ADDIO ALDO TORTORELLA È stato un vero maestro. Il senso dei suoi contributi: la sinistra per salvarsi deve cambiare profondamente e affiancare alla polarità dialettica dell’uguaglianza la categoria della libertà
Con la scomparsa di Aldo Tortorella perdiamo uno degli ultimi Sacerdoti del Tempio. Parliamo di quel mondo assimilabile per molti versi ad una chiesa (un po’ pagana, ma neanche troppo) che ha segnato la storia italiana. E non solo. Infatti, per diversi decenni il Partito comunista italiano di cui Tortorella è stato uno dei massimi dirigenti è sembrato l’esempio migliore di una tradizione capace di innervarsi nella e sulla modernità: cresciuto nella impareggiabile scuola della Resistenza e allo stesso tempo forte di un insediamento sociale straordinario. La moderata politologia dell’epoca si suggestionava attorno al cosiddetto fattore K, scudo per coloro che vollero contro ogni logica sbarrare l’accesso alle stanze del governo ad un universo lontano dalle malefatte e dalle mediocrità dominanti, nonché da ogni autoritarismo.
Se Gramsci sta alle origini della peculiarità italiana e se Togliatti e Longo realizzarono il sogno di una vera organizzazione di massa, fu Enrico Berlinguer a conferire al Pci un volto davvero inedito. Di quella stagione Tortorella rimase a lungo protagonista e persino ispiratore del Berlinguer che venne dopo il 1980 con la «seconda svolta di Salerno». Il segretario, talvolta in minoranza nella stessa direzione nazionale, che volle incontrare il femminismo, i movimenti per la pace e l’ambiente, l’intellettualità meno paludata (questo, sottolineava Tortorella, era il vero senso del rinomato convegno tenutosi al teatro Eliseo di Roma nel gennaio del 1977), l’innovazione tecnologica da non rimuovere ma da declinare negli assetti democratici.
Ora che Tortorella non c’è più gli dobbiamo il riconoscimento importante di persona lucida e capace di interagire criticamente con le teorie e le pratiche consolidate.
Parlamentare, giornalista dell’Unità e giornalista sempre per la voglia di esplorare territori faticosi e inediti, non si è arreso fino all’ultimo. Non per caso, l’associazione che insieme al compianto Beppe Chiarante fondò nel 1998 si chiamò «per il rinnovamento della sinistra». Era convinto, pur esprimendo i concetti con una prosa precisa e coltissima figlia degli studi con il filosofo Antonio Banfi e del confronto con l’impegnato cenacolo di Critica marxista, la rivista del cui indice parlava persino negli ultimi giorni attraversati da un malanno non banale, che servissero creatività e coraggio. Il senso e il filo conduttore dei suoi contributi erano univoci: la sinistra per salvarsi deve cambiare profondamente, e introdurre accanto alla polarità dialettica dell’uguaglianza la categoria della libertà. Quest’ultima andava intesa, ci disse in una riunione preparatorio di un convegno (che terremo in suo onore) pensato insieme al Centro per la riforma dello stato e alla Fondazione Di Vittorio, non come mero diritto borghese e individualistico, bensì come valore sociale per realizzare il bene comune.
Quanto abbiamo imparato da Tortorella. Un vero maestro, nel senso pieno del termine. Un rimpianto abbiamo, in verità motivato all’aggravamento delle condizioni di salute: non essere riusciti a registrare una programmata conversazione proprio sulla questione della libertà, «il mio canto del cigno» diceva.
Figlio di una cultura rigorosa e di un atteggiamento sobrio mai incline ai narcisismi oggi di moda nei talk televisivi, aveva tenuto per sé e se mai per le persone intime le incredibili virtù di prefigurazione e di ricerca rabdomantica di nuovi paradigmi interpretativi. All’epoca, non si usava vivere la quotidianità attraverso una dichiarazione mediatica o un post sui social: si rifletteva, si studiava, si costruivano idee politiche.
