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Senza freni I Grünen si sono giocati, prima di inabissarsi in un incerto futuro, l’ultima carta politica di cui ancora disponevano nel vecchio Bundestag: la chiave per raggiungere la maggioranza dei due […]

La follia di riarmare  Berlino con l’Afd  al 21 per cento

 

I Grünen si sono giocati, prima di inabissarsi in un incerto futuro, l’ultima carta politica di cui ancora disponevano nel vecchio Bundestag: la chiave per raggiungere la maggioranza dei due terzi e aprire così la cintura di castità costituzionale di cui la Germania si era dotata in epoca Merkel contro ogni lussuriosa tentazione di incrementare il debito pubblico. Lasciando in questo modo deperire disastrosamente le infrastrutture del paese e creando tutte le condizioni per il ristagno e la recessione, puntualmente intervenuta non appena i fattori più vantaggiosi dell’assetto internazionale sono venuti a mancare. A tutto guadagno dell’estrema destra dell’Afd.

Con la solita scusa del bene delle future generazioni, cui in realtà si stava preparando un mondo climaticamente insostenibile, socialmente deperito e ora anche “pronto alla guerra”, la Schuldenbremse, il “freno al debito”, metteva in realtà al sicuro il presente della rendita finanziaria, gli interessi immediati così come gli eterni principi morali dei risparmiatori tedeschi. Gli stessi a cui ora la Ue chiede di far circolare i loro gruzzoli tesaurizzati e protetti dalla Bundesbank nel mercato dei capitali produttivi, (di armamenti in primo luogo).

È quanto si propone il piano biennale messo a punto dalla Commissione e denominato «Unione dei risparmi e degli investimenti».

Termina così, con una sfrontata e arbitraria inversione di rotta, l’austera ristrettezza lungamente imposta dalla Germania e altri paesi frugali del nord, (oggi affetti da bulimia militare), all’intera Europa. Il modello tedesco arrancava già da un po’ insidiato da diversi fattori di crisi e da crescenti tensioni sociali, ma senza il riarmo dettato dall’incombenza di una presunta minaccia non sarebbe stato possibile disinnescare il micidiale “freno al debito”, la cui ottusa difesa da parte dei liberali aveva condotto alla paralisi, alla caduta del governo Scholz e infine alle elezioni anticipate. L’economia di guerra, fin dalle sue premesse e dalle fasi preparatorie, condivide con la dimensione finanziaria una condizione di “necessità” che la mette al riparo dalle interferenze democratiche, collocandola in una sfera decisionista che sovrasta i cittadini e non poche regole della normalità istituzionale. Si tratta, se vogliamo, di due forme diverse ma imparentate di virtuoso sacrificio.

Nondimeno Ursula von der Leyen si è sentita in obbligo di cimentarsi in quella trita retorica secondo la quale non vi è libertà senza sicurezza né sicurezza senza forza. Narrazione ripetutamente smentita dalle innumerevoli restrizioni della democrazia e delle libertà politiche e individuali imposte in nome della sicurezza o, ancor di più, dell’emergenza.

Il compito prioritario della Ue sarebbe, secondo la presidente tedesca della Commissione, prepararsi alla guerra attraverso la costruzione di una forza che, si spera, la scongiuri grazie a un effetto di deterrenza. Sembrerebbe un pensiero di lungo respiro, ma è invece tutto calibrato sulla contingenza della politica americana e della guerra di Putin contro l’Ucraina, dunque su un quadro assai meno stabile e controllabile di quello della guerra fredda. Nel quale nessun governo europeo, a partire dal protagonismo bellicista di Londra e Parigi, dà sufficienti garanzie di prudenza. Alla Russia si imputa, senza in alcun modo argomentarlo razionalmente, un disegno espansionistico in Europa occidentale.

