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Ambientalisti. Prima assemblea ieri a Roma

Edo Ronchi

Edo Ronchi

Si chiama Alleanza per la transizione ecologica: senza tanti giri di parole si propone l’obiettivo di presentarsi alle elezioni e occupare lo spazio che nel resto d’Europa hanno altre forze ambientaliste, a partire dai Grünen tedeschi. I promotori si sono incontrati ieri a Roma in un sala del centro. Ha aperto Danilo Bonato, dirigente d’azienda e consulente di strategia e responsabilità sociale di impresa. Ha chiuso l’ex ministro dell’ambiente Edo Ronchi. In mezzo, non c’è stato un dibattito vero e proprio (che viene demandato a riunioni su base regionale). Spazio a nove interlocutori più uno aggiunto all’ultimo minuto: il portavoce di Europa Verde Angelo Bonelli.

L’ex parlamentare Anna Donati sfoglia i petali della galassia verde: «Ci sono i Verdi, i Verdi europei, la componente Facciamo Eco, Green italia». «L’esperienza verde è stata parte importante della mia vita – dice Edo Ronchi – Ma se un soggetto verde oggi viene stimato al di sotto della soglia di sbarramento del 3%, allora significa che è inadeguato. Ci vuole una cosa nuova. Noi vogliamo avviare questo processo». La «cosa nuova» viene introdotta con alcune slide che rimandano alla «economia di mercato sociale e ambientale». I promotori di Ate non fanno mistero, vista anche la biografia di molti di loro, di voler puntare sul dialogo con le imprese. Presentano una ricerca Ipsos secondo la quale gli italiani vedono la transizione ecologica come «un’opportunità economica». Si aspira a un patto green che aggiri i conflitti anche soppesando le parole: l’espressione inglese «stand together» viene tradotta con «stare lì» invece che «resistere insieme».

A condurre la discussione c’è Caterina Banella, esperta in comunicazione d’impresa. Rossella Muroni, ex presidente di Legambiente e deputata eletta nelle liste di Leu, dice che occorre «un salto di scala» politico perché tutti dicono che hai ragione sui temi dell’ambiente ma poi «quando si tratta di votare in parlamento l’ambiente non mai una priorità». «Non dobbiamo mettere avanti l’identità, ma la curiosità intesa come empatia per il punto di vista dell’altro – prosegue Muroni – Quando si parla di gestione pubblica o gestione privata si pone una questione astratta: pubblico e privato devono avere un rapporto virtuoso». E Maurizio Bernardi, presentato come «top manager dell’industria dell’elettrodomestico» invoca un’«alleanza tra politica, imprese e consumatori».

Ma è inevitabile che alcune questioni di fondo vengano a galla. Roberto Morabito, ricercatore Enea, dice che «il cambiamento non può essere guidato da questo modello economico». Poi parla di accogliere i migranti climatici: «Per questo mi aspetto una forza politica non disponibile ad allearsi coi sovranisti». Monica Frassoni, ex presidente dei Verdi europei, sottolinea come oggi l’Italia non abbia posizioni chiare su molti dei nodi che riguardano la crisi climatica. Così Angelo Bonelli: «Dobbiamo dire che il ministro Roberto Cingolani è un problema per la transizione ecologica».
«L’Italia sta frenando – dice in chiusura Ronchi – Aumentano le emissioni perché peggiora l’efficienza energetica e perché la spinta delle rinnovabili è stata fermata». «Si vota sempre meno e chi vota vota il meno peggio», prosegue Ronchi. Che risponde così a chi chiede una scelta di campo col centrosinistra: «Noi in questa fase non dobbiamo apparire come parte di uno schieramento precostituito».

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Pandemia. Ma sono poi davvero i no-vax con le loro posizioni irrazionali e minoritarie o i no green pass, che nel rifiutare uno strumento piuttosto efficace indicano comunque i molti problemi connessi al suo utilizzo, a costituire il problema principale della lotta alla pandemia?

 Può accadere che un’ossessiva attenzione alle minacce insite nelle “teorie del complotto” si rovesci in un altro “complottismo” del tutto speculare. In questa trappola sembrano essere caduti diversi organi di informazione, commentatori ed esponenti politici.

