“L’idea che un Paese si fa del rapporto di lavoro è fondamentale per la qualità della democrazia”: così dieci anni fa Rossana Rossanda in un commento sul Jobs Act.
Lo pubblichiamo in occasione del convegno “Liberare il lavoro. Rossanda e le questioni del lavoro, ieri e oggi”, il 29 gennaio a Roma
Nella prossima primavera voteremo in quattro referendum promossi dalla Cgil contro la precarietà e il degrado del lavoro. Il voto punta a cancellare le misure più gravi introdotte dieci anni fa dal Jobs Act, voluto dal governo di Matteo Renzi. Contro le politiche del governo, Sbilanciamoci! ha pubblicato nel 2015 l’ebook Workers Act. Le politiche per chi lavora e per chi vorrebbe lavorare (scaricabile qui) e Rossana Rossanda ne firma la prefazione. La ripubblichiamo in occasione del convegno “Liberare il lavoro. Rossana Rossanda e le questioni del lavoro, ieri e oggi” che si tiene mercoledì 29 gennaio, ore 9.30-16 all'Università Roma Tre, Scuola di Lettere, aula 15, via Ostiense 236 Roma, organizzato da Fondazione Di Vittorio, Cgil Roma Lazio, Iress Lazio, Sbilanciamoci! e Comitato per il centenario della nascita di Rossana Rossanda. Il video della registrazione dell’incontro sarà disponibile sul sito della Fondazione Di Vittorio e su rossanarossanda.it. Gli articoli di Rossana Rossanda scritti per Sbilanciamoci tra il 2011 e il 2019 sono raccolti nell’ebook “Promemoria” (scaricabile qui). Tra le iniziative per il centenario di Rossana Rossanda c’è la mostra fotografica aperta fino al 16 febbraio presso la Casa delle donne a Roma.
Le pagine del “Workers Act” curato da Sbilanciamoci! spiegano, nella prima parte, il Jobs Act del governo di Matteo Renzi e nella seconda presentano un’alternativa a esso: non per caso si chiamano “Workers Act” perché esprimono il punto di vista dei lavoratori. È necessario spiegarlo perché l’insieme di testi presentato dal governo, non per essere discusso ma affidato con una serie di deleghe all’esecutivo, va chiarito a coloro che vi saranno obbligati senza aver potuto contribuire alla sua elaborazione. Dietro le formule nebulose si rivela, non detta, la volontà di rendere la prestazione della manodopera più flessibile in entrata e in uscita, cioè meno garantita per i dipendenti sia nell’assunzione, sia nel licenziamento, che torna a essere possibile a piacimento del padronato con un semplice rimborso, abolendo quel che restava dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970, dopo il già grave ridimensionamento operato dalla riforma Fornero del 2012.
Il lavoro diventa soggetto a tutte le versioni e forme diverse di precariato; il contratto a tempo indeterminato, definito in modo ingannevole “a tutele crescenti”, allarga tempi e spazi di precariato a cominciare senza remora alcuna dai primi tre anni, quando è perfino esente da imposizione fiscale per l’impresa. La troppo vasta tipologia dei contratti, con regolamenti relativi, non è stata corretta salvo in parte nel contratto a progetto, dov’era diventata scandalosa. In genere la molteplicità delle misure recepisce quella che – quando l’attuale Pd era ancora Pci e il sindacalismo cattolico aveva i suoi anni di gloria – era comunemente definita “giungla contrattuale”. I ripetuti annunci di semplificazione sono brutalmente smentiti da una legislazione il cui arruffamento non è indice di confusione, quanto moltiplicazione delle vie offerte al datore di lavoro di trattare i suoi dipendenti con il metodo “usa e getta”.
Si tratta di un arretramento poderoso dei lavoratori nei rapporti di forza con il capitale, perseguito dal governo nella convinzione – almeno presentata come tale – di agevolare l’imprenditore in un rilancio della crescita dell’economia, come se la sua attuale fluttuazione dallo zero allo zerovirgola si dovesse alle pretese eccessive imposte dai dipendenti, dai “lacci e lacciuoli” da loro messi allo sviluppo. L’assenza di qualsiasi piano di reindustrializzazione e di riduzione della disoccupazione crescente in Italia dimostra la miopia dell’attuale esecutivo nell’operare questa stretta. Essa non è dovuta alla crisi, ma ne profitta per ridurre le tutele dei lavoratori e l’importo dei salari, insomma per allargare i profitti dell’impresa e indurre una ripresa degli investimenti a spese dei salariati, senza modificare il prodotto o le tecniche di produzione. È una svolta di 180 gradi rispetto alla linea keynesiana che aveva sorretto la crescita del dopoguerra; una svolta che non solo penalizza i dipendenti ma non riesce a vivificare il mercato, che già fa sapere di non contare su più di un punto di crescita come conseguenza dell’applicazione del Jobs Act.
