La comunità faentina piange la scomparsa di Antonia Bedronici, spentasi all’età di 74 anni. Da sempre animata da una profonda passione e dedizione per il mondo dell’associazionismo a sostegno della disabilità, Antonia Bedronici ha rappresentato per il territorio un punto di riferimento insostituibile.
Fino agli ultimi giorni, nel suo ruolo di Presidente della Consulta del Volontariato dell’Unione della Romagna Faentina, ha continuato a portare avanti con instancabile impegno i valori di solidarietà e inclusione che hanno costantemente guidato la sua vita. La sua leadership illuminata e la sua profonda umanità hanno contribuito in modo significativo alla crescita e al rafforzamento del tessuto sociale della nostra comunità.
La sua scomparsa lascia un vuoto incolmabile nei cuori di quanti l’hanno conosciuta e hanno avuto modo di apprezzarne le straordinarie doti umane e professionali. Antonia Bedronici lascia il marito Paolo e i figli.
Il cordoglio dell’Amministrazione Comunale di Faenza
“Antonia Bedronici ci ha lasciato questa notte dopo una lunga malattia. Volto storico della cooperazione sociale faentina, per oltre trent’anni ha avuto un ruolo chiave nella costruzione del nostro welfare. Con grande umanità nelle relazioni e lungimiranza nella progettualità, in questi decenni di attività il nostro welfare è cambiato, ha innovato, ha accettato le sfide del tempo nuovo e lei è sempre stata in prima linea, una vera stimolatrice di questi cambiamenti. Da anni guidava con autorevolezza la Consulta, una straordinaria realtà faentina dove il ricco mondo dell’associazionismo convive e si arricchisce reciprocamente”.
I funerali di Antonia Bedronici si svolgeranno martedì 6 maggio alle ore 10 nella chiesa Santa Maria della Pace di Castel Bolognese, cittadina dove risiedeva ultimamente.
Il mestiere di vivere I dati smentiscono la premier. In campo i referendum contro il jobs act e per la cittadinanza. Landini: «Nella lotta il futuro del paese». La Fondazione Di Vittorio: tra il 2022 e il 2024 meno 120mila nuove assunzioni
Manifestazione degli operai metalmeccanici genovesi per chiedere il rinnovo del contratto – Ansa
Oggi ci sono cinque ragioni in più per trasformare un Primo Maggio che tende ad essere presentato come un rituale, per di più luttuoso, in una giornata di lotta contro lo sfruttamento e per una cittadinanza sociale. Sono i cinque quesiti del referendum che si voteranno l’8 e il 9 giugno e possono cambiare la vita di milioni di persone.
SI VOTERÀ per abolire i licenziamenti senza giusta causa creati dal Jobs Act del Pd di Renzi; stabilire risarcimenti più equi per i licenziati senza motivo che lavorano per le piccole aziende con meno di 16 dipendenti; imporre la responsabilità legale alle aziende che indicono un appalto, e non solo a quelle che lavorano in subappalto, in caso di morte o infortunio sul lavoro; riconoscere la cittadinanza a chi lavora e studia in Italia con un requisito minimo di 5 anni di residenza e non più 10.
LA CHIAVE per leggere questa giornata politica, e riattivare la sua carica di opposizione al lavoro capitalistico, è stata data dal segretario della Cgil Maurizio Landini, ed è stata usata anche da molti altri soggetti della sinistra, come la Casa Internazionale delle Donne che ha evidenziato come quelli dei referendum «non sono quesiti astratti e riguardano direttamente le donne: noi che viviamo in condizioni lavorative troppo spesso segnate da precarietà, licenziamenti legati alla maternità, contratti poveri e mancanza di tutela».
