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C'ERA UNA RIVOLTA . Intervista a Carlotta Cossutta, attivista di Non Una Di Meno e ricercatrice

 Sciopero transfemminista di Non Una Di Meno - LaPresse

Una coincidenza fortuita si annida tra le molteplici storie che ruotano attorno alle origini dell’8 marzo, Giornata internazionale della donna. Rovistando tra gli archivi di storia operaia si trova un fatto, poco noto e solo accidentalmente associato alla data. Siamo a New York ed è l’8 marzo del 1857. Alcune operaie del settore tessile decidono di scioperare e partono in corteo tra le strade della Grande Mela per denunciare le condizioni di lavoro inumane a cui sono sottoposte. A fine giornata si scontrano duramente con la polizia. Lo sciopero quindi, anche se sotto traccia, è nel Dna della ricorrenza.

Da diversi anni questa pratica di lotta è stata rimessa al centro dai movimenti transfemministi globali. Ne parliamo con Carlotta Cossutta, ricercatrice e attivista di Non Una Di Meno.

Perché lo sciopero dell’8 marzo si qualifica come femminista?
In primo luogo perché è uno sciopero politico, non è collegato a una vertenza, ha una dimensione molto più ampia, esistenziale. Si qualifica come femminista perché comprende tutte le categorie produttive ma anche il lavoro di cura che le donne e le persone lgbtq mettono in campo ogni giorno. Lo sciopero femminista si interroga su quelle forme di lavoro che non sono riconosciute come tali o che non hanno l’orizzonte dello sciopero come diritto. Pensiamo al lavoro domestico, non solo quello gratuito e volontario, ma anche quello di badanti, colf, baby sitter. Un lavoro intermittente o in nero o a chiamata, un settore in cui lo sciopero classicamente inteso non trova spazio.

In Italia negli anni Settanta abbiamo avuto lo sciopero dal lavoro domestico a cui in qualche modo ci rifacciamo. Negli ultimi anni abbiamo assistito a una serie di scioperi politici femministi: lo sciopero delle donne islandesi per l’equità di salario, quello delle donne polacche e irlandesi per il diritto all’aborto. Ma penso anche ai grandi scioperi in Spagna che chiedevano una trasformazione sociale o gli scioperi in Argentina e in Cile, nel movimento per ripensare la Costituzione. C’è una genealogia di scioperi recenti che hanno toccato temi diversi ma a partire da questo spunto: attaccare la riproduzione della società come forma di protesta.

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È inusuale convocare uno sciopero a partire da una dimensione poco strutturata, come quella di un movimento.

Non è semplice. Lo sciopero per legge deve essere indetto da un sindacato. Per fortuna Non Una Di Meno ha sviluppato ottime relazioni coi sindacati di base che garantiscono la copertura della convocazione. Questo ha significato da una parte costruire alleanze e dall’altra aprire conflitti. È difficile per un sindacato accettare uno sciopero che travalica le sigle, le condizioni e i programmi delle singole compagini. I sindacati confederali sono ancora restii a convocare l’8 marzo. La Cgil non aderisce (lo fa Flc, il settore della conoscenza, ndr) pensando questo strumento in maniera riduttiva.

La seconda difficoltà sta nel fatto che, in particolare in Italia, il 50% circa delle donne è disoccupata. Per loro pensare di poter scioperare non è immediato, il lessico dello sciopero è ancora associato a un certo tipo di lavoro salariato. Anche le donne che lavorano spesso sono precarie e scioperare vuol dire mettere a repentaglio l’impiego. Lo sciopero dal lavoro di cura, poi, è ancora più complesso. Il lavoro riproduttivo non ha orari, non è possibile realmente sospenderlo perché non si può decidere di smettere di prestare le proprie cure a un bambino o a un anziano non autosufficiente. Ma proprio qui sta la sfida. Anche se non si riesce a scioperare, rendersi conto di questo enorme carico credo sia un momento di consapevolezza importante.

Carlotta Cossutta

Il contrasto alla violenza di genere, almeno formalmente, mette d’accordo tutti. Quando si parla di sciopero femminista c’è una tendenza a defilarsi.
Credo che lo sciopero sveli la dimensione quotidiana della violenza, quella che la nostra società non vuole vedere. Per fortuna è diventato patrimonio comune che la violenza di genere sia qualcosa di inaccettabile. Però chiamare violenza ad esempio il gender pay gap non è scontato. Il gender pay gap è un fattore sociale che contribuisce a rendere possibile la violenza. Come la disparità enorme nella suddivisione del lavoro di cura tra uomini e donne o le difficoltà di accesso al welfare per donne e persone lgbtq fuori da un nucleo familiare riconosciuto. Quando si parla di questi cambiamenti strutturali emerge la differenza tra un posizionamento transfemminista e uno schierarsi genericamente contro la violenza.

Perché scegliere proprio lo sciopero come strumento di lotta?
Per due ragioni. La prima è la dimensione del tempo interrotto che lo sciopero implica. In una società che ci vuole sempre produttive, sempre performanti, sempre online, la distinzione tra tempo di lavoro e tempo di vita è saltata. Riconoscere la centralità del tempo e dire “mi prendo una giornata per vivere diversamente”. Interrompere il ritmo della performance continua e della «imprenditorialità di sé». L’altro motivo è la necessità di socializzare le condizioni lavorative che oggi sono vissute come un problema individuale. Anche quando si lavora con altre persone, si tende a personalizzare la propria condizione e sentirsi isolati. Lo sciopero diventa un’occasione per entrare in contatto con altre lavoratrici e altri lavoratori, costruire una coscienza collettiva.

Shendi Veli

Nata a Tirana, cresciuta a Roma. Ha girovagato in cerca di fortuna tra Londra, Parigi e Berlino. Lavora alla progettazione del manifesto digitale e ogni tanto scrive cose.