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Testimonianza «Sono un’architetta che non costruisce più nulla se non la memoria che rischia di essere cancellata, l’architetta condannata a scrivere nella polvere della sua casa diventata cenere»

Una ragazza palestinese ispeziona la devastazione causata da un attacco israeliano foto Abed Rahim Khatib/Ap Una ragazza palestinese ispeziona la devastazione causata da un attacco israeliano – foto Abed Rahim Khatib/Ap

Dall’apocalisse di Gaza, in presenza di una lunga morte, in un Paese dove la vita è diventata un atto quotidiano di sopravvivenza, vi scrivo la mia testimonianza sanguinante – io, Alia Shamlakh. L’architetta che non costruisce più nulla se non la memoria che rischia di essere cancellata, l’architetta condannata a vivere tra le mappe distrutte e a scrivere nella polvere della sua casa diventata cenere. Eppure, io continuo a stare sopra le macerie e a cercare di portare a termine la mia missione, anche se tutto intorno a me distoglie lo sguardo. Scrivo la mia testimonianza con la speranza che sia un grido udibile di fronte a un mondo che è diventato sordo al crimine.

HO 37 ANNI, di cui due trascorsi nel cuore del massacro. Nei giorni del genocidio e della feroce carestia. Due anni di spostamenti ripetuti e continui, di tentativi di sopravvivenza, di danze sul filo del rasoio tra la vita e la morte. Qui la sopravvivenza è un evento eccezionale, non perché sappiamo come sopravvivere, ma perché schiviamo la morte per caso, è una questione di pochi minuti o di coincidenza. La nostra casa è stata bombardata mentre eravamo dentro. Noi, i nostri figli e i miei genitori anziani. Non siamo stati feriti, nessuno è morto in quel momento, ma la morte ci ha circondato e accompagnato, in tutti i luoghi che pensavamo «sicuri». Ci siamo rifugiati in un ospedale per sicurezza, ma abbiamo scoperto che ci stavamo rifugiando in una trappola. Piovevano proiettili ed eravamo intrappolati con centinaia di sfollati, affamati, assetati, terrorizzati. Le pareti tremavano, dal soffitto si respirava fumo, i nostri cuori morivano ogni volta e non venivano seppelliti.

Siamo fuggiti a sud di Gaza, a casa di un parente a Khan Younis, poi siamo fuggiti di nuovo all’estremo sud, a Rafah, poi a Deir al-Balah e poi di nuovo, speriamo per l’ultima volta, a Gaza City. Qui, all’inferno, non c’è spazio per pianificare. Bisogna improvvisare, tanto anche le aree «di sopravvivenza» vengono bombardate. Ricominciamo ogni volta, non perché siamo «forti», come alcuni amano dire, ma perché fermarsi è un lusso che non possiamo concederci. Stiamo solo salvando i nostri figli dall’orrore del momento, in attesa dell’orrore successivo.

IN 20 MESI di sfollamento e di fuga dalla morte, abbiamo costruito temporaneamente la nostra vita in una tenda. Una piccola tenda sulla strada che a malapena riesce a contenere il nostro respiro, figuriamoci tredici corpi. Nessuna sicurezza. Nessuna privacy. Nessun bene essenziale per vivere. Nel nostro sfollamento i nostri figli hanno dormito sulle piastrelle, sulla terra, all’aperto. Hanno sofferto la fame.

ABBIAMO STIPENDI e soldi, ma non servono a nulla quando non c’è più nulla. Stiamo ancora vivendo una carestia feroce che ci ha fatto rimpiangere quel poco cibo in scatola che potevamo trovare qualche mese fa. I nostri corpi si sono indeboliti, il peso è sceso, la memoria si è offuscata, la concentrazione si è affievolita. Tutti noi abbiamo contratto epatiti, malattie della pelle, infezioni e la nostra psiche è danneggiata come se ci stessimo lentamente consumando fino a esaurirci.

TUTTO NELLA NOSTRA VITA è tornato a un livello primitivo. Cuciniamo con la legna da ardere. Facciamo il bagno ai nostri figli con l’acqua che portiamo da lontano e che riscaldiamo sul fuoco. Facciamo lunghe code per un litro d’acqua. Viaggiamo su carri distrutti, logori, a volte trainati da animali. Sopravvivo per continuare a lavorare. Sì, anche se non sarei nelle condizioni, vado a lavorare perché la missione che ho scelto, o che ha scelto me, non può essere abbandonata. Lavoro per un’organizzazione internazionale per persone con disabilità, cerco di rimanere al lavoro per proteggere l’essere umano, fatto a pezzi davanti ai nostri occhi. Mi chiedo ogni giorno come possa una persona a cui è stato tolto il diritto al riparo, all’acqua e alla dignità, continuare a difendere i diritti degli altri. E ogni volta mi rispondo: vengo da Gaza, da un luogo dove la tenacia non muore, anche se diventa una maledizione. Una maledizione perché stiamo cercando di salvare il salvabile dei nostri diritti, vivendo in una realtà che non rispecchia alcun documento o convenzione sui diritti.

Siamo stati delusi dal mondo intero, non per un motivo complicato, ma perché sceglie di non vedere. Non stiamo morendo in segreto. Tutto è documentato, proprio davanti agli occhi di tutti. Convenzioni, leggi, diritti umani? Foglie al vento o combustibile per il fuoco. Il mondo ha dichiarato la morte della propria coscienza in un freddo silenzio. Ormai ridiamo con nera ironia quando il mondo parla di «dignità umana» e «sicurezza dei civili».