Era una scelta etica, che vide in primo luogo in Enrico Berlinguer l’espressione autentica e fortissima. Ma Tortorella era assolutamente contiguo a simile impostazione, al punto che il suo allontanamento progressivo dalle case madri nate dalla svolta dell’89 -verso la quale si espresse negativamente ma non in nome di un impossibile ritorno indietro – divenne dispiaciuto e tuttavia convinto, in particolare dopo la vicenda dell’intervento armato nell’ex Iugoslavia.
L’ARS voleva essere il ponte di collegamento tra le varie soggettività, aprendo i cancelli dei saperi e non chiudendoli in assurdi settarismi. Parteciparono, ad esempio, un socialista come Gaetano Arfé e un cattolico come Raniero La Valle.
Nell’ultima stagione, con lucidità e passione intatte, Tortorella ha parlato in decine di conferenze sulla lotta antifascista e sulla difesa della Costituzione repubblicana, sul centenario del Pci e sull’anniversario della tragica morte di Berlinguer. Speriamo che insegnamenti tanto rilevanti scavino, scavino come una tenace vecchia talpa.
Premier omissis Mancavano solo gli spioni in azione, in questo caotico incrocio della cronaca istituzionale dove un torturatore viene accompagnato a casa con l’aereo di Stato, due ministri alzano cortine fumogene sbraitando […]
Mancavano solo gli spioni in azione, in questo caotico incrocio della cronaca istituzionale dove un torturatore viene accompagnato a casa con l’aereo di Stato, due ministri alzano cortine fumogene sbraitando contro i magistrati italiani e internazionali, la presidente del consiglio è un omissis a fondo pagina e i leader delle opposizioni – non tutti senza macchia, di certo tutti senza paura di scadere nel ridicolo – giocano con i pupazzetti nelle aule del parlamento.
Mancavano ed ecco che prontamente arrivano e non hanno le sembianze dell’omino di burro o di un coniglietto. Anche se i protagonisti della politica agiscono come se fossero in un film di John Landis la vicenda, per quanto ancora oscura e ingarbugliata, appare seria: giornalisti e attivisti (circa 90 in tutto il mondo, 7 italiani) che si ritrovano i telefonini infettati via WhatsApp da uno spyware (un software spia) e vengono avvertiti della spiacevole circostanza dalla società di Zuckerberg.
E la presidenza del consiglio italiana che mercoledì sera mette le mani avanti escludendo che i soggetti in questione siano stati «sottoposti a controllo da parte dell’intelligence, e quindi del governo».
Quella presa di distanza avviene però mentre già è nota – è uscita ieri mattina sul britannico Guardian – la notizia che la società israeliana Paragon Solution, quella che produce il software militare di hacking inoculato negli smartphone dei giornalisti e degli attivisti, ha stracciato il contratto con l’Italia (i clienti di Paragon sono tutti «governativi») per violazione dei termini di servizio e del quadro etico concordato.
Insomma, palazzo Chigi, cioè la presidente del consiglio Giorgia Meloni, forse non ne è a conoscenza, ma sembrerebbe che a spiare i sette italiani sia stata proprio un’agenzia governativa, a meno che lo spyware non sia finito chissà come nella disponibilità di qualche altro soggetto, il che non sarebbe meno allarmante.
Chiederle di approfondire e chiarire è persino scontato. La stessa presidente del consiglio però ultimamente è sempre più dissociata dalla sua funzione. Non vuole affrontare personalmente davanti al parlamento il caso Elmasry, anche se spetterebbe proprio a lei in quanto responsabile della politica generale del governo rispondere di una così seria e grave decisione. Ma forse è talmente grave e scabroso il quadro stesso in cui quella decisione è stata assunta che persino lei teme possa sporcare la sua immagine di patriota materna davanti agli elettori, non tutti appassionati della quotidiana gara televisiva a chi ha il pelo sullo stomaco più folto (un torturatore? ma che sarà mai, si fa così da che mondo è mondo, che non avete mai sentito parlare della ragion di Stato?…).
