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Per il nostro mondo, il mondo in cui noi occidentali siamo cresciuti dal dopoguerra in poi, le cose non saranno più le stesse. Nessun avvenimento ha segnato in maniera così […]

Gaza. Una ragazza trasporta acqua nel campo profughi di Jabaliya. Mahmoud Zaki/Xinhua/ABACAPRESS.COM Gaza. Una ragazza trasporta acqua nel campo profughi di Jabaliya – Mahmoud Zaki/Xinhua/ABACAPRESS.COM

Per il nostro mondo, il mondo in cui noi occidentali siamo cresciuti dal dopoguerra in poi, le cose non saranno più le stesse. Nessun avvenimento ha segnato in maniera così drastica una linea di demarcazione nella nostra recente storia culturale. Nessun impegno bellico per quanto indiretto, nessuna tragedia e rivoluzione ha avuto lo stesso effetto, benché si fatichi ancora a prenderne atto. Perché mai prima, noi Paesi occidentali, avevamo sostenuto o avallato qualcosa di così dirompente.

IN EFFETTI, tutto era chiaro fin dall’inizio. Fin dalle prime battute di quella che molti si ostinano ancora a chiamare guerra, si era parlato di “suicidio di Israele” ma anche di “suicidio dell’Occidente” perché l’improvviso, manifesto, ostentato, superamento di certe linee rosse aveva messo in crisi certezze di civiltà sempre rivendicate, vissute con orgoglio, e ormai quasi date per scontate. L’infinito sacrificio di civili, e in particolare di bambini, paramedici, medici; l’uso della fame e della sete come armi; l’arresto, le torture, le umiliazioni indiscriminate; la distruzione completa di un mondo: scuole, università, anagrafe, catasto; l’uso sconvolgente di armi di ogni tipo, una forza sproporzionata per annichilire, travolgere, spazzar via: quasi fosse un sogno assurdo di oltre-umanità; tutto quello che abbiamo visto, quasi in diretta, in immagini che ci sono arrivate fin dai primi giorni di questo infinito eccidio potevano spingere all’immediata consapevolezza. Mentre intellettuali, studiosi, politici e commentatori si accapigliavano su una questione linguistica – la congruità della parola “genocidio” per la strage in atto (una miseria culturale che da sola dovrebbe aprire gli occhi sull’abisso in cui siamo caduti) – chi non smetteva di seguire gli avvenimenti affidandosi alle fonti dirette che questi nostri tempi ci consentono, aveva già ben chiaro il drammatico superamento di una linea da sempre ritenuta insuperabile.

E TUTTAVIA, oggi, dopo un anno e mezzo di morte, non si finisce di andare più in là. Il fondo non si tocca mai. Eventi paradigmatici di questa deriva di insensatezza si moltiplicano e a tratti si condensano in immagini definitive. È di ieri il video che ritrae le fiamme in cui sono avvolti i corpi di bambini colpiti nel sonno, nelle loro tende a Al Mawasi-Khan Younis. Di alcuni sappiamo anche i nomi, conosciamo le loro storie. Non le raccontiamo, certo, non dedichiamo loro programmi o riflessioni, e il motivo è chiaro: siamo noi tutti responsabili di quelle morti. Quel che dobbiamo sapere, però, è che in rete molti festeggiano. La notizia viene celebrata con bottiglie di champagne e tappi volanti, coriandoli che sprizzano da cappelli aperti, cuori pulsanti, like, braccia muscolose, e inevitabili fuocherelli, insomma tutto l’armamentario dell’approvazione social. Siamo arrivati oltre, insomma. Oltre qualunque punto di non ritorno. Come è possibile, infatti, festeggiare, ridere, esultare, approvare e stappare bottiglie davanti a bambini arsi vivi? Ragioniamo. Come si è arrivati a tanto? Si è partiti parlando dell’inevitabile prezzo da pagare. Poi si è ripetuto il ritornello degli scudi umani. E ogni volta, la voce ufficiale ripeteva che fra le vittime c’erano uomini di Hamas (una giustificazione quasi mai provata e anzi, spesso, come nel caso dei quindici paramedici giustiziati, tragicamente smentita dalle prove reali). Ogni volta, le voci che approvavano e giustificavano sono state numerose. «Stiamo combattendo questa guerra per voi» è stato il mantra, sbandierato da chi ha rivendicato, fra noi, la necessità di acconsentire, ossia di “sporcarsi le mani”. Le conseguenze sono sotto gli occhi di tutti: chi oggi continua a manifestare lo sdegno è sotto attacco. Deportazioni di giovani attivisti in due Paesi simbolo come Stati Uniti e Germania indicano la linea da seguire. In nome di una presunta superiorità democratica, tutto è diventato possibile, qualsiasi orrore, qualsiasi aberrazione.

SI FATICA a immaginare un futuro. Eppure il futuro è proprio la democrazia, che non è semplice meccanismo elettorale di voto, bensì rispetto delle minoranze. E che alcune linee di demarcazione ben precise continua a segnarle da sempre. Alle origini, per esempio, c’è chi la democrazia la mette in crisi, soprattutto quando essa diventa strumento di terrore. C’è Tucidide, tanto per fare un esempio, che il delirio di onnipotenza in cui cade la “sua” città lo racconta e lo denuncia. Devono esserci dunque anche oggi storici, intellettuali e giornalisti pronti a denunciare. Su di loro, ossia su di noi, sta il grande dovere morale. Perché è vero che non si tornerà più indietro. Ma avanti si può andare in molti modi. E l’unica nostra strada è quella indicata innanzitutto da chi a Gaza continua a raccontare la verità. Sono almeno duecentodieci i giornalisti uccisi, un numero spropositato, mai raggiunto prima. È questo ennesimo orrore a dire a noi il nostro dovere.