L’allarme, esplicitato nella maniera più diretta dal quotidiano la Repubblica, riguarda l’esistenza di un disegno eversivo portato avanti dalla destra radicale infiltrando il non piccolo mondo dei renitenti al vaccino. Rischierebbe così di aprirsi una stagione di violenza politica e destabilizzazione terroristica delle istituzioni democratiche, che conta per il momento il solo grave episodio concreto dell’incursione squadrista nella sede della Cgil a Roma. Per il resto gli indizi del “complotto” coincidono con discorsi da avvinazzati e truculente minacce raccolte nella sentina della rete. Cui hanno fatto seguito diverse perquisizioni il cui esito non ha portato alla luce micidiali arsenali. Siamo insomma poco distanti da quel “toccherebbe ammazzarli tutti!” che non è raro sentir pronunciare in qualsiasi coda davanti alle poste, rivolto agli impiegati. Anche se, beninteso, dalla coda alla rete qualcosa cambia.

Che esistano frange neofasciste violente è fuor di dubbio, che in un contesto sociale reso insicuro, diffidente e impaurito dalle conseguenze della pandemia possano trovare un habitat favorevole è più che probabile, ma che ci troviamo sulla soglia di un’esplosione di violenza sovversiva è pura fantasia. Così come “il complotto dei complottisti”. L’enfasi posta sulla rilevanza di questi fenomeni ha spesso avuto come conseguenza la legittimazione di logiche e strumenti emergenziali poi utilizzati a tutto campo. Le limitazioni alle manifestazioni no-vax non resteranno circoscritte a quell’ambito e non riguardano, per ammissione stessa delle autorità, la sola sicurezza sanitaria. E lo stesso può dirsi del cumulo di imputazioni affibbiate ai manifestanti fermati.

Ma sono poi davvero i no-vax con le loro posizioni irrazionali e minoritarie o i no green pass, che nel rifiutare uno strumento piuttosto efficace indicano comunque i molti problemi connessi al suo utilizzo, a costituire il problema principale della lotta alla pandemia? L’ostacolo più grande al superamento di un’emergenza sanitaria globale? Non è molto credibile, per quanto queste resistenze possano essere influenti. La stucchevole retorica comunicativa che tutto imputa ai comportamenti soggettivi, alle idee bislacche, e al disprezzo per l’“interesse generale” in un coro unanime di forze politiche e mediatiche, ha origini tutt’altro che limpide.

I renitenti al vaccino nei paesi più ricchi sono una goccia di fronte al mare degli esclusi da ogni protezione vaccinale nel resto del pianeta, si ammalano in proporzioni incalcolabili e favoriscono l’insorgenza di sempre nuove varianti. Eppure non è con la stessa enfasi dedicata ai gruppuscoli complottisti che si denuncia il sostanziale fallimento perfino del programma caritatevole che avrebbe dovuto trasferire un numero

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Le nomine. Per tenere a bada la cattiva politica non serve la negazione retorica della realtà. Si rende indispensabile una vera riforma del settore, nella quale sia rivisto innanzitutto il meccanismo di scelta dei vertici, affidandolo ad un’entità terza come una fondazione

La sede generale Rai di Viale Mazzini con il cavallo di bronzo, opera dello scultore siciliano Francesco Messina

La sede generale Rai di Viale Mazzini con il cavallo di bronzo, opera dello scultore siciliano Francesco Messina  © Mauro Scrobogna /LaPresse

Nelle ultime ore le voci sussurrate sono diventate una grida. Lo slogan del fuori i partiti dalla Rai è stato solo una patetica messa in scena, perché il rito delle nomine torna con una ripetitività seriale. Anzi l’ultima girandola fa rimpiangere persino la vecchia ed esecrabile lottizzazione.

Una lottizzazione che – pur indifendibile- aveva per lo meno il retroterra di reali organizzazioni di massa. Del resto, Emmanuele Milano, Massimo Fichera, Angelo Guglielmi, Emilio Rossi, Alberto La Volpe o Sandro Curzi (per citare un po’ di nomi) non sfigurarono affatto. Al contrario. Via via il contesto è mutato, deteriorandosi con la crisi di una politica invadente ed ossessiva, ma almeno più vitale. Così, il metodo lottizzatorio è rimasto come un’ideologia, tuttavia declinandosi con gruppi di potere, lobby e salotti: spesso copie ingiallite degli originali.

