Accedi Registrati

Login to your account

Username *
Password *
Remember Me

Create an account

Fields marked with an asterisk (*) are required.
Name *
Username *
Password *
Verify password *
Email *
Verify email *

SFRATTO ATLANTICO L’ipotetico raddoppiamento della spesa militare richiesto dall’amministrazione Trump non prevede una maggiore autonomia, ma l’esatto contrario

Europa, armarsi di più per decidere di meno

 

A partire dal Dopoguerra, Europa occidentale e Giappone hanno goduto per decenni di un grado invidiabile di sicurezza e di pace, pur devolvendo una cifra irrisoria alle spese militari. A proteggerli era il potere di deterrenza della macchina militare americana.

Che all’epoca imponeva agli alleati un notevole costo politico ma un prezzo economico molto contenuto. Il costo politico era misurato dal cosiddetto fattore K: l’impossibilità tassativa che un partito o movimento d’ispirazione comunista si avvicinasse ai centri del potere, fosse anche attraverso libere elezioni. In compenso, alle imprese e ai capitali era permesso muoversi con ampia autonomia nei mercati globali, al punto che i maggiori rivali degli Stati uniti si ritrovarono ad essere Germania e Giappone, smilitarizzati dopo la guerra e perciò liberi dall’onere di spese militari inutilmente gravose.

La liberalità della superpotenza nasceva dall’intento di estendere la propria egemonia a livello planetario, legandola all’apertura dei mercati e all’esportazione della democrazia liberale: un progetto di «nuovo ordine globale» oggi archiviato, cui si va sostituendo l’idea di un mondo diviso in grandi spazi continentali, ciascuno consegnato a una singola potenza dominante.

Nei piani americani, il rapporto con l’Europa dovrebbe evolversi in consonanza con questo cambio di paradigma. L’egemonia benevola dovrebbe lasciare il posto a un vassallaggio esplicito, che preveda un costo salato per la protezione militare e una subordinazione sistematica ai colossi finanziari e tecnologici statunitensi. Non è un ordine, almeno per ora, ma una proposta a cui l’Europa può dire di sì o di no. Data però l’enormità della posta in palio, è bene avere le idee chiare sulle condizioni e sui rischi impliciti nell’una o l’altra scelta.

Va osservato, in primo luogo, che l’aumento delle spese militari è compatibile di fatto con entrambe le opzioni. Cambiano però le dimensioni e il senso dell’eventuale aggravio di spesa. L’ipotetico raddoppiamento della spesa militare richiesto dall’amministrazione Trump non prevede una maggiore autonomia dei paesi europei, ma l’esatto contrario. Si pagherebbe per ratificare la propria dipendenza, impegnandosi ad assecondare ogni futura decisione della potenza dominante non solo in campo militare ma anche energetico e tariffario. Costrette a ridimensionare l’export o persino a spostare gli impianti negli Stati uniti per tamponare la deindustrializzazione americana (esasperando così quella di casa nostra), le imprese europee non avrebbero altra via per salvare i profitti che comprimere i salari e accentuare la corsa alla privatizzazione delle risorse. Una ricetta autoritaria per la quale l’amministrazione Trump ha già riconosciuto nelle nuove destre radicali il candidato ideale.

L’opzione alternativa è riorganizzare e potenziare la difesa per acquisire un’effettiva autonomia strategica. Si tratterebbe, per citare Mario Draghi, di imparare ad agire «come un unico Stato», coordinando le spese militari e affidandole a un titolo di debito comune, per acquisire un peso adeguato nell’alleanza atlantica e ottenere così una libertà di scelta paragonabile almeno a quella di potenze intermedie come l’India o la Turchia.

