Striscia di sangue Non ci si stupisca: 17 mesi di genocidio in diretta sono serviti a dire che si può fare. Si può condurre una guerra contro una popolazione civile, si può tagliare il cibo e ammazzare 50mila persone, forse 70mila. L'Ue ha coperto l’offensiva israeliana e non ha mai avuto intenzione di svolgere un ruolo di difesa di un popolo aggredito
Un palestinese ferito all'ospedale al-Ahli di Gaza City – Ap/Jehad Alshrafi
E l’inferno sia, per i dannati della terra. Per chi ieri, sfigurato dal dolore, ha trovato lo stesso il modo di celebrare funerali sulla terra nuda e le macerie, in preghiera davanti a sacchi bianchi con i nomi scritti con il pennarello. Per chi l’onda d’urto delle esplosioni ha svegliato in piena notte, per chi non è svegliato più, chi è scomparso sotto altre tonnellate di cemento. Di tanti sono stati ritrovati solo dei pezzi.
Una cintura di fuoco ha tramortito per ore e ore una Gaza in ginocchio, senza più parole o illusioni, da nord a sud. Nessuna comunità risparmiata, né le tende improvvisate tra le rovine del nord né le «zone umanitarie» a sud. Senza preavviso, dicono, come se il preavviso potesse dare scampo a una popolazione sotto assedio totale.
ISRAELE ha mantenuto la promessa: l’offensiva sarebbe ripresa, Netanyahu lo aveva detto quando la tregua non era ancora entrata in vigore. Rassicurava l’ultradestra al governo e un’opinione pubblica schiacciata sulla guerra, rassicurava se stesso.
Non ci si stupisca, dunque, perché 17 mesi di genocidio in diretta sono serviti a questo, a dire che si può fare. Si può condurre una guerra contro una popolazione civile, si può tagliare cibo, acqua ed elettricità, si possono ammazzare 50mila persone, forse 70mila. Si può violare un accordo di tregua e dire che la colpa sta altrove. Si può fare. Gaza è laboratorio del possibile.
Gaza dice che ci si può narrare come presidente talmente «pacifista» da convincere l’alleato israeliano a una tregua quando ancora non si era nemmeno entrati alla Casa bianca. Dopo, è un’altra storia: promesse di pulizia etnica e carta bianca al massacro indistinto. L’amministrazione Trump ha rivendicato ieri «l’inferno» vomitato contro una popolazione terrorizzata e garantito a Israele sostegno «nei suoi prossimi passi».
Una posizione che non nasce dal nulla: Trump il sovranista è in grado di invocare pulizia etnica e sterminio («A tutta la gente di Gaza: un bellissimo futuro vi aspetta, ma non se tratterrete gli ostaggi. Se lo fate, siete MORTI», Truth Social, 6 marzo 2025), perché prima le democrazie cosiddette liberali hanno permesso un genocidio.
Gaza è laboratorio del possibile e cartina di tornasole della retorica militarista europea. Su queste pagine abbiamo criticato l’Unione per non aver mai messo in piedi un’iniziativa negoziale che ponesse fine alla guerra in Ucraina e ai massacri russi e per aver puntato solo sulla reazione militare. A Gaza un ruolo negoziale l’Ue non lo ha mai vagheggiato.
AL CONTRARIO, i paesi membri hanno coperto l’offensiva israeliana, garantendo immunità a un ricercato dalla Corte penale internazionale per crimini di guerra e contro l’umanità (Netanyahu), fornendo le armi necessarie e tagliando fondi all’agenzia Onu per i rifugiati palestinesi, l’Unrwa. Così l’Europa ha fatto la sua parte nelle stragi della popolazione civile.
Per Gaza l’Europa non ha mai avuto alcuna intenzione di svolgere un ruolo di difesa di una popolazione aggredita (o per lo meno di peacekeeping come dice di voler fare in Ucraina), abbandonando lo storico ruolo di ponte con il Mediterraneo, perché ha fatto proprio quell’assunto di diseguaglianza razziale che fino al termine delle lotte di liberazione dal colonialismo ha definito gli equilibri globali e l’applicazione della legge internazionale.
Il diritto di autodeterminazione non è universale, ma segue – ancora – la linea del colore. Tanto potente è ormai l’idea di una malata superiorità valoriale traslata sul piano razziale che anche nelle piazze che difendono un’idea confusa di Europa la Palestina non ha spazio. I palestinesi sono soli, una solitudine mortifera mai tanto devastante dal 1948.