La fresca infornata di nomi, espressa da un consiglio di amministrazione tenutosi per una volta a Napoli (dove, per gli smemorati, dovrebbe invece avere sede l’autorità per le garanzie nelle comunicazioni), va giudicata – dunque- come sintomo di un processo, al di là del giudizio sulle singole persone prescelte. Brave o meno, ma è un altro discorso. Recordman Mario Orfeo, ormai ricolmo di targhe e distintivi. Comunque, l’unanimità nella decisione non vi è stata e lo strappo con il Mov5Stelle non sembra facilmente sanabile. Del resto, Giuseppe Conte non ha torto: o si utilizzano modalità finalmente diverse (uno dei migliori testi depositati reca la firma del senatore pentastellato Primo Di Nicola), o il pluralismo va rispettato.

Vanno aggiunte due ulteriori considerazioni. L’una positiva: un pezzo del tetto di vetro si è rotto e tre donne assurgono alla direzione di testate: Tg1, Tg3 e RaiSport. Un’altra assai negativa se non inquietante, a parte la sminuita rappresentanza delle voci: la radio cambia il suo vertice la settima volta in sette anni ed Andrea Vianello, cui era stata da poco affidato il progetto di rilancio di Rainews24 (la cui redazione è allarmata per qualche intervista non commendevole del neo-direttore) connesso a quello del sito Web e dei social, cambia destinazione. Annotazioni critiche al riguardo sono state sottolineate dal sindacato dei giornalisti, che evoca giustamente l’assenza di una vera visione strategica.

L’amministratore delegato Fuortes, pur blasonato per esperienza e curriculum, già sembra sbandare alle prime curve della corsa. Chissà come può essere venuto in mente di umiliare 5Stelle, tuttora forza di maggioranza relativa, proprio alla vigilia del passaggio ad alto rischio della presidenza della Repubblica. Misteri della fede. La colpa, però, non risiede solo in una persona ed eventualmente nella cerchia che lo attornia. Il colpo del knock out all’azienda pubblica fu inferto nel Natale del 2015 dalla legge 220, quando a palazzo Chigi sedeva Matteo Renzi: tutto il potere passò al governo che sceglieva l’Ad rovesciando una quarantennale giurisprudenza costituzionale. Quest’ultima, infatti, attribuiva al parlamento l’indirizzo e la vigilanza sul servizio pubblico. Si passò alla logica del capo azienda, che in un universo complesso e costituito da un mosaico di sensibilità produce guai. Nelle stesse logiche di impresa, nell’era delle piattaforme e della crossmedialità, il tema è sentito ed attuale.

Non solo. Per tenere a bada la cattiva politica non serve la negazione retorica della realtà. Si rende indispensabile una vera riforma del settore, nella quale sia rivisto innanzitutto il meccanismo di scelta dei vertici, affidandolo ad un’entità terza come una fondazione. Decenni di pomposi convegni non sono serviti a granché, se è vero che ormai il capitolo sembra proprio svanito dall’orizzonte delle priorità. Si provò a mettere un freno ad ingerenze improprie con una legge del 1993, la 206, che attribuiva ai presidenti delle camere la funzione di nomina dei consiglieri. La piccola ventata di novità fu schiacciata dal furore della normativa del 2004 a firma dell’ex ministro Gasparri. Fino all’ultimo passaggio. Questo, ovviamente, non giustifica le ultime ferite. Da curare, subito.

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Crisi migratoria . Da condannare sia l’uso strumentale dei migranti da parte bielorussa, sia il violento il respingimento polacco vietato dalle leggi internazionali e dalle Direttive europee

Grodno, sul confine tra Bielorussia e Polonia

 

 Grodno, sul confine tra Bielorussia e Polonia  © Ap

Al confine tra Bielorussia e Polonia si confrontano due comportamenti illegali. Da un lato un dittatore che usa migliaia di persone per ottenere un obiettivo favorevole al suo regime: l’azzeramento delle sanzioni; dall’altro il governo polacco, sostenuto dall’Unione europea, che cancella il diritto d’asilo e i diritti umani, in nome della difesa della frontiera. L’attacco all’Europa arriva niente di meno che da poche migliaia di profughi, non armati né pericolosi, ma bisognosi di protezione.

Uomini, donne, bambini e bambine, provenienti in gran parte da quell’Afghanistan, la cui sorte disastrosa ci ha tanto commossi ad agosto, e dalla Siria, dove una tregua nella guerra non c’è mai stata e non sono finite le persecuzioni e le violenze.