Va ricordato che, già quest’anno, la spesa militare complessiva dei paesi europei ha largamente superato i trecento miliardi: quanto la Cina, quindi, e circa il doppio della Russia. Se non fosse diluito fra trenta eserciti distinti e separati, un simile impegno di spesa potrebbe già bastare a garantire una deterrenza difensiva. Non è insomma l’eventuale aumento il vero scoglio, ma l’assenza di coordinazione, il che porta a galla le debolezze strutturali dell’Unione. In questioni di guerra e di pace, è difficile agire «come un unico Stato» senza disporre di un’autorità politica legittima, procedure di decisione efficaci e trasparenti, una visione condivisa dell’interesse comune. Ed è improbabile che decolli un debito comune senza una regolamentazione ragionevole dei rapporti fra creditori e debitori e un’armonizzazione dei diversi sistemi fiscali.

Per aspirare a un’autonomia strategica, insomma, l’Europa dovrebbe mettere mano alle riforme strutturali in senso federalista che da decenni le maggiori forze politiche dicono di volere ma che, di fatto, non hanno mai avviato. E dovrebbe farlo in tempi stretti, in condizioni di emergenza e con l’aperta ostilità dell’alleato atlantico.

Ciò che più sconcerta è l’ostinata convinzione che un passo tanto arrischiato possa marciare a colpi di austerità, lacrime e sangue, rinunciando a priori a ogni coinvolgimento della società civile e regalando la protesta popolare a quei sovranismi nazionalisti che di un tale programma sono i diretti avversari. Tutto suonerebbe più credibile se l’appello all’orgoglio europeo si legasse a una lotta alle disuguaglianze, all’immunità fiscale dei grandi patrimoni e allo strapotere degli oligopoli finanziari. Se una risposta unitaria all’emergenza abitativa restituisse vitalità ai centri storici delle città europee, anziché farne dei parchi di divertimento per turisti. Se l’esercito di giovani ricercatori iperqualificati, di cui l’Europa dispone, fosse mobilitato per una rivoluzione creativa, anziché languire nel precariato perenne. Per tutto questo occorrerebbe però qualcosa di cui l’Europa al momento è sprovvista: una classe dirigente, e non un semplice apparato di comando. In sua assenza, non resterà altra opzione che la sottomissione supina all’amministrazione americana di turno, quali che ne siano le condizioni.

Commenta (0 Commenti)

Il volto della guerra Bare sul palco di Hamas e sacchi blu nelle fosse israeliane. Il dominio sulla vita e sulla morte - cosa e quando mangiare, dove e come vivere, in quali condizioni essere seppelliti - nell’occupazione e nella guerra tocca apici di disumanità che chi vive in pace non comprende. Va spezzato il circolo di disumanizzazione e colonialismo

A Gaza sedici mesi di orrori della necropolitica Palestinesi pregano prima della sepoltura dei caduti all'ospedale al Shifa di Gaza – Ap

Bare nere sul palco, uomini armati, una caricatura di Netanyahu vampiro. Hamas, in un macabro show, consegna i corpi di quattro ostaggi israeliani. Usa di nuovo un palcoscenico per parlare a Israele: siamo ancora qui, Netanyahu ha massacrato due popoli invano.

Importa poco: Hamas ha le uniformi stirate ma è debole, senza alleati, scaduta a guerriglia.

RESTA la spettacolarizzazione della morte e l’esposizione dei corpi. Va fatto uno sforzo per non cadere nella trappola tesa alla sensibilità occidentale da 16 mesi e 77 anni, ovvero che non c’è altro modo di leggere la società palestinese se non con il paradigma del selvaggio. Gli occhi di chi vive in pace e dignità non sanno cos’è la guerra, la riduzione del nemico a carne da macello, senz’anima né diritti. L’altro va disumanizzato per poterlo ammazzare.

Non è solo che ti rapiscono in casa o la casa te la abbattono con le bombe, con tutta la famiglia dentro. La guerra è la fame che costringe a mangiare cibo per animali, sono le esecuzioni sul posto, i soldati israeliani che nelle scuole-rifugio dividono uomini e donne e sparano in testa a chi non deve vivere. La guerra è il vilipendio dei corpi, lasciati a marcire per strada, sbranati dai cani.

