per i prefetti su sollecitazione di sindaci e commercianti. L’Usb: «È la via per estendere il divieto a chi è sgradito a Draghi, ai suoi ministri e ai loro grandi elettori»

Milano, corteo No green pass

Milano, corteo No green pass  © LaPresse

La circolare del Viminale ai prefetti con le indicazione per regolare le proteste ieri sera non era ancora pronta ma la linea del governo è quella indicata dal presidente Sergio Mattarella al congresso dell’Anci: «Manifestazioni non sempre autorizzate hanno tentato di far passare come libera espressione del pensiero l’attacco al libero svolgersi delle attività. Accanto alle criticità per l’ordine pubblico, sovente l’ostentata rinuncia alle norme anti Covid hanno provocato un pericoloso incremento del contagio. Le forme legittime di dissenso non possono sopraffare il dovere di proteggere i più deboli».

L’intenzione è consentire sit in lontani da obiettivi sensibili, come sedi di partito, sindacati e luoghi istituzionali. Non un divieto assoluto di sfilare per i centri storici ma percorsi concordati che non seguano sempre lo stesso itinerario per non penalizzare i commercianti di una zona specifica. Qualora le regole non fossero rispettate, le forze dell’ordine interromperanno la manifestazione. Lo scopo è duplice: evitare assembramenti di No vax ma anche salvaguardare gli interessi dei negozianti.

FANNO NOTARE DAL VIMINALE, prefetture e questure delle città al centro dalle proteste si sono già mosse per porre dei paletti: a Trieste niente manifestazioni in piazza Unità fino al 31 dicembre, a Milano divieto di attraversare corso Buenos Aires in certi orari. Si tratta di dare indicazioni omogenee per tutti, lasciando spazio alla trattativa tra organizzatori e istituzioni per due motivi: non si può comprimere in modo assoluto il diritto di manifestare, il Viminale vuole evitare di esasperare gli animi facendo salire la tensione. Il testo finale dirà come si bilanceranno il diritto alla protesta con gli interessi dei commercianti. A cominciare dal tema: quanto fuori dai centri storici? Relegare le manifestazioni in spazi lontani significa renderle ininfluenti rispetto al dibattito pubblico. Tollerate ma depotenziate.

IL SOTTOSEGRETARIO 5S Carlo Sibilia ieri mattina è partito con gli annunci: «Saranno vietati i cortei e questo vale per tutte le manifestazioni, non solo per quelle no vax». Per concludere con un tono leggermente meno repressivo: «Siamo a 15 settimane di fila di cortei. Mi auguro siano misure momentanee e circoscritte». Il clima è decisamente orientato verso la compressione del diritto di protestare. Il prefetto di Trieste: «La direttiva sarà applicata con fermezza». In città sono saliti i contagi: i non vaccinati sono 70mila su 230mila abitanti, i positivi oltre 200. Stefano Puzzer, leader del movimento La gente come noi: «Ci informeremo se queste norme sono lecite. Se saranno lecite le rispetteremo, altrimenti ci opporremo per vie legali. Intanto organizzeremo manifestazioni statiche».

A MILANO il comitato di protesta ha annunciato lo scioglimento: «Nessuna trattativa con la questura per le manifestazioni no green pass: impossibile sederci con chi ha rinchiuso manifestanti pacifici in una via obbligandoli a mostrare i documenti per tornare a casa. Il corteo milanese non ha più organizzatori ma migliaia di manifestanti». Confcommercio mette sul tavolo gli interessi dei suoi associati: «Le manifestazioni No green pass fanno perdere il 30% del fatturato». Compatti sul fronte delle limitazioni i governatori Fontana e Toti.

Il sindaco di Treviso, Conte: «Da settimane la piazza centrale non viene messa a disposizione per sit in e manifestazioni». E quello di Torino, Lo Russo: «Il Viminale accoglie le richieste degli amministratori, il diritto di manifestare non può danneggiare le attività economiche e vanificare i sacrifici di tutti». Marco Liccione, portavoce del movimento Variante Torinese: «Valutiamo per sabato di cambiare luogo di ritrovo». Si schierano con la ministra Lamorgese Pd, Iv, Forza Italia. Matteo Salvini tace sui social, combattuto tra negozianti e No green pass.

IL SINDACATO USB invece attacca: «Gravissima la decisione del governo di impedire i cortei nei centri città su ordine delle associazioni dei commercianti. Il diktat sembrerebbe riguardare i No pass ma si apre un’autostrada per estendere il divieto a chi risulti sgradito a Draghi, ai suoi ministri e ai loro grandi elettori. Il pianto dei commercianti, di cui sarebbe istruttivo vedere le dichiarazioni dei redditi, viene utilizzato per giustificare una palese violazione dell’articolo 19 Costituzione. Si tratta di un vero e proprio ghigliottinamento della protesta, che verrà confinata ben lontano dai luoghi della decisione politica ed economica proprio mentre si mette in campo una legge finanziaria molto pesante, mentre rientra dalla finestra il progetto di autonomia differenziata e contemporaneamente si vara un decreto concorrenza che privatizza tutto il privatizzabile».

