All’indomani dei cinque referendum su lavoro e cittadinanza, più che i quesiti in sé, a pesare è stata la scarsa partecipazione. Un dato che non può essere archiviato frettolosamente come semplice disinteresse o fallimento politico. È un segnale. Profondo, sociale prima ancora che politico.
La bassa affluenza ci parla di un Paese stanco, disilluso, che fatica a ritrovare fiducia non solo nelle istituzioni ma anche nei meccanismi democratici. Non è mancato il desiderio di cambiare, è mancata la convinzione che il voto fosse uno strumento efficace per farlo. In tanti hanno deciso di non partecipare, non perché indifferenti ai temi, ma perché convinti che il sistema non ascolti più.
Non è stato un voto pro o contro il Governo, come qualcuno ha provato a raccontare. È stato qualcosa di più articolato, più intimo: una domanda collettiva di senso e di futuro. Se davvero si volesse misurare il consenso al Governo, bastano i risultati amministrativi, le tensioni interne alle coalizioni, le ambiguità in politica estera, le contraddizioni ormai quotidiane. Il referendum ha toccato corde diverse, più profonde. Ed è pericoloso ridurlo a una partita tra schieramenti.
Ancora più grave è stato l’invito – esplicito e organizzato – a non votare. Un atto che denota paura, non fiducia. Così come suona pavido non richiedere il voto segreto in Parlamento per leggi fondamentali in materia di giustizia e diritti, (sarebbero sicuri di avere sempre una maggioranza coesa ? Ma poi si governa sistematicamente a colpi di decreti legge. Dove finisce, allora, la partecipazione democratica?
Oggi non ha perso la sinistra, non ha vinto la destra. Ha parlato una parte profonda del Paese che chiede un nuovo modo di concepire la politica, di relazionarsi alla società, di costruire il futuro. È un appello silenzioso ma potente: se non lo si coglie, il rischio è l’arresto non solo della crescita economica, ma del patto sociale che tiene insieme il nostro vivere comune.
Il benessere e la pace restano le vere priorità per gli italiani. Il resto – litigi di partito, calcoli di potere, posizioni ondivaghe – sono fuochi di paglia che non costruiscono nulla. Serve una politica che ascolti e che ricostruisca. A partire proprio da chi oggi ha scelto di non esprimersi: non per rassegnazione, ma per l’urgenza di un cambiamento vero.