In fondo nemmeno tutti gli esponenti delle opposizioni, nonostante i due giorni di sarabanda parlamentare, sembrano avere questa gran voglia di andare a scavare in profondità su una vicenda – quella degli accordi con i libici – che chiama in causa parecchi governi, compresi i loro.
Però poi capita che le cose non solo accadono, ma si vengono a sapere e più si tenta di nasconderle con diversivi mediatici (non ci è stata risparmiata nemmeno una ex sottosegretaria andata in tv a fare «bau bau») e più sfuggono da tutte le parti e se ne aggiungono di nuove. Così le opposizioni ora chiamano ancora una volta il governo a rispondere in parlamento, in questo caso sui giornalisti e gli attivisti spiati. Giusto. Sempre che chiodo non scacci chiodo e se anche Giorgia Meloni continua a defilarsi pazienza, domani è un altro giorno e si torna a giocare con gli omini di burro e i coniglietti.
Commenta (0 Commenti)Alla corte di Netanayahu I piani dell’immobiliarista Trump e della sua banda di famigliari e amici, in apparenza deliranti e comunque di medio-lungo periodo, preludono forse nel breve a mosse più concrete, ovvero il riconoscimento Usa dell’annessione della Cisgiordania da parte di Israele
Donald Trump accoglie Benjamin Netanyahu alla Casa bianca – Alex Brandon /Ap
Banditi a Gaza. Banditi i palestinesi, che devono essere deportati, banditi, in un altro senso, coloro che lo propongono. Con Trump gli Stati uniti gettano la maschera e il neocolonialismo del presidente americano si innesta direttamente sul colonialismo sionista. Ora anche Trump vuole un pezzo di Medio Oriente con Gaza che nei suoi progetti deve diventare una sorta di Riviera per ricchi – con la deportazione dei palestinesi – ma che avrebbe già il suo bottino immediato da offrire, il gas offshore dei palestinesi che verrebbero ovviamente depredati anche di questa risorsa, come del resto sta già facendo Israele. Prima degli yacht a Gaza arriverebbero comunque le trivelle americane.
In realtà i piani dell’immobiliarista Trump e della sua banda di famigliari e amici, in apparenza deliranti e comunque di medio-lungo periodo, preludono forse nel breve a mosse più concrete, ovvero il riconoscimento Usa dell’annessione della Cisgiordania da parte di Israele e la cancellazione di ogni possibilità di uno Stato palestinese, il vero obiettivo politico di Tel Aviv ma anche di questa amministrazione americana. Trattare Gaza alla stregua di un investimento immobiliare significa che si può fare con tutta la Palestina in violazione di ogni regola del diritto internazionale. Una logica predatoria che Trump vorrebbe applicare alla Groenlandia, al Canada, a Panama.
Già nelle prossime ore si capirà anche se avrà un seguito la fase due del cessate il fuoco. Se Trump ha chiesto a Netanyahu di non aprire una nuova fase bellica, la realtà sul terreno ci dice ben altro e il premier israeliano, così come la destra radicale che lo sostiene, non ha per niente rinunciato all’obiettivo di sradicare Hamas e la sua organizzazione. Mentre in una qualche stanza di Washington e della società immobiliare Phoenix del genero di Trump Jared Kushner – del quale sono soci anche i sauditi – si costruiscono i plastici della nuova Costa Azzurra mediorientale, la guerra può riesplodere: tutto lavoro per le ruspe. Gli esseri umani e la loro storia secolare sono destinati a sparire.
Le ruspe della politica trumpiana nella Striscia di Gaza per ora sono respinte dalla maggior parte degli Stati della regione ma stanno già scavando divisioni in un Medio Oriente in pieno movimento dopo la caduta di Assad in Siria, la devastante guerra del Libano e la crisi della Mezzaluna sciita iraniana. La Turchia ha appena respinto – come l’Arabia saudita, la Giordania e l’Egitto – lo spostamento dei palestinesi dalla Striscia ma Erdogan ha i suoi piani coloniali, a spese dei curdi, nella Siria del Nord. Ognuno in Medio Oriente ha il suo pezzo di terra da rivendicare con la guerra o la pulizia etnica, religiosa o settaria.