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Quale Europa? «Oggi, più che mai, sentiamo l’urgenza di impegnarci a promuovere e difendere i valori che ci hanno uniti in questi decenni: democrazia, pace, giustizia sociale e rispetto per l’ambiente», scrivono […]
Una manifestazione per la pace a Roma foto Andrew Medichini/Ap
«Oggi, più che mai, sentiamo l’urgenza di impegnarci a promuovere e difendere i valori che ci hanno uniti in questi decenni: democrazia, pace, giustizia sociale e rispetto per l’ambiente», scrivono sindaca e sindaco di Firenze e Bologna, Sara Funaro e Matteo Lepore. Una nuova “piazza per l’Europa”, chiamata a raccolta per il 6 aprile, un giorno dopo la prima data annunciata (il 5 aprile) che si sarebbe sovrapposta con la manifestazione indetta dal Movimento cinque stelle a Roma. Ma qual è la posta in gioco? Quali sono gli obiettivi strategici? Quale il significato politico?
Stare in piazza, manifestare, protestare, sono anzitutto azioni che aumentano la “densità morale” delle società e che ne potenziano l’intensità e la complessità delle interazioni sociali. Si tratta di rituali che producono endorfine e quindi generano un senso di rassicurante piacere e soddisfazione in chi vi partecipa. Stare in piazza con altre persone è anzitutto una cosa piacevole. Del resto, anche la domenica del pedone può avere gli stessi effetti, così come assistere all’arrivo del giro d’Italia o partecipare a una qualche performance collettiva artistico-musicale.
La piazze piene chiamate a raccolta da giornali e sindaci vorrebbero essere qualcosa di diverso: nella narrazione invalsa dovrebbero avere una specifica capacità politica, richiamare un qualche modello di convivenza, tracciare una rotta de seguire, chiedere delle priorità d’azione. Non solo “mobilitazione nello spazio pubblico”, ma azione collettiva “per un obiettivo pubblico”. Per farlo, però, ci vorrebbero organizzazioni politiche capaci sia di mobilitare le piazze con parole d’ordine e scopi specifici, sia di raccogliere, organizzare, selezionare e convogliare le energie prodotte dalla mobilitazione in azioni politiche, fuori e dentro le istituzioni. Che rapporto c’è tra queste piazze e il voto dei partiti al Parlamento europeo sul Rearm Europe appena ribattezzato dalla Commissione Europea Readiness 2030? Sulla crisi produttiva del settore automobilistico? Sulla contrazione della sanità pubblica, sui salari fermi al paolo sull’ulteriore precarizzazione dell’Università e della ricerca?
La protesta collettiva, senza l’organizzazione politica, rischia di generare “bolle di partecipazione”, tanto piacevoli quanto inutili. Lo testimoniano le primavere arabe, come scrive Vincent Bevins in Se noi bruciamo (Einaudi 2024). Dal 2010 al 2020 siamo stati spettatori di un’eccezionale esplosione di proteste di massa che annunciava cambiamenti profondi verso modelli di società più equi, una politica più rappresentativa, un’economia nuova e all’altezza delle grandi sfide del mondo. Oggi, osservando retrospettivamente gli esiti di quelle “rivolte senza rivoluzioni”, non si può che constatare come nella maggior parte dei casi le cose siano andate diversamente. Le piazze di Tunisia, Egitto, Libia, Siria, Yemen, Bahrain, Algeria, Marocco e Giordania hanno agevolato cambi di regime che non hanno migliorato la situazione precedente. Anche il caso tunisino – l’unico dove c’era stata una transizione democratica relativamente riuscita – è tornato nel cono d’ombra dell’autoritarismo. Le proteste di massa apparentemente spontanee, coordinate attraverso i social media, organizzate in modo orizzontale e prive di leader formali e di meccanismi di selezione della classe politica, funzionano bene per aprire varchi, ma lasciano il vuoto. Sono “bolle di politica” mosse dalla rabbia, dall’indignazione, dalla paura e dal disorientamento che non alimentano una trasformazione più giusta delle società. Senza un raccordo organizzato tra piazze e politica, si ha solo “iperpolitica”, concetto che lo storico belga Anton Jäger (Iperpolitica. Politicizzazione senza politica, Nero edizioni, 2024) rimanda a un fenomeno in cui la politica diventa onnipresente e altamente spettacolarizzata, ma al tempo stesso svuotata di capacità trasformative reali.