Il cardine della politica di austerità si rivela non solo socialmente ingiusto, ma inefficace, producendo tensioni sociali e soffocamenti; l’esempio più negativo è quello che Bruxelles insiste ad imporre alla Grecia con la filosofia del rimborso totale e in tempi stretti del debito, ma è una politica che pesa su tutti i paesi del sud Europa, mettendone in pericolo l’integrazione. È evidente l’intenzione di dare all’Europa una configurazione squilibrata fra nord e sud, confermando il potere dei primi, mentre si accantona ogni tentativo di definire condizioni uguali per tutti nella fiscalità e nelle strutture produttive. Il Jobs Act ha imposto di forza una diminuzione dei diritti del lavoro che interpella il parlamento e i partiti decisivi in esso, in primis il Pd, sulla svolta culturale avvenuta in questi anni; l’idea che un paese si fa del rapporto di lavoro è infatti fondamentale per la qualità della democrazia e della socialità che si persegue. L’idea del lavoro ha conosciuto una crescita difficoltosa ma costante dalla seconda guerra mondiale e dalla sconfitta del fascismo fino agli anni novanta del secolo scorso, e un’involuzione decisiva nella legificazione dell’attuale governo; è significativo che essa avvenga sotto l’egida di un premier espresso dal più grande partito di sinistra, fino a venti anni fa simbolo del movimento operaio.
Non siamo un’eccezione, sono chiamati governi di sinistra o di coalizione con la sinistra quelli che trascinano l’Europa sulla via dell’austerità, con la restrizione dei diritti sociali, del welfare e della spesa pubblica. Questa svolta culturale ha radici lontane. C’è da riflettere sul fatto che il movimento sociale più partecipato e liberatorio, quello del 1968, che esplode alla fine di un decennio di lotte, apre in Italia la strada a due nuove e decisive forme del politico: il movimento delle donne (femminista) e quello ecologico, fra loro disuniti, ma prorompenti su strati e soggetti sociali nuovi rispetto al movimento operaio, e spinti più che a integrarlo a metterlo sotto accusa per la balbuzie con i quali i suoi esponenti politici e sindacali, piuttosto che sposarne gli intenti, vi restano in concreto estranei.
Femministe e verdi accusano la già eccessivamente conclamata “fabbrica” di sordità sulla questione delle donne (sordità dovuta al maschilismo dominante sia a destra che a sinistra) e, peggio, di aver appoggiato o addirittura spinto a uno “sviluppismo” industriale sconsiderato, cieco ai limiti del pianeta e quindi opposto alla sostenibilità della produzione e dei territori. Sta di fatto che questi grandi filoni di critica del presente investono masse crescenti ma divise e incapaci di parlarsi, ciascuna in contrapposizione alle altre e aspirante all’egemonia. La cosiddetta crisi della politica è stata una porta spalancata al liberismo che pareva espulso dall’orizzonte e vi è trionfalmente rientrato, e con tanto più impatto in quanto che essa si verifica contemporaneamente al precipitare delle società dette comuniste. L’Unione sovietica, la Repubblica popolare cinese e Cuba, rivoluzioni nate in condizioni storiche diverse ma che hanno avuto in comune l’obiettivo della liberazione del lavoro dal capitale sono tutte e tre passate – dopo il 1989 – a forme esplicite di capitalismo di stato, aperto all’iniziativa privata.
È stato il caso più evidente di eterogenesi dei fini di un movimento internazionale giovanile che, mirando a un approfondimento inedito del pensiero politico moderno e delle sue principali istituzioni attraverso uno scavo delle radici dell’autoritarismo ai fini di una più compiuta liberazione della persona, perde di vista la mondializzazione del capitale, e ritenendo impossibile metterla in causa, ha finito con l’offuscare dalle coscienze l’importanza del rapporto di lavoro, un tempo considerato “centrale”. Certo non da solo; le modifiche dell’organizzazione proprietaria e della produzione, il venir meno della grande fabbrica, già contenitore della parte essenziale della forza lavoro e quindi luogo deputato delle sue elaborazioni politiche e sindacali, ha favorito la presa profonda nella società di alcune realtà e di alcune favole: la fine della figura operaia, proprio mentre essa assumeva proporzioni inedite sul globo, la fine di una identificabile proprietà del mezzo di produzione, il moltiplicarsi delle esternalizzazioni e delle tipologie contrattuali, il dilagare del prodotto immateriale rispetto alla fisicità del prodotto industriale, l’immaterialità delle tecniche del processo produttivo, la crescita, rispetto alle capacità elementari del lavoro parcellizzato, del ricorso a un “intelletto generale” che implicava facoltà e molteplici saperi della vita urbana.