Adesso tutti si dimostrano più o meno indignati per la proposta di Trump ma quando cominceranno ad annusare qualche manciata di miliardi le cose potrebbero sembrare meno definitive. Basti pensare al nuovo leader siriano Al Jolani a capo di un Paese smembrato e con le casse vuote che si è appena accordato con Erdogan per due nuove basi aeree turche nella zona desertica di Badiyah da usare soprattutto contro i combattenti curdi. Ognuno si vende quel che può. Potevamo aspettarci qualcosa di diverso? In fondo una proposta scandalosa come quella su Gaza, accolta con entusiasmo dagli israeliani messianici e non solo, era anche prevedibile.
Il nuovo inviato Usa in Medio Oriente Steve Witkoff è un immobiliarista e soprattutto il genero di Trump Kushner, come ci informa sul manifesto Michele Giorgio, poche ore prima della firma del cessate il fuoco aveva aumentato la sua quota nella società immobiliare Phoenix già attiva nel finanziare gli insediamenti israeliani dei coloni in Cisgiordania. Kushner è un socio dei sauditi e l’ingresso nel Patto di Abramo di Riad – che insiste per una soluzione della questione palestinese – con il conseguente riconoscimento di Israele è notoriamente una delle grandi priorità di Trump. Ma il suo neocolonialismo in Medio Oriente non è poi una novità: o forse ci siamo già dimenticati l’invasione americana dell’Iraq nel 2003 che aveva tra l’altro lo scopo di controllare le risorse petrolifere del Paese?
Con Donald Trump cade la maschera indossata in questi decenni dagli Usa per gettare fumo negli occhi sulla questione palestinese. Basti pensare ai miliardi di aiuti militari americani versati in maniera incondizionata in questo ultimo anno e mezzo a Netanyahu dall’amministrazione Biden mentre il governo di Tel Aviv respingeva ogni sua proposta di cessate il fuoco. Il complesso militare industriale israelo-americano non è una creatura di Trump ma ha decenni di storia e di investimenti alle spalle. Il 70% dei raid di ricognizione su Gaza e il Libano sono stati effettuati dall’aviazione Usa e britannica e gli F-35 forniti dagli americani sono stati decisivi quando il 26 ottobre scorso Israele ha eliminato le difese anti-aeree dell’Iran e ampiamente danneggiato la sua capacità di produzione missilistica. E ora gli iraniani – al di là delle sparate su entrambi i fronti – pensano che forse è venuto il momento di trattare sul nucleare.
Ai palestinesi resta solo la resistenza. Al cinema c’è un docu-film girato da giovani palestinesi e israeliani, No other land, che ha vinto già diversi premi. Non lascia molte speranze ma rende in modo chiaro ed evidente di chi sono le responsabilità e come potrebbe cambiare il corso della storia. Di sicuro a Trump non interessa: a lui fa comodo soltanto cancellare la storia. E a noi?
Commenta (0 Commenti)Maysoon Majidi è innocente. Il tribunale di Crotone l’ha assolta: non è una «scafista» di migranti. È un’artista e un’attivista, in fuga dall’Iran e tenuta in carcere per dieci mesi. In un Paese come il nostro, dove i veri trafficanti tornano a casa con il volo di Stato
Maysoon ed Elmasry Tutti i governi mentono, ma solo alcuni riescono a farlo così spesso e così male come il nostro
«Gli atti sono arrivati di notte. E poi erano in inglese. E poi e poi avevano una data sbagliata». Con scuse sempre meno credibili, il governo prova a giustificare la liberazione del torturatore libico Elmasry. L’informativa di Nordio e Piantedosi in parlamento arriva tardi ed è solo una tappa del patetico oscillare tra tesi opposte. Cavilli e formalità sono la specialità del ministro della giustizia, per il quale la richiesta della Corte penale internazionale di processare Elmasry non stava in piedi (non lo aveva mai detto, ma adesso Nordio ci spiega che il suo silenzio andava interpretato così). Al contrario, per il ministro dell’interno le accuse della Corte dell’Aja all’aguzzino capo di Tripoli erano tanto serie e credibili da rendere necessaria la sua immediata espulsione. Con un aereo di Stato e avvertendo per tempo i libici in modo che organizzassero l’accoglienza.