La lezione più generale è che per creare effetti politici le piazze piene dovrebbero accompagnarsi a un’organizzazione mobilitante, una nuova forma della politica, che, anche partire da quelle piazze, avvii un percorso dove i gruppi dirigenti, le correnti e gli iscritti siano messi a confronto con le persone, l’associazionismo, i sindacati, le esperienze di cittadinanza attiva, gli intellettuali, le realtà di autogestione, i movimenti per i diritti, i lavoratori e le lavoratrici in sciopero o in cassa integrazione, gli esperimenti di innovazione sociale radicale nei territori. Come risultato minimo si potrebbe così arrivare a una più chiara comprensione delle differenze tra interessi, visioni e prospettive su quel significante vuoto che è l’Europa invocata da quelle piazze. Nel migliore dei casi, la speranza è che tale processo generi un nuovo oggetto politico che, anche senza un soggetto sociale omogeneo, riveli soluzioni possibili a problemi comuni.
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Conflitti globali In un’epoca che aspira a sotterrare il modello politico, sociale ed economico dell’Europa che conosciamo, i leader del continente sono alla ricerca di compromessi per rinegoziare il proprio posto nell’ordine mondiale in cui però, a meno di cedere a narrazioni militariste, non si può sostenere che oggi esista un’emergenza militare
La presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen con il vice presidente Usa JD Vance – Ap/Thomas Padilla
Keep Russia out, America in and Germany down: ecco, nella sintesi del suo primo segretario, il britannico Ismay, la missione storica della Nato. Ora che Berlino ha impegnato sul prossimo decennio mille miliardi in difesa, infrastrutture ed energia sostenibile, siamo in una fase diversa.
Si può discutere del revisionismo di Mosca sui confini, delle provocazioni «ibride», di costi e implicazioni della dissuasione, ma è un fatto che i come e i quanto dell’offensiva di Trump & co. sollevano per l’Europa il serio problema del cosa fare. Qualcuno si ostina a sostenere che si tratti solo di tattica e che la sostanza non cambierà.
Ma sia chi ritiene che basti il libretto degli assegni, sia chi si oppone a più spesa sulla difesa in realtà fa i conti con il fattore tempo: quanto ci vorrà per essere autonomi? Se la posizione Usa non può più essere data per scontata, sono in ballo le capacità proprie. Lo stesso Trump afferma che le armi fornite agli alleati saranno versioni depotenziate, giacché non si sa mai che un domani gli siano girate contro.
DALL’OPPOSIZIONE, Merz aveva negato a Scholz il balzo sulla spesa che poi ha voluto fare egli stesso. Circolano insomma nuove formule di legittimazione politica che ci parlano di un’epoca nuova nella quale, per dirla con l’ambasciatore sudafricano negli Usa (subito espulso) gli slanci di Musk verso l’estrema destra globale e i dittatori di turno non sono che «il fischio per i cani». Un’epoca che aspira a sotterrare il modello politico, sociale ed economico dell’Europa che conosciamo.
I leader europei sono alla ricerca di compromessi per rinegoziare il proprio posto nell’ordine mondiale. Per decenni gli Stati uniti hanno soppresso qualsiasi idea di autonomia strategica europea. Attraverso la guida della Nato, hanno sempre agito come il principale fornitore di sicurezza in Europa. Per conseguenza, i progressi nello sviluppo di una capacità di difesa europea sono stati molto limitati. Non potrà più essere così: la scelta tedesca avrà ampie implicazioni per la disciplina di bilancio, mentre sulla difesa prevale l’opzione buy European, con disappunto dei partner extra-Ue, Regno unito in testa.
In realtà, per quanto il ministro Crosetto li abbia sminuiti, sviluppi più o meno recenti hanno posto sul tavolo la prospettiva di una difesa comune non certo da oggi. Il processo di integrazione prese le mosse proprio dal mercato comune dell’acciaio e del carbone (Ceca), nerbo dell’industria degli armamenti, proprio per sbarrare la strada a quei riarmi nazionali che, dirottati da forze politiche nazionaliste, hanno funestato la storia europea e mondiale.