Tutto questo ha prodotto e accompagnato la frammentazione della coscienza dei lavoratori e il minore impatto delle loro organizzazioni tradizionali. Sta di fatto che dagli anni ottanta in poi l’aderenza di una “coscienza operaia” alle trasformazioni proprietarie e del processo produttivo è andata sfocandosi e indebolendosi, mentre nel formarsi in misura crescente di movimenti puntuali ma separati, appare perduta un’interpretazione comune dell’avversario capitalistico e del “che fare” degli sfruttati. I gruppi di ricerca infittiscono ma non comunicano, neanche nelle forme razionali: c’è la separatezza dei sindacati anche in Europa, il frantumarsi di un’opinione politica comune, fatta eccezione per Syriza in Grecia e Podemos in Spagna.
Neanche quando il governo lancia un’operazione capitalistica su grande scala, come il Jobs Act, essa produce una scossa immediata di percezione da parte del blocco popolare, probabilmente perché di “blocco” non si può più, o non ancora, parlare – e qui si viene alla proposta di coalizione sociale di Maurizio Landini. In Italia occorre molto tempo perché si realizzi una manifestazione nazionale di protesta, mentre l’infiacchirsi dei meccanismi maggioranza/opposizione in democrazia induce reazioni scomposte del governo. Non va dimenticato infatti che il frutto più velenoso della “crisi della politica”, visibile specialmente negli eventi elettorali, è l’impoverimento della rappresentanza e delle sue regole primarie che dà luogo al confuso emergere di un “partito della nazione” immaginato da Renzi, in cerca di un’investitura popolare, che rinnovi i fasti del 40% ottenuto alle elezioni europee, sul quale si basa l’autorità di cui fa sfoggio per indebolire il patto costituzionale.
La ricezione inizialmente senza intoppi – tranne quelli venuti dalla Cgil o, come questo lavoro, da Sbilanciamoci!, nel silenzio del Partito democratico – è significativa di un’ennesima caduta culturale e morale del paese. Di qui l’importanza negativa del Jobs Act e di questo tentativo di opporgli una critica e un’alternativa, offerte come materiale di lavoro alla classe operaia e ai suoi gruppi di studio, cui spetta discuterle ed eventualmente modificarle.
Pubblicato su Sbilanciamoci.info il 26 maggio 2015
Commenta (0 Commenti)Autonomia La decisione della Corte costituzionale di non ammettere il quesito sull’autonomia differenziata rischia di chiudere spazi di partecipazione effettiva
Il referendum sulla normativa residua della legge Calderoli per l’autonomia differenziata è inammissibile; la lotta continua. Il rischio che, nonostante le nette indicazioni della Corte costituzionale, legislatore e governo procedano è tutt’altro che remoto.
Potrebbero provare a colmare i vuoti aperti nella legge Calderoli con contenuti meno tranchant ma sempre deleteri per l’uguaglianza e la garanzia dei diritti. La direzione, cioè, potrebbe essere verso un regionalismo competitivo soft e non la via del regionalismo solidale: una autonomia competitivo-cooperativa, più razionale, più coerente alle esigenze di efficienza economica, in grado magari di incontrare favori oltre la compagine governativa e un maggior gradimento nel mondo imprenditoriale.
I tentativi di uscire dai binari costituzionali non mancheranno e si saldano ad altri programmi eversivi della Costituzione, come il premierato, la separazione delle carriere, i numerosi provvedimenti in materia di sicurezza che reprimono il dissenso, criminalizzano poveri e migranti, accelerando la corsa verso uno stato autoritario.