È la riconsegna da parte di Tel Aviv dei cadaveri palestinesi senza nome, esumati dalle fosse comuni, stipati nei sacchi blu, mescolati, impossibili da riconoscere. È la «procedura mosquito», palestinesi usati come scudi umani tra le rovine delle case per cercare ordigni. A “lavoro” finito, sono giustiziati con un colpo alla schiena, come scrivono i giornali israeliani.

È il manuale della necropolitica, il potere – di Israele, di Hamas – che decide dei vivi e dei morti. È successo, succede ancora. Accade non solo a Gaza, perché la guerra è disgustosa. Ma va guardata con gli occhi di chi vive dentro lo sterminio per non fermarsi a uno sdegno lungo un’ora e a una disumanizzazione lunga per sempre.

IL DOMINIO sulla vita e sulla morte – cosa e quando mangiare, dove e come vivere, in quali condizioni di integrità e dignità essere seppelliti – nell’occupazione e nella guerra tocca apici di disumanità che chi ha il privilegio di scegliere (o pensa di poterlo fare) non comprende e scaccia con categorie semplici e inutili (il selvaggio), quando si dovrebbe spezzare il circolo di umiliazione e necropolitica coloniale.

Si può fare, con la politica e la giustizia. Con un processo che porti i due popoli sullo stesso piano, quindi in grado di riconoscersi prima come umani e poi come vicini. E riconoscendo le responsabilità dell’Occidente che a Israele garantisce armi e impunità. La via per l’imbarbarimento, la copertura morale al genocidio.

Commenta (0 Commenti)

Fdi Si tratta di una vicenda prima che giudiziaria, tutta politica e di singolare gravità: un esponente del governo ha approfittato della sua posizione di potere per tendere una trappola agli avversari politici

Le confidenze degli amici geniali

 

Dagli alla sinistra e ai suoi torbidi traffici. E dagli alle toghe rosse. Si torna lì, al punto di partenza, a quando, gennaio 2023, Fratello Giovanni Donzelli si sgolava nell’aula di Montecitorio: «Questa sinistra sta con lo Stato o con i terroristi e con la mafia?».

Due anni dopo un altro Fratello, secondo Donzelli «una delle persone più intelligenti che esistono», quello che si vestiva da nazista e ora presiede il gruppo di Fdi alla Camera, insiste: «Perché i deputati del Pd sono andati a trovare i mafiosi? Cosa dovevano dire loro?».
A un’intelligenza così sopraffina non può sfuggire che visitare i detenuti rientra tra i compiti dei parlamentari. Forse il genio in questione, al secolo Galeazzo Bignami, sta cercando di spostare l’attenzione dall’altro amico geniale della truppa, il sottosegretario alla giustizia Delmastro, al Pd?

Perché la notizia è che il sottosegretario, meloniano tutto d’un pezzo, quello che ai detenuti vorrebbe togliere il respiro e agli occupanti di case prenderli «per la pelle del culo», è stato condannato a otto mesi di carcere per aver spifferato a Fratel Donzelli, che poi le usò come arma impropria contro le opposizione, conversazioni avvenute tra l’anarchico Cospito e alcuni mafiosi detenuti al 41 bis (qui il genio tocca il suo apice: per difendere il carcere duro dal lassismo del Pd il sottosegretario tutto d’un pezzo rivelò conversazioni che in base al 41 bis dovevano restare murate).

Sentenza di primo grado, figurarsi, «il garantismo è un principio fondamentale, che vale sempre e per chiunque», se la cava il moderato Maurizio Lupi. Peccato che malgrado lo «sconcerto» della premier per la condanna del suo pupillo il garantismo in questo caso non c’entri niente. A prescindere dal processo, dalla condanna in primo o secondo grado, dal numero di mesi comminati a Delmastro, si tratta di una vicenda prima che giudiziaria, tutta politica e di singolare gravità: un esponente del governo ha approfittato della sua posizione di potere per tendere una trappola agli avversari politici.