A voler essere precisi, mentre l’articolo 5 della Nato lascia aperta la possibilità di valutare la necessità del ricorso alla forza in caso di attacco, l’articolo 42.7 del trattato Ue obbliga a essere solidali con tutti i mezzi a disposizione in caso di aggressione armata.
Il piano di «riarmo europeo» si snoda fra contraddizioni che dovrebbero indurre a una riflessione aperta. Il dibattito italiano, al contrario, è animato da posizioni apodittiche e strumentali. Si è discusso, magnificandone la portata, del voto dei partiti italiani a Strasburgo la scorsa settimana: un ballon d’essai privo di valore legislativo con cui la baronessa Von der Leyen ha fatto stancare i cavalli.
LA QUESTIONE difesa europea è senz’altro un tema emergente ma è difficile, a meno di cedere a narrazioni militariste, sostenere che oggi esista un’emergenza militare, l’impellenza di una specifica minaccia in atto. L’invocazione dell’emergenza consente il ricorso alla maggioranza qualificata, che neutralizza il veto ungherese, ma a scapito del controllo del Parlamento europeo.
Da più di un anno scriviamo qui di come diverse intelligence disegnino scenari in cui la Russia mette alla prova gli eserciti europei nei prossimi 4-5 anni. Al piano ReArm Europe è stato affiancato il titolo Readiness 2030: l’emergenza giustifica flessibilità al fine di «recuperare il ritardo». Iniziando con i sistemi di difesa aerea, il livello di preparazione militare europeo è ritenuto troppo basso per un’efficiente deterrenza.
Paesi come Francia, Regno unito, Germania e Italia stenterebbero a dispiegare una singola divisione da combattimento in meno di due o tre mesi. Insomma, l’Ue pare non riesca a trovare la strada se non nel governo dell’emergenza. Von der Leyen avrebbe potuto poggiarsi sui «poteri impliciti», previsti dal trattato Ue (art. 352): con l’approvazione del Parlamento e l’unanimità del Consiglio, la Ue può dotarsi di nuovi strumenti. Ma ecco la natura politica del problema: l’Ungheria di Orbán si scontra con la Ue da anni eppure ancor oggi, mentre proibisce i gay pride, non inciampa mai in sanzioni politicamente significative.
LA REGIA ora fa capo ai Popolari europei, soprattutto il triangolo Von der Leyen-Weber-Merz, che ormai gioca a tutto campo, mentre i «campioni nazionali» dell’industria della difesa (Leonardo, Dassault, Rheinmetall) puntano al salto di qualità. Oltre alla Germania, Polonia, baltici e scandinavi hanno da tempo avviato il riarmo e propugnano dottrine di difesa totale. Anche i Paesi bassi premono, sebbene la destra al governo stia alla larga dalla difesa europea.
Idem l’Italia, distante dall’Europa federale e in sintonia con Trump e Musk, magari in vista di sconti sui dazi. L’aiuto militare di Roma agli ucraini è andato eclissandosi, accompagnando l’affondamento del piano della Commissaria Ue Kallas, costretta a ripiegare sull’idea di aiuti volontari.
È possibile per gli europei muoversi a tutto tondo e ingaggiare Cina e Onu? Le difficoltà che stiamo vivendo, invece che spronare un serio confronto su quale modello di difesa ci serve in un nuovo ordine mondiale, sono invocate da chi irride, compiaciuto, l’irrilevanza europea. Le strategie di appeasement di Washington non toccano i problemi strutturali nazionali ed europei, e sono destinare a fallire miseramente.
Commenta (0 Commenti)L’appello Da quando è presidente della Repubblica Erdogan si susseguono gli arresti di militanti, giornalisti, artisti, avvocati o semplici autori di post sui social media considerati «insulti al presidente della Repubblica» […]
Da quando è presidente della Repubblica Erdogan si susseguono gli arresti di militanti, giornalisti, artisti, avvocati o semplici autori di post sui social media considerati «insulti al presidente della Repubblica» o «apologia del terrorismo». Il 19 marzo, Ekrem Imamoglu, sindaco di Istanbul, ha pubblicato un video sui social mentre decine di poliziotti bussavano alla porta di casa sua. Domenica 23 marzo, Ekrem Imamoglu sarebbe stato nominato candidato alla presidenza al congresso del suo partito, il Chp, un partito laico e nazionalista fondato da Mustafa Kemal Atatürk.