Dovrà, dunque, essere esercitata una intensa vigilanza. Sarà compito delle opposizioni, in parlamento, pur nella consapevolezza che i numeri lasciano poco margine di manovra, assicurare che vengano seguiti i binari posati dalla Consulta; evitando di cedere, come già accaduto, al fascino di mistificatrici logiche meritocratiche, suggestioni di eccellenza e ammiccanti privatizzazioni. Sarà compito dei cittadini, della società, del «basso» che si muove in direzione ostinata e contraria, continuare ad esigere l’attuazione dei principi di solidarietà, uguaglianza, la garanzia dei diritti. È la stessa Costituzione ad affidare a tutti il compito: l’articolo tre non a caso assegna il progetto di trasformare la società alla «Repubblica».
Sulla pronuncia della Corte non ripeto quanto già ottimamente scritto su queste pagine, mi limito a due domande, restando sul piano giuridico: oltre ad una invasione di campo (lo spazio dell’Ufficio centrale per il referendum presso la corte di Cassazione), non vi è una eccessiva autoreferenzialità, che sconfina in una sovrapposizione di piani (il giudizio di costituzionalità e la scelta politica)? Il referendum esercita una «funzione più ampia, di attiva partecipazione politica» (Mortati), è una forma del controllo popolare (Terracini). Attraverso il referendum passa uno dei modi nei quali si esercita la sovranità popolare ed esso rappresenta, altresì, un possibile strumento in funzione contro-maggioritaria (sottolineo possibile, nella consapevolezza dell’uso plebiscitario e populista che esso può assumere), assicurando così l’espressione del pluralismo.
La Corte non dovrebbe attenersi ad un self-restraint coerente con il senso del referendum? Un eccessivo interventismo nella valutazione della consapevolezza della scelta rischia di chiudere spazi di partecipazione effettiva e infantilizzare i cittadini, determinando eccessi oligarchici e paternalisti.
Leggeremo le motivazioni. Resta sin d’ora che il referendum sull’autonomia differenziata non si potrà tenere, ma la partecipazione si può – si deve – esercitare ugualmente, vigilando e agendo per un regionalismo solidale, in coerenza con i quattro quesiti proposti dalla Cgil, che mirano a restaurare l’idea costituzionale di lavoro come strumento di dignità, e con il quesito sulla cittadinanza come inclusione nella comunità di diritti e doveri di chi vive sul territorio. Si tratta, in altri termini, di continuare a riportare nel dibattito pubblico e nella società la voce della Costituzione; una voce che nei tempi del capitalismo autoritario disegna un’alternativa concreta all’esistente.
E resta che la sentenza 192 del 2024 è una solida barriera contro l’istituzionalizzazione della diseguaglianza, l’abbandono dell’orizzonte della solidarietà, l’intensificazione di processi di privatizzazione; è un solido terreno per costruire il regionalismo solidale, per ragionare di diritti sociali e di uguaglianza sostanziale. Senza mai dimenticare che la barriera giuridica necessita di essere sostenuta e rafforzata dall’azione di forze sociali e politiche, che il terreno è reso fertile dalla mobilitazione. Con una consapevolezza: essere sul sentiero della Costituzione è agire per la trasformazione della società.
Commenta (0 Commenti)Fuga di Stato Se il cammino del governo è ancora un po' accidentato è solo perché il passo è goffo ma la meta ambiziosa: niente di meno che tirarsi fuori dallo stato di diritto e dalle istituzioni internazionali che ancora si preoccupano di tenerlo in piedi
Il fatto che il primo pensiero della presidente del Consiglio, ricevuta la notizia di essere indagata per l’evasione di Stato del torturatore libico, sia quello di accendere la telecamera, sventolare orgogliosa l’atto giudiziario e con lo sguardo tagliente ripetere «non sono ricattabile» non è che la conferma di quanto sia illusorio e controproducente pensare di farla cadere con l’arma del codice penale. Lo sa chi non si è troppo distratto negli ultimi trent’anni e ha sentito parlare di un certo Berlusconi (o di un certo Trump). Meloni appare quasi soddisfatta quando rivendica di essere anche lei indagata, come lo è stato inutilmente Salvini e dallo stesso procuratore. Le vie della propaganda sono infinite.
Un magistrato, il procuratore capo di Roma, che non è un giacobino fustigatore di potenti, ma un moderato esponente della corrente di destra delle toghe che ha nel più stretto collaboratore di Meloni, il sottosegretario Mantovano, uno storico punto di riferimento.
La stessa corrente che giusto ieri ha vinto le elezioni tra le toghe: anche il racconto di una magistratura di sinistra e tutta all’opposizione è largamente esagerato. Un uomo di destra, la stessa da cui origina Fratelli d’Italia, è anche l’avvocato che ha presentato la denuncia.