UNA RIVOLTA OGGI, potrebbe anche passare da un voto. A questo orizzonte, si direbbe alla Albert Camus più volte richiamato in questi mesi da Landini, rinvia lo slogan scelto dalla Cgil per la campagna referendaria: «Il voto è la nostra rivolta». Il messaggio è stato concepito per mobilitare in vista di un voto politicamente rilevante che sconta l’incertezza per la tagliola del quorum, ma può essere inteso come l’occasione di una mobilitazione trasversale. Dopo avere rilanciato il concetto in un appello pubblicato da Il Manifesto, e da altri quotidiani, ieri alle Industrie Fluviali a Roma Landini lo ha ribadito presentando una ricerca strutturata e informata della Fondazione Di Vittorio: «Precarietà e bassi salari. Rapporto sul lavoro in Italia a dieci anni dal Jobs Act».
LANDINI ha criticato l’annuncio del governo su un nuovo provvedimento-bandiera sulla sicurezza sul lavoro: «Siamo di fronte a veri omicidi e non fatalità. È un modello di fare impresa e mercato che uccide, ed è stato favorito dalla politica e dal parlamento con le leggi – ha detto – Con il governo è un anno e mezzo che chiediamo di modificare le leggi e invece si è andati nella direzione opposta. Se si vuole davvero cambiare la situazione è necessario cambiare le leggi, e non costa nulla. Devono essere responsabili quelli che pensano che le persone possono morire come un prezzo da pagare in nome del profitto e del mercato. Non è il momento delle chiacchiere o degli annunci, ma dei fatti».
LA RICERCA della Fondazione Di Vittorio è utile, in primo luogo, per
Leggi tutto: Sistema precario: l’unico record è di lavoratori poveri - di Roberto Ciccarelli
La mobilitazione Il segretario della Cgil spinge per l'election day: accorpare il voto sui quesiti contro Jobs Act e per la cittadinanza ai nati in Italia da genitori stranieri. Chiesto un incontro al governo: "Favorisca la partecipazione". Via alla campagna referendaria anche a Palermo e a Napoli. Si voterà tra il 15 aprile e il 15 giugno
Bologna, Paladozza - Il segretario Cgil Maurizio Landini all'assemblea generale del sindacato – Michele Nucci / LaPresse
Un «Election Day» in cui votare sia per le elezioni amministrative che per i referendum contro il Jobs Act e per la cittadinanza ai nati in Italia da genitori stranieri che si dovranno tenere comunque tra il 15 aprile e il 15 giugno. È la richiesta che la Cgil, insieme al comitato per il referendum sulla cittadinanza, ha fatto alla presidente del consiglio Giorgia Meloni. Il segretario Maurizio Landini le ha chiesto un incontro dal palco dell’assemblea generale del sindacato che si è chiusa ieri al Paladozza di Bologna.
«L’election day sarebbe un’occasione per evitare di spendere soldi visto che tra l’altro nel nostro Paese esiste un problema di risorse – ha detto Landini – Credo che sarebbe una cosa intelligente e sarebbe anche un modo per favorire la partecipazione». Un incontro sarà chiesto anche alla commissione vigilanza della Rai per dare visibilità ai quesiti e alla campagna referendaria che sta accendendo i motori. Lunedì Landini sarà a Palermo all’assemblea dei gruppi dirigenti della Cgil in Sicilia aperta alle associazioni. Martedì sarà a Napoli in un incontro analogo.
«Credo – ha aggiunto ieri Landini nell’intervento di chiusura dell’assemblea generale a Bologna – che chi governa e il Parlamento dovrebbe favorire in tutti i modi la partecipazione al voto, è un elemento di responsabilità». Se, come sarà probabile, giungerà l’indicazione agli elettori di stare a casa, questo per Landini significherà «uccidere la democrazia». Un assaggio della risposta che arriverà dal Palazzo è arrivato da un messaggio su X dal vicepremier Salvini: «Accoglienza? Integrazione? Fratellanza? Figuriamoci. Vogliono la cittadinanza facile per garantirsi milioni di voti in più. Mai, mai e poi mai! La Lega si opporrà sempre».