La popolarità di Imamoglu è cominciata con la sua elezione a sindaco di Istanbul nel 2019. Erdogan la fece annullare, ma due mesi dopo Imamoglu vinse di nuovo in modo ancor più clamoroso. Imamoglu è stato rieletto a valanga ancora nel marzo 2024, sebbene condannato a due anni e sette mesi di carcere e bandito dalla vita politica nel dicembre 2022.
Condannato nell’ambito di un processo in cui era accusato di aver risposto agli insulti dell’allora ministro dell’interno definendolo «idiota». Il processo d’appello è ancora in corso. Questa volta i giudici hanno rincarato pesantemente le accuse: «dirige un’organizzazione criminale», «aiuta l’organizzazione terroristica Pkk».
Il giorno prima, l’Università di Istanbul ha annunciato che avrebbe revocato la laurea rilasciata trentacinque anni prima a Imamoglu, poiché il riconoscimento del passaggio dall’università iniziata nel Cipro del Nord a quella di Istanbul, non avrebbe rispettato le regole amministrative. La revoca precluderebbe a Imamoglu la candidatura alla presidenza, poiché la Costituzione turca richiede che tutti i candidati siano laureati. L’arresto del sindaco è stato accompagnato da altre 106 carcerazioni in città (tra cui due di sindaci distrettuali) in nome di presunte frodi negli appalti pubblici e l’assunzione presso il municipio di persone sospettate di «terrorismo» per presunti legami ideologici con i curdi del Pkk.
Facciamo appello a tutti i docenti delle università italiane e degli altri paesi perché sollecitino le loro istituzioni accademiche a conferire al sindaco di Istanbul la laurea o il dottorato honoris causa.
Gaetano Azzariti, Filippo Barbera, Tommaso Baris, Paolo Borioni, Luciano Brancaccio, Giovanni Carrosio, Laura Cassi, Maria D’Agostino, Dimitri D’Andrea, Claudio De Fiores, Juan Carlos De Martin, Maria Rosaria Ferrarese, Domenico Fruncillo, Francesca Governa, Elena Granata, Vincenzo Guarrasi, Alfio Mastropaolo, Giampietro Mazzoleni, Enrica Morlicchio, Manuela Naldini, Salvatore Palidda, Francesco Pallante, Barbara Pezzini, Michele Prospero, Franca Roncarolo, Laura Ronchetti, Andrea Roventini, Angelo Salento, Luca Scuccimarra, Giorgia Serughetti, Francesco Strazzari, Gianfranco Viesti
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Crimini di casa nostra Il punto di origine di tutta questa vicenda è il Memorandum Italia-Libia, firmato nel febbraio 2017 dall’ex premier Pd Gentiloni e dall’allora presidente del governo di Tripoli, Serraj
Marco Minniti quando era ministro degli Interni del governo Gentiloni – LaPresse
Non è un caso che da anni in Italia passino impunemente guardiacoste, carcerieri e vertici dei servizi di sicurezza libici sui quali pendono accuse o perfino mandati di cattura da parte delle istituzioni a tutela del diritto internazionale.
Al Bija, Almasri, Al Kikli e tanti altri hanno rappresentato, a vario titolo, i partner dell’altra sponda per le politiche migratorie nazionali e comunitarie che hanno l’obiettivo di ostacolare a ogni costo le traversate.
Il punto di origine di tutta questa vicenda è il Memorandum Italia-Libia, firmato nel febbraio 2017 dall’ex premier Pd Gentiloni e dall’allora presidente del governo di Tripoli, Serraj. Un formidabile punto di svolta delle forze politiche di centrosinistra, verso destra, sul tema delle migrazioni. L’accordo nasce per riorganizzare la guerra alle migrazioni dopo l’estate della “crisi dei rifugiati”, che aveva visto nel 2015 l’arrivo di centinaia di migliaia di persone in Italia e Grecia. L’agenda europea per la migrazione, pubblicata dalla Commissione nel 2016, spingeva gli Stati membri a sottoscrivere intese con i paesi di transito, nel tentativo di delegare il blocco delle persone in fuga subappaltando crimini e violazioni dei diritti fondamentali.