La destra paranoica sempre pronta a denunciare complotti immaginari ha messo in chiaro da allora e una volta per tutte – come confermavano ieri le dichiarazioni fotocopia di Fdi – qual è il suo stile di comando. Colpi sotto la cintura, regole calpestate, tentativo di ridimensionare se non assoggettare e delegittimare gli altri poteri dello stato quando considerati un intralcio al proprio. A Delmastro non auguriamo certo il carcere: rischierebbe di avere a che fare con uno come lui. O di ricevere una visita dai parlamentari dell’opposizione.

Commenta (0 Commenti)

Vaticano Involontariamente, è Giorgia Meloni, in visita dal Papa al Gemelli, a smentire le vulgate più estremiste sulla salute di Bergoglio. La premier dice di aver trovato Francesco «vigile e reattivo. […]

Vaticano Vaticano

Involontariamente, è Giorgia Meloni, in visita dal Papa al Gemelli, a smentire le vulgate più estremiste sulla salute di Bergoglio. La premier dice di aver trovato Francesco «vigile e reattivo. Abbiamo scherzato come sempre. Non ha perso il suo proverbiale senso dell’umorismo».

A conferma del fatto che, seppure complesse, le condizioni fisiche di Bergoglio restano al momento stazionarie con un «lieve miglioramento», come ha comunicato ieri il Vaticano. Certo, il futuro è un’incognita, avendo il Papa 88 anni compiuti, ma nello stesso tempo le parole di Meloni spingono a pensare che la possibilità che si ristabilisca c’è e non è campata per aria.

Da tempo, tuttavia, si rincorrono voci sulla possibilità di dimissioni che aprano la strada a un nuovo conclave. Nelle scorse ore, addirittura, il rientro a Roma del cardinale Pietro Parolin dal Burkina Faso, è stato letto dai settori più anti bergogliani come un segnale di aggravamento della salute di Bergoglio, tralasciando tuttavia che l’agenda del segretario di Stato era già stata decisa da cinque mesi. E fra l’altro, ignorando il fatto che, in caso di sede vacante, non è il segretario di Stato a dover gestire l’eventuale post pontificato, ma rispettivamente il camerlengo e il decano del collegio cardinalizio, Kevin Joseph Farrell e Giovanni Battista Re.

Voci che coprono altre voci. Da giorni le diverse fazioni presenti nella Chiesa provano a tirare acqua al proprio mulino. Da una parte ci sono quelli che descrivono lo stato di salute di Francesco come ormai irreversibilmente compromesso per spingerlo alle dimissioni, forti del fatto che fu lo stesso Pontefice a dichiarare che si sarebbe fatto da parte se non fosse stato più in grado di svolgere pienamente le proprie mansioni.

Dall’altra, c’è chi minimizza e parla al massimo della necessità di una riduzione degli impegni nel caso di un ritorno a Santa Marta, senza però comprendere che Francesco decide da solo e che, insieme, difficilmente accetterebbe un ridimensionamento nelle proprie funzioni. Certo, nei prossimi mesi, se riprenderà in mano l’attività pubblica ordinaria, non è escluso che venga rimodulato il calendario delle presenze papali agli eventi giubilari in modo da impedire ricadute a quel punto assai pericolose.

Ma la rimodulazione sarebbe solo temporanea e non sarebbe in alcun modo un ridimensionamento.

L’antagonismo a Bergoglio ha radici lontane e non è una novità. Dall’inizio del pontificato c’è chi pensa al dopo, senza così fermarsi a cogliere e a comprendere la spinta di novità del suo magistero. All’inizio un’importante opposizione fu alimentata da una parte dell’episcopato nordamericano, vicino a un mondo repubblicano statunitense spaventato dall’imprevedibilità e dalla non controllabilità del primo Papa venuto dal Sudamerica, dalla sua visione sull’ambiente, le migrazioni, gli armamenti, e dalle sue aperture a Est, alla Cina soprattutto. Settori romani minoritari, ma combattivi, hanno cavalcato quest’onda antagonista, nel tempo tuttavia perdendo terreno.

