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Per una parte consistente delle famiglie, quello che resta dopo aver soddisfatto i bisogni primari è irrisorio o negativo. I cittadini devono scegliere se nutrirsi, riscaldarsi o curarsi. È su un’economia fondamentale accessibile e di qualità che si fonda il benessere condiviso e, in ultima analisi, il grado di civiltà di un Paese

Se non funziona niente, il reddito non basta Un’opera di Mambor

Nei sondaggi e nelle agende politiche degli ultimi mesi emerge un dato che sarebbe un errore trascurare: accanto al tema del reddito (insufficiente e incerto), in cima alle preoccupazioni di cittadine e cittadini si collocano la questione del caro-vita e quella dell’accesso alla sanità.

La sensazione che si consolida è che le rivendicazioni sul reddito e sulla stabilità dell’occupazione, quand’anche avessero risultati meno modesti di quelli consueti, non sarebbero comunque sufficienti a far fronte alla «crisi di vivibilità» che viene sperimentata da individui e famiglie. Che si tratti di una vera e propria crisi della vivibilità quotidiana lo mostrano i dati elaborati dal Collettivo per l’Economia Fondamentale sul «reddito residuo», inteso come quel che resta del reddito netto delle famiglie una volta che si siano sottratti i costi dei beni e dei servizi fondamentali. In Italia, prima della crisi acuta del costo della vita registrata nel 2022, il quintile più povero della popolazione – il 20% della popolazione che spende complessivamente meno – destinava a soli quattro beni fondamentali (cibo, abitazione, utenze e trasporti) ben il 72% della spesa mensile complessiva. La percentuale è arrivata all’82% dopo la fiammata inflazionistica del 2022.

Negli altri paesi dell’Europa occidentale – sebbene l’aumento sia stato paragonabile – l’incidenza della spesa per i quattro beni fondamentali sul totale della spesa è tendenzialmente più basso: 78% in Germania, 63% nel Regno Unito, 55% in Francia e in Austria. Benché il costo della vita sia aumentato per tutti, sono le famiglie più povere quelle sulle quali l’incidenza è maggiore: minore è il reddito, maggiore è la porzione dello stesso che deve viene «consumata» per rispondere a bisogni essenziali. Ad esempio, in Italia il 20% di famiglie che ha una più bassa spesa mensile (primo quintile) spende per generi alimentari, in termini assoluti, circa la metà del quintile più abbiente, ma per le prime la spesa alimentare equivale a circa il 25% della spesa totale, per le famiglie più benestanti equivale a circa il 13%. Se ai quattro beni e servizi considerati in quest’analisi se ne aggiungono altri egualmente essenziali, come la sanità o l’assistenza, si comprende facilmente che per una parte consistente delle famiglie – in Italia in particolare – il reddito che resta dopo aver soddisfatto i bisogni primari è irrisorio, e talora negativo, ovvero tale da costringere i cittadini a scegliere se nutrirsi, o riscaldarsi, o curarsi.

È importante notare che l’aumento dei costi dei beni e dei servizi essenziali è una tendenza di lungo corso, conseguente ai processi di privatizzazione e deregolamentazione delle attività economiche fondamentali e alla nascita della «cittadinanza di mercato». Di fatto, queste attività sono da tempo gestite come qualsiasi altra attività economica volta alla massimizzazione del profitto, spesso riducendo i costi del lavoro e incrementando il rendimento del capitale investito. Per esempio, il settore immobiliare ha conosciuto, soprattutto nelle grandi città, una trasformazione radicale che ha portato a una crescita esponenziale della rendita urbana, a danno dell’accessibilità alle abitazioni.

Alla luce di queste tendenze, dobbiamo prendere atto che la questione del lavoro e del reddito non è l’unica questione aperta per la sinistra, perché la sottoccupazione, la disuguaglianza e la povertà producono effetti devastanti soprattutto laddove mancano infrastrutture collettive in grado di sostenere un adeguato livello di benessere per tutti. Se i settori economici fondamentali non producono beni e servizi universalmente accessibili dal punto di vista economico e ben distribuiti nei luoghi di vita, nessun reddito, tantomeno i più bassi, può garantire un solido benessere.

Dobbiamo constatare che affidare la soddisfazione dei bisogni essenziali al mercato è un modello di cittadinanza che ha radicalmente fallito. Si apre qui uno spazio di azione decisivo per un riformismo radicale, sul quale si può costruire un’agenda condivisa da un ampio spettro di forze politiche, di movimenti, di soggetti associativi e alleanze civiche, di attori del terzo settore e, non da ultimo, di sindacati.

L’intero spazio dell’economia fondamentale – dalla sanità, all’alimentazione, alla casa, all’assistenza, all’energia, ai trasporti – è da ripensare e rifondare: è su un’economia fondamentale accessibile e di qualità che si fonda il benessere condiviso e, in ultima analisi, il grado di civiltà di un Paese. Come costruirla è una questione che riguarda scale territoriali, modelli regolativi e dimensioni organizzative diverse: da quella dell’auto-organizzazione locale, a quella prettamente politica della regolamentazione e della qualità dell’intervento pubblico su scala nazionale, a quella della costruzione di beni pubblici transnazionali su scala europea.

Una sfida del tutto aperta, che dovrebbe essere messa esplicitamente al centro di un’agenda politica di sinistra