Peraltro della vicenda Elmasry tutto si può dire tranne che gli alti magistrati romani, procura generale e Corte d’appello, abbiano creato ostacoli ai pasticci di palazzo Chigi, Viminale e ministero della giustizia. Casomai hanno collaborato poco con la Corte penale internazionale che adesso chiede spiegazioni. Viene da pensare che il governo abbia fatto l’ennesimo autogol, provando con le prime dichiarazioni di Piantedosi e Nordio a scaricare tutta la responsabilità dell’imbarazzante vicenda sulle toghe romane. Ora i due sono ridotti a nascondersi dal parlamento, dove qualcosa dovrebbero pur dire. E a proposito di torturatori, il governo che fece scappare Kappler almeno evitò di riaccompagnarlo a casa (e un ministro si dimise).
Non è dunque questione di toghe prevenute, non esistono complotti e non c’è nemmeno chissà quale opposizione ringhiante che la presidente del Consiglio deve sfidare «a testa alta». Se il cammino del governo è ancora un po’ accidentato è solo perché il passo è goffo ma la meta ambiziosa: niente di meno che tirarsi fuori dallo stato di diritto e dalle istituzioni internazionali che ancora si preoccupano di tenerlo in piedi.
Siamo a un passo dal «molti nemici molto onore» e dopo la video accusa di Meloni alla Corte penale internazionale – accusa piena di falsità – stiano adesso attenti i giudici che decideranno sulle nuove deportazioni di migranti. Sono giudici che il governo ha scelto con cura, ma anche loro restano soggetti alle stesso diritto costituzionale ed europeo che fin qui sta facendo fallire il «modello Albania».
Sarebbe dunque sbagliato affidarsi al versante giudiziario del caso Elmasry, che molto probabilmente il tribunale dei ministri liquiderà in fretta. Ma certamente il caso politico non è chiuso. Meloni lo ha riaperto, ripetendo la giustificazione di Piantedosi con più autorità e più enfasi. Se il torturatore è stato riportato in Libia con il volo di Stato, ha detto, è perché «era in gioco la sicurezza nazionale». Il soggetto, il governo lo dice apertamente (del resto ci sono centinaia di testimonianze di torturati), effettivamente è assai pericoloso.
Non c’è solo, dunque, l’incongruenza di liberarlo lì dove può continuare a commettere i suoi crimini, invece che farlo processare all’Aja. C’è anche l’esplicita ammissione che uno dei referenti dell’Italia per quel patto con le bande libiche che dal governo Gentiloni in poi serve a tenere i migranti lontano dalle coste italiane e dentro le celle della tortura, è un noto e riconosciuto criminale.
Se Meloni prendesse sul serio le sue stesse parole dovrebbe immediatamente cancellare quei vergognosi accordi. E smettere di garantire impunità e sovvenzioni ai torturatori.
Commenta (0 Commenti)in “La Stampa” del 27 gennaio 2025
La giornata della memoria cade anche quest'anno, come già nel 2024, nel bel mezzo di una guerra sanguinosa tra Israele e Hamas, tra Israele e i palestinesi. La tregua assai fragile raggiunta a Gaza ha dato vita ad un'altra operazione israeliana, questa volta in Cisgiordania, denominata non a caso "Muro di ferro", il titolo di un famoso scritto del 1923 di Ze'ev Jabotinsky, il teorico del sionismo "revisionista", il padre dell'attuale destra (anche se il suo movimento era privo di quell'estremismo religioso messianico e del razzismo che caratterizza oggi l'estrema destra al governo in Israele). Secondo molti commentatori, la strada verso l'annessione della Cisgiordania è aperta, con tutte le conseguenze che possiamo immaginarci nel rapporto con i palestinesi che la abitano ma anche nel rapporto con tutto il mondo arabo. L'antisemitismo, già molto cresciuto nell'ultimo anno, non potrà che aumentare tanto in Europa che nel resto del mondo. In Italia, ne abbiamo un esempio tristissimo nelle accuse indegne rivolte nei social alla senatrice Liliana Segre.