L’arrivo a Roma di Victor Manuel Fernandez come prefetto dell’ex Sant’Uffizio, quello stesso Fernandez contro il quale durante il pontificato di Ratzinger erano stati costruiti dossier per bloccarne l’ascesa, ha sancito definitivamente e fragorosamente la vittoria di un’altra linea teologica: dai princìpi non negoziabili di ratzingeriana memoria alla «Chiesa per tutti», che accoglie senza chiedere patenti d’identità, di Francesco.

Che a primeggiare, oggi, sia questa visione lo dimostra anche quanto avvenuto recentemente negli Stati uniti. Dopo anni di ammiccamenti al mondo repubblicano, l’episcopato del Paese si è espresso pubblicamente contro le politiche migratorie di Trump facendo sentire nei palazzi che contano l’eco di una sola voce.

Francesco è stato comunque capace di aggregare un certo consenso anche nel mondo sulla carta a lui più ostile. Ricevendo a Santa Marta anche in forma privata diversi capi di Stato di destra, fra cui Meloni, e dicendo a tutti di lavorare al di là delle rispettive appartenenze politiche – «Quello è di sinistra, tu sei di destra, ma siete giovani ambedue, parlate», ha detto recentemente – si è smarcato dalle diverse fazioni che tendono a usarlo per i propri interessi. Gli intramontabili bergogliani e antibergogliani.

Giornalista della Radiotelevisione della Svizzera italiana, ha iniziato al Riformista, poi al Foglio, quindi inviato a Repubblica

 

Commenta (0 Commenti)

Guerre globalZelensky, platealmente insultato da Trump, è agli sgoccioli e quasi non c’eravamo accorti che l’Arabia saudita è già entrata, non ufficialmente, nel Patto di Abramo, il formato degli stati arabi […]

Matrioske russe raffigurante Putin e Trump foto Ap Matrioske russe raffigurante Putin e Trump – foto Ap

Zelensky, platealmente insultato da Trump, è agli sgoccioli e quasi non c’eravamo accorti che l’Arabia saudita è già entrata, non ufficialmente, nel Patto di Abramo, il formato degli stati arabi amici di Israele che si allarga sempre di più nei suoi obiettivi. Un segnale chiaro è l’ospitalità data dal principe Mohammed bin Salman al vertice tra Lavrov e Rubio.

Come è noto Riad è il paese guida dell’Opec, non ha mai messo sanzioni a Mosca ma è anche e soprattutto il faro del mondo musulmano e sunnita perché controlla i pellegrinaggi della Mecca.

Non ha particolarmente a cuore, come Trump del resto, il destino dell’Ucraina e neppure quello di Gaza. Se ora in Europa ci si straccia le vesti per Kiev, non lo si fa e non lo si farà per il futuro dei palestinesi.

La nuova diplomazia americana prevede premi per coloro che seguono i consigli di Washington e punizioni solide per quelli che si oppongono. E sul Patto di Abramo Trump non ammette defezioni, perché lo ha promosso lui nella sua prima presidenza e perché contempla di fare di Israele l’unica superpotenza che controlla la regione, eliminando o riducendo al minimo l’influenza dell’Iran.