Tutti i governi mentono, ma solo alcuni riescono a farlo così spesso e così male come il nostro. È chiaro da tempo che Elmasry è stato riaccompagnato in Libia non per ragioni giuridiche né di sicurezza ma per convenienza politica. Una convenienza che trova fondamento negli accordi firmati dall’Italia con le bande libiche al potere, quelle che con indosso le divise da ufficiali fanno soldi con il traffico di esseri umani e incassano nel frattempo i finanziamenti di Roma e Bruxelles. La responsabilità di quegli accordi non è solo della destra che li tiene in piedi, è soprattutto del centrosinistra di Gentiloni-Minniti che li ha inaugurati e di Conte-Lamorgese che li ha prorogati.
Una colpa originaria che è piombo nelle ali di Pd e 5 Stelle: più di tanto non possono librarsi sulle disgrazie e le figuracce di Meloni. La vicenda dimostra una volta di più quanto inutilmente il nostro paese si sia coperto gli occhi di fronte ai campi di tortura di Tripoli. È una sciagura etica ma anche pratica. Siamo ricattabili più di prima, visto che siamo costretti a riaccompagnare velocemente a casa con tante scuse un aguzzino come Elmasry. Il quale, con buona pace dei patrioti italiani, criminalmente persegue l’interesse personale suo, non quello della nazione di Meloni.
Evidenti le bugie, evidente anche la tentazione del governo italiano di far cadere l’ultimo velo e rivendicare la complicità con i doganieri di carne umana. Porta lì l’attacco alla Corte penale internazionale, che comincia con
Leggi tutto: Amichevoli, ma solo con i torturatori - di Andrea Fabozzi
Commenta (0 Commenti)Centrosinistra Per evitare il bis del 2022 bisogna dire adesso che ci saranno candidati comuni nei collegi. Sì agli accordi sui programmi e alle "cooperazioni rafforzate", ma senza pretendere di coinvolgere tutte le opposizioni. Pronti a un cambio della legge elettorale in senso ancora più bipolare.
Sei un incallito politicista!», è l’accusa che talvolta capita di sentirsi rivolgere. Ma cosa si intende dire esattamente? In genere, «politicisti» sono coloro che attribuiscono un valore esorbitante alle manovre e alle «alchimie politiche» e sottovalutano le più nobili dimensioni della politica.
Ma dove finisce il politicismo e inizia la «strategia» (elemento essenziale nell’arte della grande politica)? Qual è il confine tra la «tattica» e il «tatticismo»? Il dibattito sul cosiddetto “lodo Franceschini” è stato esemplare in questo senso. E si possono mettere, a questo punto, alcuni punti fermi. Franceschini, ricorrendo al noto motto maoista, è stato certo efficace dal punto di vista comunicativo, ma ha creato anche alcuni equivoci.
«Marciare del tutto divisi» non sarà propriamente possibile: sia per ragioni tecniche (la legge impone lo stesso formato di alleanze in tutte le circoscrizioni: non sono possibili desistenze «a macchia di leopardo»), sia per ragioni politiche: concordare i candidati nei collegi implica comunque un accordo motivato politicamente: e certo non mancano gli argomenti! Primo fra tutti, quello che concerne un comune impegno «repubblicano» a difendere la Costituzione e una democrazia parlamentare e rappresentativa. Non mi sembra poco, di questi tempi.