Per Landini il quorum ai referendum di primavera può essere raggiunto. «Non ci chiamiamo De Coubertin. Sappiamo perfettamente che abbiamo bisogno di portate a casa dei risultati». «Non stiamo semplicemente resistendo al cambiamento o facendo una lotta di difesa». Stiamo proponendo una discussione per cambiare il paese e dargli un futuro». Quanto al contenuto politico dei quesiti ha aggiunto: «Una persona non è libera se è precaria, se non arriva alla fine del mese, se muore sul lavoro, se in base alle sue espressioni o genere può essere discriminata». O se non ha la cittadinanza. La vittoria del referendum potrebbe sancire un cambiamento.
Nei confronti del governo Meloni «non c’è una pregiudiziale opposizione», ma per Landini «sta favorendo chi evade il fisco e non chi paga le tasse, non sta aumentando i salari». Il referendum in sé è un’occasione di mobilitazione per il superamento della precarietà o il rinnovo dei contratti pubblici dove, in realtà, non c’è alcuna trattativa
Cisgiordania Una legge in via di approvazione alla Knesset e una conferenza internazionale a Gerusalemme confermano le mire israeliane sulle aree di interesse storico ora sotto il controllo dell'Anp
Una giovane palestinese scatta una foto alla stella di Davide disegnata da coloni israeliani su un resto archeologico a Sebastia – Nasser Ishtayeh/SOPA Images via ZUMA Press Wire
“Dopo 15 mesi di genocidio, bombardamenti e distruzione nella striscia di Gaza e nei Territori Occupati da parte di Israele, supportato da molti governi occidentali, è stata finalmente siglata la tregua con Hamas.
Questa non è una tregua come altre nella storia dei conflitti tra paesi, questa è la Tregua con la T maiuscola: lo stato di Israele, appoggiato militarmente, politicamente e finanziariamente dal mondo intero, aveva scommesso di poter cancellare per sempre il movimento di resistenza islamica di Hamas. Nonostante i 15 mesi di durissimo scontro tra uno degli eserciti più avanzati del mondo e i gruppi paramilitari palestinesi, la devastazione di Gaza, l’elevato numero di vittime e l’embargo totale che dura da decenni, Israele è dovuto scendere a compromessi e ha firmato la Tregua con Hamas.
Non sono bastati a Israele i continui massacri, le torture, la privazione di cibo, di medicinali e di aiuti umanitari. Non è bastata l’uccisione dei leader di Hamas Ismail Haniyeh e Yahya Al Sanwar. Netanyahu e il suo governo di estremisti sionisti erano convinti che la popolazione di Gaza e Hamas stesso avrebbero sventolato la bandiera bianca e si sarebbero arresi, riconoscendo la sconfitta. Ma in questi mesi nessuna bandiera bianca ha mai sventolato tra le macerie, tantomeno oggi. Oggi sotto il cielo di Gaza e della Cisgiordania sventolano solo bandiere della Palestina.
Il bilancio di questi 15 mesi è drammatico da diversi punti di vista: fonti non ufficiali parlano di oltre 75.000 morti, 120.000 feriti, 15.000 dispersi, oltre la distruzione quasi totale delle infrastrutture, edifici, scuole e ospedali.
La resistenza di questi quasi 500 giorni di assedio sarà studiata nei libri e nelle accademie militari: i suoi protagonisti, ovvero l’intero popolo palestinese, sono invincibili perché da troppe generazioni vivono per lottare contro l’oppressore, l’identità stessa del popolo palestinese è plasmata sul concetto di resistenza.
Da parte mia, questa tregua rappresenta senza dubbio una vittoria della resistenza palestinese, che ha dettato le regole e ha impedito al governo fascista israeliano e a tutti i suoi sostenitori di realizzare un successo militare e politico. L’unica vittoria, se può essere considerata tale, del primo ministro israeliano, è l’uccisione indiscriminata di bambini e civili: in realtà una infame sconfitta morale ed etica che finirà anch’essa nelle pagine più buie dei libri di storia.