L’allora ministro dell’interno Minniti, oggi presidente della fondazione Med-Or, ha avuto in questo contesto un ruolo fondamentale nel promuovere l’accordo e sviluppare i rapporti con i «partner» libici.
Nello specifico, il Memorandum ha consentito all’Italia di fornire al governo di Tripoli finanziamenti, navi, tecnologie e soprattutto legittimazione politica, in cambio del blocco delle partenze e delle intercettazioni in alto mare, con il fine di ricondurre le e i migranti in Libia. Qui, come noto, sono sistematicamente costretti a lunghi periodi in centri di detenzione ufficiali e non, sottoposti a torture, estorsione e lavori forzati.
Al Memorandum è seguita nel 2018 la creazione della zona Sar libica, un’ampia area di acque internazionali in cui formalmente è la Libia ad essere responsabile per il coordinamento dei soccorsi in mare. Tuttavia, è solo grazie alle navi donate dall’Italia, al supporto logistico e comunicativo fornito dalle autorità italiane presenti a Tripoli con la nave militare Caprera e alla collaborazione con Mrcc Roma, che le autorità e le milizie libiche riescono materialmente ad intercettare le persone in fuga.
A partire dal 2018, quando una chiamata di soccorso arriva alle autorità italiane da un’imbarcazione che si trova nella Sar libica, queste – forti del rapporto che deriva anche dal Memorandum – inoltrano tutte le informazioni al «centro di coordinamento» libico e cercano di fare in modo che siano le motovedette di Tripoli (ex motovedette italiane) a recarsi sulla scena. Questo accade anche quando ci sarebbero altri mezzi in grado di prestare aiuto e garantire lo sbarco in un luogo sicuro, come le navi ong, fortemente criminalizzate proprio dal 2017.
Queste circostanze, sono oggetto ormai di diverse pronunce giurisprudenziali, come la sentenza del tribunale di Roma di agosto 2024, che, nel caso della «Asso 29», stabilisce la responsabilità delle autorità italiane per il coordinamento di un respingimento operato dai libici con il mercantile italiano.
La condizione di violenza e sfruttamento in cui vivono le persone straniere in Libia era già nota all’epoca della sottoscrizione del Memorandum: è del 2012 la famosa sentenza Cedu «Hirsi Jamaa e altri», che ha condannato l’Italia per aver riconsegnato un gruppo di naufraghi nel 2009. Questa condizione e le pratiche disumane cui le e i migranti sono sottoposti, aggravatesi dopo il 2011, erano ben documentate dalle più autorevoli organizzazioni internazionali.
L’Alto Commissariato Onu per i diritti umani (Ohchr) pubblica da anni rapporti in cui riferisce che esistono ragioni molto serie per ritenere che in Libia si verifichino veri e propri crimini contro l’umanità nei confronti dei e delle migranti, gli stessi su cui indaga la Corte penale internazionale.
In questo contesto, aver sottoscritto un accordo in cui la controparte si impegna proprio a cercare in tutti i modi di bloccare le persone in Libia dimostra che violenze, stupri, torture, omicidi non sono un effetto collaterale del Memorandum: ne rappresentano lo scopo.
Per questo le autorità italiane vanno considerate complici di queste condotte gravissime e della violazione degli impegni presi nel secondo dopoguerra sul contrasto ai crimini di guerra e contro l’umanità.
Il caso Almasri è stato solo l’ennesima dimostrazione della totale mancanza di volontà di perseguire questi crimini, consentendo anzi che la Libia continui ad essere un moderno mercato di schiavi in cui si arricchiscono le milizie finanziate dall’Europa. Sarebbe illusorio pensare che quanto continua ad accadere si fermerà dall’altro lato dal mare. Quei crimini parlano della nostra società e dello stato delle nostre democrazie.
Confermare nei prossimi mesi la validità di questo accordo significa continuare a legalizzare crimini gravissimi e far venir meno il limite, anche retorico, di quanto imposto dai principi di uguaglianza e giustizia nel nostro ordinamento.
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Israele Non si tratta solo di trauma ma di un modello profondamente radicato: la reazione dominante nel pubblico israeliano è il desiderio di ripristinare l’illusione di immunità
Una fotografia aerea di Jabaliya rasa al suolo – Ap/Mohammad Abu Samr
Questo testo, rivolto all’opinione pubblica israeliana, è stato pubblicato due settimane fa con un senso di urgenza: la guerra poteva riprendere in qualsiasi momento. È successo. Ma questa non è solo una continuazione della guerra: tutti i segnali indicano che i piani per l’espulsione di massa dei palestinesi fa Gaza non sono stati abbandonati.