Per Zelensky si è capito che ci sono solo punizioni se non accetta la pace con Putin, che nella visione di Trump deve servire come antemurale della Cina, e deve anche essere staccato dai suoi legami con Teheran che ha finora sostenuto lo sforzo bellico di Mosca. Questo aspetto per Trump forse è più importante del destino territoriale dell’Ucraina e si lega anche al suo piano per svuotare Gaza dai palestinesi. Kiev e la Striscia sono fastidiosi orpelli sulla carta geografica per la nuova amministrazione americana: assorbono energie da convogliare sul fronte cinese. Ecco perché Riad è il luogo ideale del vertice russo-americano: per l’Arabia saudita e le monarchie del Golfo la Repubblica islamica iraniana, ossessione del piano di sicurezza di Netanyahu, costituisce un nemico storico. Si regolano conti antichi ma anche recenti: nel 1980 quando Saddam Hussein attaccò l’Iran le monarchie del Golfo finanziarono l’Iraq con 50 miliardi di dollari – in termini attuali più di quanto sia arrivato in tre anni a Kiev – ma senza alcun risultato, anzi nel 1990 Baghdad invase il Kuwait. E nel 2003 la caduta del sunnita Saddam a opera degli Stati uniti venne percepita dai paesi del Golfo come una sconfitta che lasciava mano libera a Teheran e ai suoi alleati. In anni più vicini l’Iran appoggiando gli Houthi ha inferto una solenne sconfitta proprio ai sauditi sulle porte di casa. E Riad non dimentica gli attacchi filo-iraniani contro i suoi impianti petroliferi ai quali allora gli Usa risposero con un’alzata di spalle.

Ma con Trump tutto è cambiato. Lo si è capito molto bene quando Marco Rubio, prima di arrivare in Arabia saudita, ha fatto tappa in Israele. Che cosa può spingere i sauditi e il mondo arabo ad accettare l’inverosimile piano di Trump per Gaza che a parole respingono? Rubio si è presentato dal premier Netanyahu portandosi come regalo l’argomento più sensibile per il governo ebraico: bombe. Le MK-84 recentemente autorizzate dall’amministrazione Trump. Sono ordigni a caduta libera, entrati in servizio nella loro prima versione nella guerra del Vietnam. Alla MK-84 viene dato il soprannome Hammer, in inglese martello: un modo per sottolineare la sua grande capacità distruttiva.

A chi sono destinate? Certamente ad Hamas, che come hanno chiarito prima Trump e poi Rubio, in piena sintonia con Netanyahu, «deve essere eliminato», cosa che in fondo fa piacere a molti stati arabi. Ma soprattutto sono il preludio a una seconda fase nella guerra contro l’Iran: l’eliminazione o la neutralizzazione dell’apparato bellico della Repubblica islamica – nucleare compreso – sono il vero obiettivo strategico del complesso militare-industriale israelo-americano. E Riad e il Golfo, chiamati a pagare più o meno tutti i piani di Trump, possono dire di no? Un nuovo conflitto tra Iran e Israele è possibile, se non probabile: lo dicono gli americani, gli israeliani ma anche Teheran. Basta leggere le ultime dichiarazioni delle parti in causa. L’ammiraglio britannico Tony Radkin, in un discorso al Royal United Service Institute di Londra, ha affermato che Israele nei bombardamenti del 26 ottobre ha distrutto la quasi totalità delle difese aeree iraniane e la sua capacità di costruire missili balistici per almeno un anno. Gli F-35 israeliani hanno lanciato missili volando a una distanza di almeno 120 chilometri dai bersagli, fuori da ogni possibilità di intercettazione. Gli iraniani non li hanno visti neppure arrivare sui radar. «Il vantaggio militare e di intelligence israeliano – ha concluso Radkin – è fuori dalla portata di ogni avversario regionale».

E se ne sono accorti anche russi e cinesi perché questa guerra in Medio Oriente diretta all’Iran e ai suoi alleati va molto oltre i confini dell’area.

Il piano per Gaza e le eventuali concessioni territoriali a Putin sull’Ucraina hanno come corollario fondamentale, nelle intenzioni di Trump e Netanyahu, il riconoscimento americano dell’annessione della Cisgiordania. Perché fermarsi a Gaza? Il messaggio per i palestinesi è chiaro: non c’è possibilità di compromesso con Israele e il suo alleato americano, almeno nella sua forma attuale, perché sono determinati a eliminare il popolo palestinese. Con la complicità ipocrita e nascosta degli arabi e, naturalmente, anche della nostra.