La Tregua tra Hamas e Israele è un testo articolato molto complesso, elaborato, controverso, da analizzare con attenzione per evitare ogni forma di equivoci e di interpretazioni errate. La sua applicabilità dipende dai firmatari (Hamas e Israele) e dai suoi garanti (Egitto e Qatar ). In sintesi, il cessate il fuoco inizia domenica 19 gennaio 2025. L’accordo prevede 3 fasi di 6 settimane ciascuna. Nella prima fase si compirà il ritiro in modo graduale dell’esercito israeliano e saranno rilasciati 33 ostaggi israeliani in cambio di circa 1700 prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane. Non si esclude che tra i prigionieri palestinesi ci sia anche il leader dell’intifada Marwan Barghouti. L’accordo prevede anche il ritorno della popolazione palestinese alle poche case ancora in piedi nella Striscia di Gaza.
L’esercito israeliano conserverà una forma di controllo marginale sui corridoi chiamati Saladino e Filadelfia e su una striscia di sicurezza di 700 metri lungo i confini di Gaza. Nella seconda e terza fase dell’accordo riprenderanno le trattative a partire dal sedicesimo giorno dell’entrata in vigore dell’accordo. Inoltre cessa il blocco dei rifornimenti che ha provocato la carestia e la morte per fame di migliaia di esseri umani: sarà ammesso l’ingresso degli aiuti umanitari con 600 camion al giorno e 50 camion di petrolio.
Sono più e meno gli stessi elementi dell’accordo proposto da Biden nel mese di maggio 2024 con l’aggiunta di dettagli supplementari elaborati dai mediatori egiziani. Da ricordare che la precedente proposta di cessate il fuoco fu respinta da Netanyahu, che preferì occupare il corridoio di confine tra Gaza e Egitto, facendo di fatto fallire la trattativa. Sette mesi di ritardo, di morti, di devastazione, che hanno permesso al primo ministro di conservare il consenso politico in patria, a Joe Biden di proteggere le lobbies israeliane in America e a Donald Trump di vincere le elezioni presidenziali dello scorso novembre. Tutto a spese del popolo palestinese.
Le Nazioni Unite valutano in circa 80 anni il periodo necessario per la ricostruzione della Striscia di Gaza. Oltre il 70% delle costruzioni sono state distrutte e in alcune zone nel nord la percentuale raggiunge il 100%. Le macerie, le bombe, i missili non esplosi rappresentano non solo un pericolo per la popolazione oggi, ma un ostacolo per il ritorno alla normalità, se di normalità si potrà mai parlare.
Questa catastrofe dentro la catastrofe che dura dalla prima metà del Novecento, non ha impedito alla popolazione di Gaza di uscire e festeggiare con il segno della vittoria e con la bandiera palestinese. Nessuna potenza militare può soffocare la speranza del popolo palestinese di avere la sua dignità, il suo passaporto e il suo Stato secondo il diritto internazionale. Che sia da lezione per Israele e per tutto il mondo occidentale che l’ha sostenuto in questo genocidio.
Ora tutte le parti in causa devono cooperare per garantire il rispetto e l’applicazione di questo accordo: che entrino ora tutti gli aiuti umanitari di cui necessita urgentemente la popolazione, ma che si lavori per il riconoscimento dello Stato di Palestina entro confini sicuri e riconosciuti e si continui a lottare su scala globale per la fine dell’occupazione. Altrimenti arriveranno nuovi massacri, seguiti da nuove tregue. L’unica certezza è che non sventolerà mai una bandiera bianca, perché la resistenza finirà solo con la vittoria del popolo palestinese”.