I preparativi sono stati compiuti e i portavoce del governo israeliano hanno apertamente dato voce alla minaccia. È impossibile dire con certezza se l’esercito israeliano e i suoi alleati alla Casa bianca saranno davvero in grado di procedere con le espulsioni, se regimi arabi e altri paesi si arrischieranno a cooperare con un simile crimine, ma sarebbe irresponsabile ignorare un pericolo di tale proporzioni.
Per il movimento dei coloni – il più potente blocco della politica israeliana con ardenti sostenitori dentro l’esercito – ottenere anche un’espulsione parziale dei palestinesi rappresenterebbe un traguardo che cambierebbe radicalmente i termini della questione palestinese. Campagne per espellere i palestinesi, e in particolare i rifugiati e i loro discendenti, da Gaza si sono già verificate nel ’67-’68 e tra il 1971 e il ’73. Oggi, tuttavia, i palestinesi vivono una fondamentale congiuntura di condizioni locali e globali, una campagna spietata di sgombero e pieno sostegno imperiale, senza precedenti dal 1948. Sarebbe tragico se si permettesse, se la gente di tutto il mondo, sempre più stanca dei bombardamenti indiscriminati, non comprendesse l’importanza di quanto sta avvenendo.
Il nocciolo della questione è la reciprocità. C’è reciprocità positiva quando le persone si fanno favori a vicenda, e c’è reciprocità negativa quando si scambiano colpi. È un meccanismo sociale di base la cui antica regola è semplicemente: «Ciò che è odioso per te, non farlo al tuo prossimo». Non occorreva essere un grande pensatore per capire che maltrattare, affamare e torturare i prigionieri palestinesi mette a repentaglio la vita dei prigionieri israeliani. È ciò che accade anche nelle guerre “ordinarie”, quando il benessere dei prigionieri di guerra di una parte è collegato al benessere di quelli dell’altra parte. Questo è certamente il caso di una guerra che è iniziata con un crimine di guerra: la presa di ostaggi civili, dopo decenni di oppressione e abusi sui civili di Gaza.
Come è possibile che coloro che erano in grado di fare questo semplice calcolo, ovvero che il peggioramento degli abusi sui palestinesi metteva in pericolo gli ostaggi, non siano riusciti a farlo?
Forse è perché la mentalità che nega completamente il principio di reciprocità nelle relazioni sociali e politiche ha preso piede in Israele da decenni. In Israele puoi mangiare a sazietà mentre dall’altra parte della barriera i cittadini di Gaza devono arrangiarsi con le razioni di pasta assegnate loro e niente di più. In Israele c’è elettricità e acqua corrente; a Gaza, i genitori pregano di poter superare l’inverno senza elettricità e acqua potabile. In Israele viviamo in relativa sicurezza e dall’altra parte vivono nel terrore dei bombardamenti e delle incursioni notturne.
La negazione della reciprocità negativa ha dato origine alla grandiosa illusione che avremmo potuto colpire duramente l’altra parte senza pagare e che avremmo potuto infliggere immense sofferenze senza conseguenze. Occupazione di lusso, una politica di unilateralismo. Noi siamo immuni; loro sono vulnerabili.
L’illusione più pericolosa dei padroni è pensare di non dipendere dai loro servi e che i loro servi non siano esseri umani come loro. Sì, l’occupazione ci ha trasformati, proprio come ha detto Yeshayahu Leibowitz, in una nazione di padroni. La supremazia ha un prezzo. La guerra ha incrinato questo senso di immunità e predominio. Era realistico aspettarsi che, sulla scia del terribile choc, ci saremmo scrollati di dosso il suprematismo e avremmo riconosciuto la reciprocità come condizione di vita fondamentale, buona o cattiva? Non ne sono sicuro. I crimini di guerra del 7 ottobre hanno seminato la paura nei cuori delle persone e il trauma può far perdere la ragione alle persone. Ma non si tratta solo di trauma. Si tratta di un modello profondamente radicato: la reazione dominante nel pubblico israeliano è stata e rimane un immenso desiderio di rinnovare la loro vecchia padronanza e di ripristinare l’illusione di immunità.