 

Commenta (0 Commenti)

Tre anni dopo Ora che Volodymir Zelensky sta entrando nella lunga lista degli amici consumati e abbandonati dagli Stati uniti, è già pronta una nuova trappola logica per chi denuncia il vuoto di […]

L’Europa nella trappola americana – Ap

Ora che Volodymir Zelensky sta entrando nella lunga lista degli amici consumati e abbandonati dagli Stati uniti, è già pronta una nuova trappola logica per chi denuncia il vuoto di politica e diplomazia che ha consentito tre anni di carneficina in Ucraina.

Se fin qui sarebbe stato un tradimento convincere il governo ucraino a negoziare per fermare la guerra – e fu dunque eroico far saltare ogni ipotesi di accordo già un mese dopo la brutale invasione russa, a condizioni migliori di quelle di oggi – adesso la pace di Trump andrebbe boicottata perché «pace imperiale».

Che sia tale non ci sono dubbi, ma non per questo è democratica la guerra portata avanti innanzitutto sulla pelle dei civili e dei soldati ucraini, oltre che di quelli russi. E non è irrilevante che, per quanto nobilissima e ardente possa essere stata la resistenza ucraina, ormai si calcolino 900mila tra renitenti alla leva e disertori: più di quanti stanno combattendo.

Scappare dalle trincee, come scappano anche i russi, persino fuggire da un paese che ha già perduto il 20% della sua popolazione sono scelte che meritano rispetto, quasi sempre obbligate. La guerra non è stata un episodio di autodeterminazione e non è dunque meno imperiale della pace che (non ancora e troppo tardi) si annuncia.

Il destino al quale Zelensky sembra irrimediabilmente avviato non fa che svelare l’inganno. Anche lui è una vittima della guerra per procura, subito dimenticati i tempi in cui viaggiava in trenta diversi paesi del mondo e appariva un po’ ovunque, da Cernobbio al festival di Cannes. Cinque mesi fa firmava le munizioni nelle fabbriche degli americani che adesso nemmeno lo ascoltano, mentre prova a chiedere un posto al tavolo dove si decide sulla sua testa. Tavolo dove la trattativa tra Usa e Russia non la conducono due funzionari o diplomatici, ma non a caso due uomini di affari come Witkoff e Dmitriev.

La guerra nel cuore dell’Europa è stata un affare per gli Stati uniti. Il fatto che la responsabilità dell’invasione sia tutta di Putin non cancella questo dato di realtà, casomai spiega perché dall’allargamento della Nato a Maidan e al non rispetto degli accordi di Minsk nulla è stato fatto per impedirglielo.

Tre anni di guerra oltre a devastare l’Ucraina hanno mortificato probabilmente per un lunga fase storica il ruolo politico dell’Europa. Che raccoglie quello che ha seminato, tenendosi sistematicamente lontana da ogni tentativo negoziale. Che la soluzione di un conflitto interamente sussidiato e armato dall’esterno dovesse essere lasciata nelle esclusive mani degli ucraini – ai quali si poteva tutt’al più consigliare di insistere (fino a sconfiggere la Russia?) – era un racconto tanto falso da crollare in poche ore. Adesso neanche della loro pace gli ucraini possono parlare.

E così il fatto che le intenzioni di Trump siano pessime non rende ottima la condotta tenuta da Biden in questi tre anni, né meno folle la scelta di Bruxelles, Roma o Berlino di seguirlo mentre le accompagnava verso il baratro.

Oggi gli europei pagano il gas in media cinque volte più degli Stati uniti (agli italiani va anche peggio) e comprano il doppio del gas americano rispetto a prima del conflitto.

Dovranno armarsi ancora di più, molto di più. E dovranno farlo sacrificando il welfare e comprando armi americane. Ma non è certo sostenendo la prosecuzione di una guerra che chiaramente poteva concludersi solo con un negoziato che ne usciranno. Perché è stata proprio l’ostinazione bellicista a condurre Macron, Meloni, Scholz e gli altri fin qui. In trappola.

 

Commenta (0 Commenti)