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Intervista. Parla la sociologa che presiede il Comitato scientifico. Ieri ha presentato le conclusioni dell'analisi del provvedimento più discusso degli ultimi anni con il ministro del lavoro Andrea Orlando. Chieste numerose modifiche per redistribuire le risorse alle famiglie numerose, correggere iniquità e moralismi contro i poveri, superare proposte irrealistiche e ingiuste come l'obbligo di lavorare a 250 km da casa e oltre. "Il vero problema è che in Italia manca la domanda di lavoro". "L’esclusione degli stranieri extracomunitari dal «reddito» è ingiusta e miope. 10 anni sono il requisito più alto al mondo. Va dimezzato"

La sociologa Chiara Saraceno con il ministro del lavoro Andrea Orlando  © LaPresse

Professoressa Chiara Saraceno, come presidente del Comitato scientifico per la valutazione del «reddito di cittadinanza» ieri ha presentato, con il ministro del lavoro Andrea Orlando, i risultati delle vostre analisi. È d’accordo con chi sostiene che nella legge di bilancio questa misura è stata riformata?
L’ho sentito dire da Conte in televisione. Non scherziamo. Oltre al rifinanziamento del «reddito», cosa importante, ciò che è stato fatto è una stretta sui controlli ex ante sull’erogazione della misura e un irrigidimento delle penalità pensato, a mio sommesso parere, in maniera un po’ irrealistica.

A cosa si riferisce?

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Quando i sindaci di grandi città, a partire da Roma, al ballottaggio, sono eletti da un quarto dei cittadini, è un evidente segnale di sofferenza democratica. Non si tratta di un incidente di percorso. Neppure il Pd, uscito vincitore da questo turno elettorale, ha nulla di cui rallegrarsi.

L’elevato astensionismo colpisce tutti. Rappresenta un vulnus su cui è utile riflettere. Se il popolo ritiene inutile recarsi alle urne significa che non crede più nel momento elettorale come occasione di cambiamento. Esprime delusione e rabbia rimanendo a casa.

C’è poi una minoranza che manifesta il proprio disagio aderendo alle proteste contro tutto ciò che sembra limitare le libertà individuali. Altri motivi, naturalmente, spingono all’astensione. Pensiamo al ruolo alienante dei social, forma illusoria di partecipazione al dibattito pubblico, veicolo di subcultura che si autoalimenta pericolosamente attraverso una disinformazione sistematica e campagne d’odio. Ragioni politiche e culturali, dunque, si intrecciano e allontanano i cittadini dalle urne.

Tra i fattori che hanno contribuito ad alimentare il fenomeno dell’astensionismo di massa, non sottovaluterei “l’effetto Draghi”, il carattere anomalo del suo governo. Un governo di “tutti”, nel quale comandano veramente in “pochi”, che sono poi i ministri “tecnici”. La fiducia della maggioranza dei cittadini nei confronti dell’ex banchiere, chiamato a guidare il paese in un momento critico e delicato, è grande e incondizionata.

Senonché questo orientamento largamente diffuso, verso una personalità certamente autorevole e rassicurante, implica all’atto pratico una sostanziale delega in bianco, l’apatia politica, la diserzione dalle urne. A che serve votare se ci governa un signore competente, stimato in Europa, e se i partiti contano poco o niente?

Il governo di tutti, in questo contesto, rischia di farci scivolare oggettivamente, aldilà della volontà dello stesso Draghi, verso un’oligarchia tecnocratica che decide, senza alcun controllo parlamentare, sulle scelte strategiche riguardanti l’economia e la gestione del Pnrr. I ministri “politici” non hanno voce in capitolo sulla gestione della transizione ecologica e della trasformazione digitale. E si dividono tra “governisti” e quelli “di lotta e di governo”, contribuendo ad offrire un’immagine deteriore della politica che accentua il distacco dei cittadini.

I partiti parlano d’altro, mettendo ancor più in evidenza la perdita di ruolo. Nel combinato disposto tra astensionismo di massa, movimento “libertario” fomentato dalla estrema destra e consenso verso un modello di governo tecnocratico, in cui i partiti sono di fatto marginalizzati, non è difficile intravedere i segni di una democrazia che non gode affatto di buona salute.

In un paese sfibrato dalla pandemia e alle prese con una crisi sociale di notevole complessità, è facile cedere alla tentazione di affidarsi ai “migliori”. Tanto più in una situazione in cui i partiti appaiono più gusci vuoti che strumenti di partecipazione. Fanno al massimo un po’ di propaganda sui mass media, in balìa degli umori cangianti dell’opinione pubblica.