I GOVERNI EUROPEI, anche quelli che si professano a parole contrari al sovranismo e ai muri, si indignano per il cinismo di Lukashenko, ma sorvolano sulle violenze dei militari polacchi e, anzi, intervengono a sostegno del governo di Varsavia, come se i getti d’acqua fredda o le manganellate europee le prendesse il dittatore bielorusso e non persone inermi alle quali l’Unione europea dovrebbe garantire, per legge, il diritto d’asilo. Tra l’uso strumentale dei profughi, sottoposti a violenze dalla polizia bielorussa, e il respingimento vietato dalle leggi internazionali e dalle Direttive europee, attuato con violenza dall’esercito polacco, non è possibile fare una graduatoria e bisognerebbe condannare entrambi senza se e senza ma.

L’Unione europea si trova sotto ricatto, come è già successo peraltro nel recente passato con Erdogan, e rischia di restare schiacciata dalle sue stesse contraddizioni, perché ha scelto l’ideologia dei muri e non i principi del diritto internazionale ed europeo.

IL PATTO EUROPEO immigrazione e asilo, una vergognosa resa alla xenofobia della destra europea, è costruito intorno all’idea che bisogna impedire di arrivare in Europa, finanziando sistemi di controllo e strumenti per respingere le persone. Se Lukashenko accettasse l’aiuto europeo, come ha fatto la Turchia, per bloccare i richiedenti asilo lontano dalla frontiera europea, i governi sarebbero disponibili a dimenticare non solo la sorte dei profughi, ma anche quella dei diritti umani e della democrazia in quel Paese.

È bene ricordare che le poche migliaia di persone che oggi sono bloccate alla frontiera bielorussa sono disposte a rischiare la vita per arrivare in Europa e mettersi in salvo, per l’assenza di altre vie di fuga dalla violenza e dalla morte: la loro è una scelta obbligata, determinata dalla ideologia proibizionista degli Stati dell’UE che impediscono a chi vorrebbe cercare protezione di farlo viaggiando in sicurezza e legalità.

Il protocollo per i corridoi umanitari per gli afghani e le afghane, che come Arci abbiamo firmato il 4 novembre scorso, insieme a Comunità di S.Egidio, CEI/Caritas Italiana e FCEI, con il nostro governo, è una goccia nel mare della disperazione che oggi ci vede inermi di fronte a chi rischia ogni giorno la vita in quel Paese per mano dei talebani o dell’ISIS, con un progressivo disinteresse della comunità internazionale.

CI SIAMO IMPEGNATI a nostre spese, con il contributo determinante dei circoli rifugio Arci, ad accogliere un primo nucleo di persone, in particolare donne, che oggi vivono nascoste in case protette e rischiano ogni giorno che passa di diventare vittime dell’oscurantismo violento che ha preso il potere in Afghanistan.

Non vorremmo farlo, anche se pensiamo che sia giusto fare qualsiasi cosa per salvare degli esseri umani abbandonati dalla comunità internazionale, e vorremmo che queste persone fossero tratte in salvo dai governi e che l’Unione europea mettesse in campo una straordinaria operazione di evacuazione di tutti coloro che rischiano la vita. Ma a mobilitarsi in questi mesi, dopo la crisi di agosto, è stata soprattutto la società civile, le organizzazioni sociali e le reti associative, senza le quali non sarebbe possibile costruire una via di fuga.

La responsabilità che i governi non mostrano di volersi assumere deve spingere chi come noi opera nella società a scelte straordinarie, che rappresentino da un lato un esempio, come i corridoi umanitari, mostrando che si può fare, e dall’altro obblighino i decisori politici a confrontarsi con quella parte di società che non intende arrendersi alla violenza dei muri e alla violazione dei diritti umani in Paesi dell’Unione europea.

MA NON VOGLIAMO fermarci a questo. La cultura dei diritti nella quale crediamo, va difesa anche con azioni dirette. Nelle prossime settimane l’Europa dei diritti e dell’accoglienza, le associazioni, le reti e i movimenti, si mobiliteranno per prendere la parola e fare arrivare un messaggio da un lato ai governi e dall’altro ai profughi: noi non ci stiamo, non ci arrendiamo alla violazione dei diritti umani e non ci fermeremo finché non verrà ripristinata la legalità anche alle frontiere.