Questo dibattito ha avuto un altro grande merito, sollevando pubblicamente una questione finora riservata ai conciliabili tra gli addetti ai lavori: come evitare il disastro del 2022, come «gestire» politicamente e tecnicamente i vincoli imposti da questo (orribile) sistema elettorale? E come gestire l’evidente eterogeneità politica delle forze dell’attuale opposizione? La chiave della risposta è una sola: abbandonare l’idea che accordi politici e accordi elettorali debbano avere necessariamente lo stesso perimetro.
La legge elettorale si presta: non impone l’obbligo di indicare un «capo» della coalizione o il deposito di un programma comune; e incentiva, di fatto, negli elettori, un comportamento tipico delle competizioni proporzionali. L’attenzione dell’elettore si concentra sul voto di lista, anche perché – altro elemento che conta – siamo in presenza di mega-collegi (una media di circa 400 mila abitanti alla Camera e 900 mila al Senato!), nei quali solo pochissimi elettori generalmente sono in grado di conoscere e valutare i candidati. E di tutto ciò vi è un riscontro empirico: alla Camera, in Toscana, ad esempio, nel 2022 appena il 3,6% degli elettori ha votato solo il candidato uninominale (e peraltro, in questo dato, incidono soprattutto i voti di candidati che avevano una sola lista a supporto).
La discussione successiva ha contribuito a chiarire alcuni decisivi corollari. Nulla vieta, (anzi!), che si creino alcune forme di «cooperazione rafforzata» (efficace formula introdotta da Andrea Carugati, su queste pagine): ossia, che una parte dei contraenti del patto costruiscano una piattaforma programmatica quanto più possibile condivisa. Qualcuno ha obiettato: ma perché tirar fuori ora questi discorsi, a due anni e mezzo delle elezioni? E invece no: era questo il momento giusto, proprio perché bisogna liberare il campo della (difficile) discussione programmatica dalla paralisi indotta da una indebita sovrapposizione tra accordi elettorali e accordi politici.
Quando sarà il momento – questo è il messaggio – ci sarà comunque un accordo sui collegi: chiarito questo, da qui alle elezioni dedichiamoci alla ricerca di ciò che ci unisce. Si può essere scettici o fiduciosi sull’esito di questo confronto, vedremo cosa accadrà, ma proprio per questo è stato utile aprire la discussione. Non si poteva continuare con il copione degli ultimi due anni: una sorta di tela di Penelope, con la sofferta e faticosa ricerca di qualche punto di convergenza su alcuni temi, e poi l’esplodere di un dissidio su un altro argomento, vanificando l’efficacia del messaggio unitario che si voleva lanciare.
Infine, gli effetti politici di questa discussione si stanno vedendo anche da un altro punto di vista. A destra, i conti li sanno fare e sanno benissimo che il Rosatellum può avere effetti molto diversi, a seconda di come lo si usa. E infatti pare stiano pensando ad una contromossa: insabbiatasi la grande riforma del premierato, sembra ora che vogliano rimettere mano alla legge elettorale, ipotizzando un Porcellum rivisitato (anzi, un «Porcellinum», come lo ha efficacemente ribattezzato Michele Ainis): coalizioni forzate e indicazione del «capo», con premio di maggioranza al 55%. Questo progetto non è di facile realizzazione: sono molte le questioni di ordine costituzionale che andrebbero affrontate, prima fra tutte quella della soglia minima necessaria per l’assegnazione del premio, così come indicato dalla Corte. Vedremo se e come questa contromossa prenderà corpo.
In ogni caso, l’altro campo, quelle delle non-destre, dovrà attrezzarsi ad una battaglia parlamentare, presentandosi con proposte alternative di riforma elettorale. Ma, a maggior ragione, saranno validi i ragionamenti fatti sin qui: un eventuale Porcellinum impone comunque un assetto rigidamente bipolare della competizione e quindi obbliga ad adottare una qualche strategia politica ed elettorale che riesca a tenere insieme unità e diversità. E’ bene che tutti tengano conto di questi possibili scenari: non è politicismo.
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