Ogni vittoria elettorale, in queste condizioni, è del tutto effimera e provvisoria. Se queste considerazioni hanno un fondamento, la difesa e il rafforzamento delle basi della nostra democrazia e dei vali fondanti della Repubblica italiana dovrebbero essere in cima ai pensieri delle forze di sinistra.

Purtroppo, queste forze vivono una crisi profonda da cui stentano ad uscire. Sulle piccole formazioni comuniste, che alle ultime elezioni si sono presentate in ordine sparso e hanno raccolto lo “zero virgola”, Norma Rangeri ha scritto parole taglienti (e, credo, definitive). Per tanti che ancora pensano che

il comunismo sia un «movimento reale» è deprimente vederlo ridotto al pari di una reliquia da custodire gelosamente.

Proprio dalla debolezza e irrilevanza della sinistra in grande misura discende la rinascita, in forme nuove, del vecchio elitismo liberale, con tutto ciò che ne consegue in termini di potere e di scelte economiche e redistributive. Sta qui l’urgenza di ricostruire un campo di forze progressiste ed ecologiste che provi a sparigliare le carte, dando vita a un movimento unitario e di massa che parta dai problemi concreti. A meno che non si preferisca una sconfitta certa e duratura.

Il segretario del Pd ha annunciato l’avvio di agorà aperte, ritagliandosi il ruolo di “federatore” di un campo largo. L’obiettivo è un rassemblement elettorale in grado di contrapporsi al fronte del centro destra ed essere competitivo quando si voterà. Il progetto è legittimo e risponde ad un’esigenza reale. Ma tende ad eludere e a sottovalutare sia il tema della democrazia che il rischio di una svolta tecnocratica ed autoritaria.

Un cartello elettorale, che si proponga di aggregare posizioni che vanno dal liberalismo democratico al socialismo, può costituire un momento unitario di passaggio soltanto se cerca una forte motivazione politica nella ripresa della partecipazione democratica alle decisioni e nella riapertura di una stagione di lotte.

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In sciopero contro i cambiamenti climatici

Hanno ragione da vendere Norma Rangeri e i compagni del manifesto nell’avere aperto questo confronto. E sono davvero contento che questo quotidiano che è il riferimento di tanti a sinistra, quasi una ‘casa’ senza esserlo o volerlo essere, si renda disponibile con generosità ad un confronto senza rete.
Ci sono due piani del discorso da seguire a mio modo di vedere.

Il primo è quello di carattere democratico di fronte alle insidie della destra e della sua capacità di trarre alimento dai macroscopici vuoti di rappresentanza lasciati dalla politica democratica e di sinistra: la vicenda dell’assalto alla Cgil dice tanto. E tanto dice anche della capacità di reazione democratica che si è avuta. E su questo non ci possono essere dubbi: la battaglia democratica richiede unità, profonda e larga. E il Pd non può non essere assunto come un riferimento.

Il secondo invece è quello della sinistra che

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Il caso. Confindustria definisce «ricatto» la mobilitazione di Cgil, Cisl e Uil che porterebbe allo «sciopero» contro la legge di bilancio di Draghi. Landini: «Adesso assemblee ma se nel mese di novembre non ci sarà un confronto non escludiamo nulla»

Il segretario Cgil Landini a una manifestazione degli operai della Gkn che chiedono lo sciopero generale

Il segretario Cgil Landini a una manifestazione degli operai della Gkn che chiedono lo sciopero generale  © Aleandro Biagianti

Lo scontro sulla legge di bilancio che non c’è ancora ieri ha conosciuto una nuova vetta retorica. Da Alba, al Forum della piccola industria. Il presidente di Confindustria Carlo Bonomi ha definito «un ricatto» la mobilitazione annunciata dai sindacati confederali Cgil Cisl e Uil, forse diretta a uno sciopero in mancanza di risposte entro novembre da parte dell’esecutivo, contro «Quota 102» delle pensioni e sugli otto miliardi della riforma fiscale da destinare alle buste paga dei lavoratori e non al taglio dell’Irap sulle imprese.

A QUESTO SPARTITO il segretario della Cgil Maurizio Landini ha aggiunto «una seria riforma del fisco», l’«istituzione di una pensione contributiva di garanzia per i giovani» e della legge Fornero sulle pensioni e parla di «combattere la precarietà e i contratti pirata». Non risulta, al momento, la formalizzazione della richiesta di cambiare il Jobs Act del Pd e di Renzi, e dell’intera legislazione che ha creato il regime della precarietà di massa. «Mi auguro che non sia necessario arrivare a uno sciopero generale, sono il primo a sapere che bisogna cercare soluzioni condivise. Ma quello è uno strumento previsto dalla costituzione» ha puntualizzato Landini.