Questo è il contesto in cui celebriamo la giornata della memoria, ricordiamo cioè la Shoah, l'annientamento della maggior parte del mondo ebraico europeo, nel giorno del 1945 in cui l'armata Rossa ha raggiunto Auschwitz, il campo divenuto simbolo della Shoah, liberandone i pochi superstiti. In che modo possiamo celebrare questa giornata senza dimenticare l'orrore di oggi, le decine di migliaia di civili uccisi a Gaza, la distruzione della Striscia, delle sue case, delle sue scuole, dei suoi ospedali ad opera di un governo, quello israeliano, che si proclama erede degli ebrei assassinati nella Shoah? E come possiamo raccontare le leggi razziste contro gli ebrei, la volontà nazista di distruggere quella che definiva la "razza ebraica", senza condannare il razzismo espresso quotidianamente, in termini non tanto dissimili, dalla destra ebraica più estremista nei confronti dei palestinesi? Come non ricordare le dichiarazioni dei coloni israeliani sulla necessità di uccidere anche i bambini palestinesi perché saranno i futuri terroristi mentre ricordiamo quelle naziste sullo sterminio dei bambini ebrei, a queste tanto simili? Queste cose succedono ora, e non molto lontano da noi. Come non volerle fermare?
Non vorrei essere fraintesa. Non credo che sia né giusto né utile confrontare Gaza o quanto succede in Cisgiordania con la Shoah, come non lo è il paragonare l'orrenda macelleria compiuta da Hamas il 7 ottobre 2023 con la Shoah, come subito proclamato da Netanyahu, paragone che è servito solo a giustificare la guerra del governo israeliano. Ma molti sono gli elementi che accomunano i massacri dei civili fra loro, massacri che l'elaborazione giuridica successiva alla Shoah ha cercato di arginare definendoli come crimini e creando tribunali volti a combatterli. Un processo, quello della creazione di un diritto internazionale, ora tradito e messo direttamente sotto accusa, in primis proprio da Israele. Un processo che ha affiancato, è stato parte, di quello della costruzione della memoria della Shoah, della volontà del suo superamento.
Che fare allora? Rinunciare a celebrare la memoria? Dire che non dobbiamo pensare ai morti di ieri perché ci premono quelli di oggi, siano essi i palestinesi massacrati da Israele o gli ebrei assassinati da Hamas? Credo invece che ancor più dobbiamo oggi dar vita e forza a questa memoria, perché è cresciuto, non diminuito, il bisogno che ne abbiamo. La giornata della memoria, infatti, non è nata per onorare i sei milioni di ebrei assassinati nella Shoah, o almeno non solo per questo, e soprattutto non è stata rivolta agli ebrei, ma a tutti. Non a caso è diventata l'unica ricorrenza civile comune a tutti i paesi dell'Unione Europea. Assumerla ha voluto dire, per l'Europa, che fin dal suo nascere essa rifiutava ogni razzismo, ogni genere di antisemitismo, ogni rifiuto delle diversità. Si dava dei principi che rendessero impossibile che ciò che era accaduto succedesse di nuovo, non ai soli ebrei ma a chiunque. La memoria della Shoah è così diventata uno dei fondamenti etici e politici della nostra Europa, un'Europa anch'essa ora sempre più a rischio di scomparire o di perdere la sua anima. Tanto più in queste circostanze, mentre cresce l'antisemitismo sull'onda del conflitto israelo-palestinese ma mentre crescono anche ovunque razzismi, rifiuto della diversità, oppressione dei più deboli, dei poveri, degli inermi, tanto più per questo abbiamo bisogno della giornata della memoria. Per ricordare come questi processi iniziano, dove possono sfociare, come possono essere almeno arginati.
Naturalmente, proprio questa necessità richiede la massima cura, la più grande attenzione. Non possiamo limitarci a celebrazioni retoriche e vuote, dobbiamo riallacciarci a questo terribile passato per meglio capire il nostro terribile presente. Dobbiamo rivolgere domande precise, non generiche, a questa memoria. Interpretare la sua stessa storia, le contraddizioni fra l'oblio e il ricordo, le sue molteplici facce nel tempo: da una parte, per molti ebrei, un luogo dove rinchiudere la propria identità, proteggerla, salvaguardarla considerandola unica e quindi tale da offrire al mondo ebraico un posto privilegiato fra le innumerevoli vittime del secolo dei genocidi; dall'altra, invece, considerarla un filtro per evitare altri genocidi, altro razzismo, altre violenze contro gli inermi, per battersi contro ciò che l'ha generata in passato e può generare altri fenomeni simili in futuro. E fra i fenomeni simili non si può non riconoscere anche la guerra di Gaza, non solo il 7 ottobre. E fra le strade che portano al razzismo anche quella intrapresa dal governo di Israele. E queste cose dobbiamo dirle, spiegarle, segnarle nella mente di chi ci ascolta se non vogliamo veder divampare proprio dalle nostre parole il fenomeno che ci illudiamo di combattere, l'antisemitismo.