Milad Jubran Basir, giornalista italo-palestinese e militante Sinistra Italiana Forlì-Cesena
Libertà condizionata L'Iran: «L'arresto della giornalista non è una ritorsione, ma ci auguriamo che il caso si risolva presto». L'Italia temporeggia per la questione dell'estradizione di Abedini negli Usa
«L’arresto di Cecilia Sala non è una ritorsione» per quello di Mohammed Abedini. La prima parte del discorso fatto ieri dalla portavoce del governo di Teheran Fatemeh Mohajerani ribadisce la linea della negazione inaugurata ieri dall’Iran. La frase dopo, però, nel suo contraddire le premesse, suona decisamente come un’apertura: «Ci auguriamo che la questione della giornalista venga risolta rapidamente». Mentre in Italia prosegue la linea del silenzio stampa – nessuna comunicazione ufficiale sul tema -, nella Repubblica islamica ormai non passa giorno senza che si dica qualcosa del caso Sala-Abedini. Il fatto che le dichiarazioni siano sempre almeno in parte discordanti – alla Farnesina l’ambasciatore Mohammad Reza Sabouri aveva confermato il legame tra le due vicende – conferma un’analisi molto diffusa tra gli osservatori delle cose iraniane: tra il governo e l’intelligence non c’è accordo totale sulla gestione del dossier e, con ogni probabilità, la decisione di arrestare Sala è stata presa senza che l’esecutivo ne sapesse nulla.
In Italia la questione è quasi speculare: l’arresto di Abedini è avvenuto il 16 dicembre all’insaputa degli apparati di intelligence: gli Usa – che vorrebbero l’estradizione dell’ingegnere perché sospettato di aver venduto componenti tecnlogiche belliche ai Pasdaran – si sono coordinati solo con la polizia, escludendo i servizi segreti, che così, fatalmente, non sono più stati in grado di garantire la sicurezza della reporter di Chora Media a Teheran, presa il 19 dicembre.
Cosa sia successo tra il primo e il secondo evento, comunque, resta complicatissimo da ricostruire, ma l’ipotesi più probabile (nonché peggiore) è che non sia successo proprio niente . Nessuno si è preoccupato di valutare con attenzione il peso che poteva avere l’arresto di un iraniano dietro richiesta Usa, nessuno ha pensato che forse sarebbe stato il caso di tutelare in qualche modo gli italiani a Teheran. Va detto che tutto è avvenuto con grande velocità: la richiesta di Washington all’Interpol è datata 13 dicembre, il blitz a Malpensa è scattato il 16 dicembre e la convalida dell’arresto è del giorno successivo.
Ieri, intanto, l’avvocato Alfredo De Francesco è tornato nel carcere di Opera per fare visita ad Abedini. Il colloquio è servito sia a discutere degli ultimi avvenimenti di carattere giudiziario (la procura generale della Corte d’appello di Milano ha confermato il suo parere negativo alla scarcerazione) e a elaborare un minimo di strategia in vista dell’udienza del 15 gennaio, quando i giudici dovranno decidere sull’eventuale concessione degli arresti domiciliari. È possibile che l’iraniano farà una dichiarazione per respingere ogni accusa. Quasi una formalità, perché tutto è appeso alla vera trattativa in corso, che per Roma non è tanto quella con Teheran quanto quella con Washington. Èdall’altra parte dell’Atlantico, infatti, che dovranno in qualche modo accettare il fatto che Abedini non verrà estradato (può deciderlo in qualsiasi momento il ministro della Giustizia in autonomia in virtù del codice di procedura penale) e che, di conseguenza, verrà scambiato per la liberazione di Sala. Gli apparati di sicurezza Usa sono contrari a ogni ipotesi di questo genere – ritengono l’ingegnere in possesso di molte informazioni interessanti -, mentre, con la sua breve visita dnella residenza di Mar-a-Lago, nella notte tra sabato e domenica, la premier Meloni avrebbe ottenuto qualche apertura in più da Donald Trump in persona. A patto che tutto si risolva prima del suo insediamento, il 20 gennaio.