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Quirinale e dintorni. Il modello Giorgetti – Draghi capo dello Stato e simultaneamente capo del governo tramite un avatar – va respinto. È un impianto che nega la connotazione fondamentale del ruolo del capo dello Stato, esplicitamente definito rappresentante dell’unità nazionale dall’art. 87 della Costituzione. Come tale, non potrebbe essere titolare di poteri di governo in senso proprio, né direttamente né per interposta persona

 

Il semi-presidenzialismo di fatto tratteggiato dal ministro Giorgetti ha contribuito a mettere in luce il conflitto tra Lega di lotta e Lega di governo. Il consiglio federale del partito si è chiuso con un formale sostegno a Salvini, ma il dualismo di linea politica rimane, come traspare dalla stampa locale lombarda e del Nord-est. Forse siamo a un armistizio, e comunque di quel che accade in casa leghista possiamo felicemente disinteressarci. Invece, il tema della collocazione futura di Draghi, del rispetto delle architetture istituzionali e della Costituzione, ci riguarda tutti.

Il modello Giorgetti – Draghi capo dello Stato e simultaneamente capo del governo tramite un avatar – va respinto. È un impianto che nega la connotazione fondamentale del ruolo del capo dello Stato, esplicitamente definito rappresentante dell’unità nazionale dall’art. 87 della Costituzione. Come tale, non potrebbe essere titolare di poteri di governo in senso proprio, né direttamente né per interposta persona.

A chi sottolinea l’ampio sostegno popolare per i presidenti, si può obiettare che ciò appunto accade per la natura super partes che viene percepita come loro connotazione, perché non assimilati a un governo in carica. A chi ricorda i presidenti interventisti – come Napolitano – si risponde che da sempre i costituzionalisti sanno che i poteri presidenziali si espandono o si comprimono a fisarmonica, in funzione inversa rispetto alla forza e solidità dei soggetti politici. A King George, come oggi a Mattarella, un no avrebbe messo o metterebbe un freno. Uno studioso di vaglia come Calise (Il Mattino, 4 novembre) menziona la “extrema ratio della promulgazione dissenziente”. Appunto. È una promulgazione che i dubbi sostanziali non hanno fermato. Nella specie, ammettiamo pure che Draghi, andando al Quirinale, riesca a governare per interposta persona fino al voto politico. E dopo?

Meglio allora un semipresidenzialismo da regolare riforma? Da decenni si aggira nel paese il fantasma dell’uomo solo al comando. L’elezione diretta del capo del governo, possibilmente corredata di una solida maggioranza numerica nelle assemblee elettive anche grazie a leggi elettorali maggioritarie, ha sedotto molti. Il mantra a sostegno è che il premier elettivo è elemento unificante, in grado di superare la frammentazione dei sistemi politici semplificandoli, e di portare efficienza ed efficacia nell’azione di governo.

Ma è davvero così? Che un capo del governo direttamente eletto sia davvero unificante dipende dal contesto in cui si inserisce. In società stabili, imperniate su una ampia middle class, con sistemi tendenzialmente bipartitici portatori di programmi in larga misura simili, la best practice di un tempo suggeriva che si governasse dal centro. Un’elezione diretta del capo del governo poteva ben essere considerata una scelta ottimale. Ma in società che si frantumano per l’aumento esponenziale delle diseguaglianze, l’impoverimento della classe media, il destrutturarsi del sistema politico, l’elezione diretta del capo del governo può produrre divisione e contrapposizione. E si governerà dalle estreme.

Così è stato, ad esempio, negli Stati Uniti con l’elezione di Trump, che ha diviso il paese come mai nella storia. Così è stato in Gran Bretagna, dove il modello Westminster reca una sostanziale elezione diretta del premier. Johnson ha conquistato il soglio, ma rischia l’unità del Regno. Mentre Macron in Francia ha una solida maggioranza numerica in parlamento, ma naviga in acque basse con i sondaggi e vede il malessere del paese manifestarsi nelle strade e nelle piazze. L’ingegneria politica e istituzionale non cancella i conflitti. La forma di governo parlamentare è la più adatta al tempo in cui viviamo, soprattutto se accompagnata da assemblee – in virtù di una buona legge elettorale – ampiamente rappresentative, in cui i conflitti possono essere mediati e portati a sintesi.

Soffriremo a lungo per il tormentone su Draghi al Colle, anche e soprattutto perché sappiamo che le motivazioni delle varie ipotesi in campo non si sottraggono per nessuno alla bassa cucina dell’interesse spicciolo di parte. Certo, Draghi potrebbe istantaneamente fermare il chiacchiericcio, dichiarando che il Colle non gli interessa. Ha sempre evaso le domande sul punto. Ma vogliamo proprio prendercela con lui perché non fa il Cincinnato? Anche se, a ricordare bene, Cincinnato poi torna … .

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