Perché nessuno deve illudersi. Quanto è successo dopo il 7 ottobre ha cancellato per sempre quel posto privilegiato fra le vittime che Israele, facendo sue le vittime della Shoah, si era riservato. Gli orrori della guerra di Gaza lo hanno per sempre annullato. Ora, deve necessariamente aprirsi ad altre vittime, far loro posto accanto alle sue, rinunciare alla sua unicità. E qui, lontani ma non troppo dalla guerra, dovremo fare di questa memoria uno strumento per combattere l'uccisione dei civili, il massacro dei più deboli, il razzismo. Anche se sono compiuti dagli israeliani. Se non vogliamo che questa memoria rischi di scomparire insieme con la giornata che la celebra.
Commenta (0 Commenti) La disturbante opera Maus di Art Spiegelman che raffigura gli ebrei vittime della Shoah come topi
Oggi fa impressione ascoltare Liliana Segre che parla della libidine "con cui troppi sembrano cogliere un’opportunità per sbattere in faccia agli ebrei l’accusa di fare ad altri quello che è stato fatto a loro”
Christian Raimo
Buongiorno,
domani è il Giorno della memoria, per ricordare vittime, carnefici e complici della Shoah e confrontarsi con la sua unicità ma anche con la consapevolezza - come diceva Primo Levi - che se è accaduto può accadere di nuovo.
Mai come quest’anno è una ricorrenza che solleva domande, genera tensioni, a Milano la Comunità ebraica non parteciperà agli eventi dove c’è l’Anpi, l’Associazione nazionale partigiani per la divergenza di toni e vedute sulla guerra di Israele ad Hamas a Gaza. L’Anpi parla di genocidio, la Comunità ebraica lo ritiene in accettabile.
Ne approfitto quindi per riproporvi questo articolo di Christian Raimo, uscito qualche tempo fa, che è un utile spunto di riflessione.
Più sotto trovate anche il saggio più recente che Raimo ha pubblicato su Appunti, dedicato al tema della violenza della polizia e alla serie Acab su Netflix.
Fateci sapere che ne pensate,
Buona domenica
Stefano
di Christian Raimo
Nel 2000 viene istituito il Giorno della memoria, con cui si incarna anche a scuola e fuori dalla scuola, una forma di educazione istituzionale contro l'antisemitismo.
La sfida pedagogica è provare a parlare di tre cose: la violenza sistemica di un genocidio storicamente determinato, la modellistica di una politica dello sterminio (il Ruanda, Srebenica, avevano fatto riparlare negli anni Novanta di genocidio e di lager), l'assurdo di un male indicibile.
Pensando, questa è la sfida più alta, a come fare di quella riflessione storica una riflessione e un'esperienza universalizzabile.
In quegli stessi anni e prima anche e dopo ovviamente su questi tre temi - Olocausto storico, modellistica dello sterminio, vertigine di un male indicibile - si è dibattuto fino allo stremo, provando a produrre anche gli stessi antidoti all'eccesso di memoria, all'eccesso di comparazioni, all'eccesso di centralità della vittima.
Il risultato purtroppo è stato scarso.
Il senso della riflessione sull'Olocausto, i lager, la violenza sistemica dello sterminio, e soprattutto sull'assurdo del male, è stato spesso ridotto, nella retorica politica, a un dispositivo di empatia velocizzato, standardizzato. La banalità della banalità del male.
Invece di trovare il modo di sostare nel trauma, un trauma distante nel tempo, sproporzionato, disumano, si è pensato spesso a come creare una dottrina frettolosa, che ci consentisse di elaborarlo in fretta, come un'educazione civica da mandare a memoria, un catechismo postnovecentesco, spesso usato come sostituto alla pedagogia antifascista.
Nel 1993 era uscito il film Schindler’s list, nel 1997 La vita è bella, ed erano sembrati a moltə gli strumenti più accessibili per
Leggi tutto: La banalità della banalità del male - di Christian Raimo
Commenta (0 Commenti)Riforme al palo Il premierato è lontano, la soluzione è una nuova legge elettorale. E minacciare il ritorno alle urne
Una legge elettorale applicabile con il premierato ma, soprattutto, anche senza premierato. E da subito. Perché un simile sistema metterebbe nelle mani della premier Meloni le chiavi della legislatura, compresa l’arma delle elezioni anticipate. È a questo che da oltre due settimane si ragiona a Palazzo Chigi e di cui si è parlato nel vertice di maggioranza di mercoledì scorso, dopo alcuni scambi informali tra gli sherpa dei partiti.