È vero, non c’è simmetria: qualsiasi danno a una popolazione civile – bombardamenti e rapimenti, spostamenti, uccisioni e ferimenti, fame ed espulsioni – è fondamentalmente sbagliato. Ma la capacità di Israele di infliggere sofferenze – distruggere intere città, spostare centinaia di migliaia di persone, uccidere, far morire di fame ed espellere – è di gran lunga maggiore della capacità delle organizzazioni armate palestinesi e libanesi. La regola empirica in Israele è sempre stata che il prezzo che si esige deve essere incommensurabilmente più alto della sofferenza e del dolore causati dall’altra parte. Così, dopo il 7 ottobre, tra gli israeliani si è diffusa l’aspettativa di un ripristino del dominio e della supremazia attraverso una vendetta mascherata da espressione di reciprocità: «L’hanno fatto a noi, lo faremo a loro». I politici hanno fomentato il sentimento e i generali lo hanno cavalcato in battaglia e usato per giustificare raid indiscriminati. Ma il contrattacco, come è divenuto presto chiaro, non è stato solo un altro spargimento di sangue, ma qualcosa di completamente diverso: una guerra progettata per eliminare l’avversario, per rompere il cerchio della reciprocità, per quanto terribile, verso un nuovo orizzonte: espulsione e distruzione.
Questa guerra distruttiva è guidata da un terribile mix di logica di vendetta reciproca e di immaginazione di poter somministrare «il colpo finale» che porrà fine a ogni reciprocità. Questa è la visione: fumo che si alza da edifici distrutti e città in rovina e silenzio da un orizzonte all’altro. Il silenzio di un cimitero. In effetti, «un popolo che vive da solo». Ecco perché non c’è fine a questa guerra. Non c’è via di fuga dalla reciprocità, nemmeno tra parti diseguali. Chiunque cerchi di sfuggirvi rischia di lacerare il tessuto della vita umana. E come se non bastasse, una guerra alimentata da questa miscela esplosiva promuove a posizioni di leadership coloro che credono veramente che sia possibile spezzare i legami dell’umanità: i messianici e i pazzi, i seguaci dell’antico comandamento «distruggere, uccidere e annientare». Ma i palestinesi non scompariranno. Non qui, non a Gaza, non in Cisgiordania, non in esilio. E nemmeno il Medio Oriente scomparirà.
La negazione della reciprocità ci sta preparando al prossimo disastro, al prossimo atto di vendetta e a un altro passo attorno al cerchio della morte, perché tutte le nostre vite sono dipendenti e interconnesse. Chiunque dica «non ci sono innocenti a Gaza» deve capire che le sue parole giustificano chi dice «non ci sono innocenti in Israele». E io insisto che ci sono. Chiunque abbia detto che non ci sono civili non coinvolti a Gaza è invitato a riflettere sul fatto che adottare il principio che non ci sono innocenti possa avere conseguenze terribili per il benessere della gente comune.
E chiunque dica che i crimini dei palestinesi giustifichino qualsiasi misura dimentica (o forse non conosce) i crimini commessi da Israele su richiesta di governi eletti in elezioni relativamente libere.
Niente può eliminare la reciprocità. Se non stabiliamo una reciprocità positiva, ci troveremo intrappolati in un sanguinoso ciclo di reciprocità negativa. Gli occupati e gli espropriati potrebbero non essere in grado di resistere alla forza superiore di un esercito, che sta già aspettando le nuove bombe apocalittiche per sostituire quelle già testate su Gaza. Potremmo ricordare, tuttavia, cosa hanno detto gli esperti all’inizio di questa guerra: una parte significativa delle munizioni di Hamas era fatta da resti di munizioni israeliane, da bombe che erano state sganciate su Gaza e non erano riuscite a esplodere.
Ancora più importante, una guerra di sterminio semina un odio mortale. Noi, cittadini dello stato dei padroni, non ne siamo stati immuni e non lo saremo neanche in futuro. Restiamo fragili, umani. Ognuno di noi è tenuto a pagarne il prezzo, specialmente gli indifesi, i deboli e i poveri. «Perché hanno seminato vento raccoglieranno tempesta».
*Traduzione di Pier Paolo Bastia
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