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 Fernand Leger

La discussione avviata da Norma Rangeri sul manifesto punta dritto a una questione centrale per il futuro del nostro paese: l’assenza di una forza politica che difenda le ragioni e i diritti dei lavoratori e, comunque, della parte più debole della società italiana.

In questi anni sono andati in fumo innumerevoli tentativi di costruire quel “largo campo” da molti auspicato. Sel (2009), Alba (2012), Lista Tsipras (2014) sono solo alcune delle sigle, tutte dai risultati parziali se non effimeri, sperimentate soprattutto a partire da quel lontano 1991 quando nacque Rifondazione comunista per opporsi allo scioglimento del Pci deciso al XX congresso.

Sulle ragioni che hanno portato a tanti insuccessi hanno scritto nei giorni scorsi su questo giornale, in particolare, Piero Bevilacqua (4 novembre) e Antonio Floridia (6 novembre).

Entrambi hanno convincentemente mostrato che la presenza stessa del partito che ha raccolto o, per meglio dire, avrebbe dovuto raccogliere l’eredità della sinistra italiana, è di per sé un ostacolo alla costruzione di un nuovo soggetto politico in quel campo.

Il Partito democratico, nonostante le politiche di marca inequivocabilmente centrista, esercita una forte attrazione verso l’elettorato progressista che teme e vuole efficacemente combattere il prevalere delle destre, in Italia tra le più reazionarie del continente; mentre il cosiddetto “voto utile” non è affatto indigesto a chi intenda lasciare un segno delle sue scelte ed è sempre meno incline a sposare cause formali o ideologiche.

Portare a logica conclusione queste condivisibili premesse richiede probabilmente un cambiamento radicale nelle strategie che sono state sin qui attuate per dare rappresentanza e voce alla sinistra italiana.

C’è un precedente infruttuoso e che nulla ha a che fare con la sinistra ma che può aiutarci a sviluppare un “pensiero laterale” rispetto al problema che abbiamo di fronte.

Nel luglio del 2009 Beppe Grillo tentò di scalare il Pd ma, vistosi respinto, nell’ottobre dello stesso anno fondò il Movimento 5 Stelle. So bene quanto possa suonare velleitario e blasfemo, me ne accorgo mentre ne scrivo, un progetto che abbia in animo di riavvolgere la matassa srotolata della sinistra italiana.

Il Pd si è allontanato troppo dalla traiettoria storica del movimento operaio e, peggio ancora, in alcune parti del Paese non riassume in sé che comitati elettorali talora infiltrati dalla criminalità. Una scelta dunque dura, durissima, un tentativo difficile.

Un serio azzardo l’ingresso nel Pd di singoli e di gruppi con l’intento di spostarne a sinistra il baricentro politico. Non solo un’operazione del genere richiederebbe un coordinamento a livello nazionale ma l’assunzione di alcune garanzie di base che dovrebbero venire dalla segreteria del Pd, eventualmente interessata a giocare quella partita con l’obiettivo di un miglior radicamento sociale e sul territorio.

Che condizioni bisognerebbe porre? Quelle minime perché la battaglia politica interna possa liberamente svilupparsi, dalla regolarità della convocazione delle assemblee alla trasparenza degli atti, dalla scalabilità effettiva delle posizioni di vertice alla libera partecipazione e espressione delle idee.

Forse tutto ciò non è neppure possibile ma l’idea stessa che tutte le minuscole organizzazioni a sinistra del Pd depongano le armi e aprano insieme una discussione di questo genere sarebbe un importante passo in avanti, essendo oramai chiaro che sarebbe di gran lunga preferibile una rappresentanza minoritaria all’interno di un grande partito che non una nebulosa di minuscoli, invisibili frammenti.

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La sinistra e gli operai. Nemmeno quando la sinistra si chiamava socialista e comunista parlava solo alle questioni materiali. I consensi, gli iscritti, la militanza non scaturivano soltanto dalla fredda gerarchia dei bisogni. Pane e rose, utopia e concretezza, impostazione ideologica e pratica riformatrice. Al momento alla sinistra mancano entrambi i pedali.

Murales a Parigi

 

Murales a Parigi  © Tore

Ha fatto discutere la pubblicazione di una impegnativa inchiesta di Ipsos sul voto operaio. E – cosa abbastanza nota – la conferma che il 28 per cento degli operai italiani vota la Lega. Il Pd e complessivamente la sinistra – Articolo Uno compreso – non arrivano al 12 per cento. Ne ha parlato anche Peppe Provenzano in una coraggiosa intervista sul manifesto. Eppure non si può rimuovere che la frattura a sinistra con i propri riferimenti tradizionali viene da lontano.