PER GLI ASPETTI TECNICI della formula elettorale, più che al cosiddetto Tatarellum (il sistema delle elezioni regionali a turno unico) si dovrebbe pensare al buon vecchio Porcellum ma «costituzionalizzato», vale a dire corretto secondo le indicazioni della Corte costituzionale che con la sentenza 1 del 2014 lo mandò in soffitta. Una correzione di quella formula che riprende una vecchia idea di Ignazio La Russa. L’aspetto politico è comprensibile facendo due passi indietro. Il primo ci riporta alla conferenza stampa di inizio anno della premier Meloni del 9 gennaio. A una domanda sulle riforme rispose che l’approvazione del premierato potrebbe slittare a fine legislatura, con il referendum confermativo che si terrebbe quindi dopo le elezioni politiche. In tal caso, disse Meloni, «a fine legislatura ragioneremo sulla legge elettorale». Un altro passo indietro ci permette di intuire il colpo di genio che ha spinto Palazzo Chigi a pensare a una legge elettorale compatibile con l’attuale sistema e il premierato.
AL MINISTERO delle Riforme hanno fatto osservare a Meloni che vanno cambiati i collegi dell’attuale legge, il Rosatellum. Infatti esso prevede che siano assegnati i seggi alle diverse regioni e circoscrizioni elettorali in base alla popolazione, così come certificata dall’ultimo censimento generale. Ebbene, i dati del censimento del 2021 sono disponibili da diversi mesi ed è quindi un atto dovuto del governo ridisegnare i collegi per consentire in qualsiasi momento al Quirinale di sciogliere le Camere e votare. Nella nuova mappa – come già calcolato dall’ufficio studi della Camera – le circoscrizioni della Camera di Calabria, Puglia, Sardegna, Abruzzo e Campania 2 perdono un deputato ciascuno, mentre ne guadagna due Milano (Lombardia 1), e uno ciascuno Lombardia 3, Roma (Lazio 1), Lazio 2. E analogamente accade per il Senato. Orbene, perché anziché limitarsi a un ritocco dei collegi, non pensare a una legge elettorale che vada bene sia con il premierato che senza?
IL VANTAGGIO POLITICO sarebbe evidente per la premier Meloni: la possibilità di minacciare le dimissioni, con conseguenti urne anticipate. Il che le consegnerebbe le chiavi della legislatura. E veniamo alla formula a cui si è ragionato. Durante la discussione in Senato sul premierato, il relatore Alberto Balboni ha detto che si punta a un sistema a turno unico con premio di maggioranza. Il sistema delle regioni, fu detto, appunto il Tatarellum. Non esattamente. Si pensi piuttosto vecchio Porcellum, la legge Calderoli: era una sistema proporzionale, ma con premio di maggioranza alla coalizione vincente e liste bloccate.
LA CONSULTA, nella sentenza 1 del 2014, ne bocciò due elementi: mancava una soglia minima per l’attribuzione del premio di maggioranza; non andavano bene le liste bloccate perché non consentivano all’elettore di conoscere i candidati e quelli che avrebbe mandato in Parlamento con il voto. Ebbene, con una soglia del 40% il primo problema è risolto. Per quanto riguarda il secondo ecco rispuntare una vecchia idea di Ignazio La Russa: capolista bloccato in ciascuna delle 28 circoscrizioni della Camera e in ciascuna regione per il Senato, preferenze per gli altri.
LE SEGRETARIE o i segretari dei partiti maggiori avrebbero la sicurezza di un nucleo di fedelissimi eletti come capilista bloccati, mentre con le preferenze si lascerebbe sfogo alle correnti interne (Schlein ne ha tratto vantaggio alle europee, visto che il pieno dei voti dei candidati della minoranza ha alzato lo score del suo Pd); i leader dei partiti medi (Fi, Lega, M5s e Avs) avrebbero tutti i propri «corazzieri» eletti. Ad arrancare sarebbero i partiti molto piccoli, che rischiano di non superare una soglia attorno al 3%, oggi garantiti dai collegi uninominali (es Noi Moderati, +Europa). Partiti tuttavia necessari alle coalizioni che grazie a un 2% ottengono il premio di maggioranza. Quando venerdì Dario Franceschini ha detto che non serve una coalizione formale di centrosinistra, e che occorre «valorizzare la parte proporzionale», forse aveva mangiato la foglia.
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