Nel 1994 i progressisti perdono a Mirafiori nonostante la candidatura di un ex comunista come Sergio Chiamparino. Scatta l’allarme rosso, ma i buoi forse già erano scappati. Allora il radicamento nel lavoro operaio della sinistra politica era ancora forte ed esteso, ma la contesa con gli avversari si era ormai aperta definitivamente.

Oggi ci percepiscono come lo schieramento dei ceti medi urbani, di un pezzo di società che legge, studia e viaggia, che tutto sommato sta bene. E forse lo siamo. Le nostre istanze incrociano a fatica la maggioranza del popolo delle periferie, che non sbarca il lunario, che vive un sentimento di provvisorietà e di paura del futuro.

La destra li ha conquistati agguantando la bandiera della protezione contro il multiculturalismo e il vincolo europeo. Ha saldato l’incertezza economica con l’incertezza culturale declamando le virtù di una società chiusa, antidoto alla precarietà prodotta dalle insidie degli ultimi della terra. La potenza del mito del sangue affonda le radici nella notte dei secoli. Non è un’invenzione di Salvini né di Le Pen o di Orban. E sappiamo che non basta evocare soltanto un programma più a sinistra per colmare questo gap.

Corbyn – che comunque raggiunge in numeri assoluti gli stessi consensi di Blair – con un programma dichiaratamente laburista perde nelle roccaforti operaie e vince nell’elettorato europeista della Gran Bretagna. Perché nemmeno quando la sinistra si chiamava socialista e comunista parlava solo alle questioni materiali. I consensi, gli iscritti, la militanza non scaturivano soltanto dalla fredda gerarchia dei bisogni. Pane e rose, utopia e concretezza, impostazione ideologica e pratica riformatrice. Al momento alla sinistra mancano entrambi i pedali. Quello dei contenuti: abbiamo ancora il marchio addosso dell’abolizione dell’Articolo 18 – persino chi ha contrastato questo disegno ha pagato un prezzo salato – che rappresenta una ferita mai più rimarginata.

La perdita di potere d’acquisto dei salari, l’esplosione della precarietà, le delocalizzazioni selvagge hanno alzato un muro con larga parte della società, irrecuperabile nel medio periodo se non con una svolta credibile e allo stesso tempo radicale.

Ma latita pure la leva dell’immaginario: un’idea di società nuova, anche a costo di stare seduti dalla parte scomoda della storia. La sinistra non se la cava solo con una proposta elettorale se non allude anche a una pratica egemonica. Significa che “tornare in fabbrica” è una condizione necessaria ma non sufficiente se non coltivi un’idea potente fuori dalla fabbrica. Che sfidi le paure e mandi in soffitta il refrain berlusconiano – che ha conquistato trasversalmente tutti gli strati sociali – “tutti possono diventare miliardari”. Siccome gli elettori non sono stupidi, gli operai sanno bene che nel programma di Salvini c’è la flat tax, ovvero il sogno esplicito delle destre più antisociali e classiste. Pensiamo davvero che siano degli autolesionisti che votano contro i propri interessi?

Purtroppo nel corso degli ultimi tre decenni lo stato è apparso un ufficio complicazioni di affari semplici, la politica una dependance impotente e complice della finanza, il nazionalismo – forse persino l’etnocentrismo – un rifugio contro il globalismo delle classi agiate, i servizi pubblici un moltiplicatore di inefficienza e di clientele, le tasse una vessazione senza alcuna contropartita.

Su questo la destra ha scavato. Se non si riabilita una grammatica dei poteri pubblici, i ceti popolari si allontanano dalla sinistra. E persino dalla democrazia. Senza la ripoliticizzazione del mondo del lavoro – e la campana suona anche per il sindacato – difficilmente si torna a fare società.
I nostri padri definivano la classe operaia – per usare un termine antico – classe generale, dunque pronta alla direzione dello Stato democratico.

È complicato sentirsi classe generale se lo Stato perde peso, se la politica conta poco e di te non parla nessuno. Quando il terreno è così arido la sinistra non può esistere in quanto tale. Resta solo una malinconica forma di progressismo senza radici e forse senz’anima.
Ma può bastarci?

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