Ma semmai Mosca intendesse incrementare la sua influenza in Europa potrebbe farlo, non diversamente da Trump e Musk, attraverso le forze nazionaliste che crescono nel Vecchio continente, nonché tramite i diversi strumenti di interferenza e manipolazione di cui dispone e che nessun arsenale saprebbe contrastare. A condurre la guerra, quella effettivamente in corso contro l’Unione europea, oltre al grifagno nazionalismo imperiale di Trump, sono le destre estreme che dall’Europa si aspettano soprattutto una cornice di garanzia e di difesa delle prerogative nazionali, nonché la riaffermazione ideologica della superiorità culturale eurocentrica, concretamente tradotta in respingimenti ed espulsioni. Forze politiche sempre pronte a sospendere ad ogni minima occasione la libera circolazione stabilita dal trattato di Schengen, a calpestare i pronunciamenti indesiderati delle corti europee e ad ostacolare qualsiasi evoluzione politica o sociale dell’Unione.

È sensato riempire di armi uno spazio politico che presenta queste caratteristiche? È sensato guardare con favore all’enorme programma di riarmo della Germania, paese dove un partito nazionalista di estrema destra è al secondo posto col 21 per cento dei voti e ritiene che Berlino abbia ormai diritto alla sua atomica? Quale certezza abbiamo per il futuro che l’esclusione di Afd dalle leve del potere continui a tenere? O che l’arsenale atomico francese non finisca nelle mani del Rassemblement national? Sono rischi ben più concreti di un’invasione russa o forse il modo in cui qualcosa di simile potrebbe effettivamente attuarsi.

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Revisionismi In un passante cruciale della storia europea la presidente del Consiglio di un Paese fondatore della Ue ne ha pubblicamente disconosciuto, in Parlamento, la genesi. L’attacco scomposto e gesticolante di […]

Quel turpiloquio missino è un insulto alla Repubblica

 

In un passante cruciale della storia europea la presidente del Consiglio di un Paese fondatore della Ue ne ha pubblicamente disconosciuto, in Parlamento, la genesi. L’attacco scomposto e gesticolante di Meloni al Manifesto di Ventotene ha ricollocato, per un istante astorico, l’Italia dalla parte politica (il fascismo) che gli autori di quel testo del 1941 aveva arrestato e confinato su quell’isola. Non è stato un insulto ai padri costituenti Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi e nemmeno un dileggio al comandante partigiano Eugenio Colorni assassinato a Roma mentre combatteva per liberare la città da nazisti e collaborazionisti repubblichini.

È un turpiloquio rivolto alla storia d’Italia nell’anno dell’ottantesimo anniversario della sua Liberazione. Una ingiuria che avrebbe meritato lo spazio consentito, solo grazie alla democrazia, a quella ridotta numerico parlamentare che nel 1962 Aldo Moro identificava nel Msi come «riferimento ideale e storico del fascismo».
Pronunciando con voce solenne «questa non è certamente la mia Europa» Giorgia Meloni avrà probabilmente rivolto il pensiero ai padri politici da cui discende, Almirante e Rauti, immaginandoli soddisfatti dalle parole pronunciate dalla loro erede.

In questo modo al suo profilo di inadeguatezza governativa va ad aggiungersi l’emersione in superficie delle viscere postfasciste che non hanno mai smesso di rappresentare il nucleo identitario dell’estrema destra di genìa missina.

La deformazione dei brani estrapolati dal Manifesto rappresentano allo stesso tempo un piccolo espediente di bassa retorica e un grande esempio della vasta sproporzione esistente tra il minuto profilo di chi governa e la grande eredità della Repubblica nata dalla e nella Resistenza e prima ancora nelle carceri e in quel confino a Ventotene da cui uscì, tra i tanti, uno tra i più degni suoi rappresentanti: il Presidente Sandro Pertini.

Così il passaggio citato da Meloni «la rivoluzione europea dovrà essere socialista» resta monco tanto dell’incipit «Un’Europa libera e unita è premessa necessaria al potenziamento della civiltà moderna di cui l’era totalitaria rappresenta un arresto» quanto dell’obiettivo finale «l’emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane». Che, se ne deduce, Meloni non ricerca.

La presidente postmissina anziché scandalizzarsi perché «nelle epoche rivoluzionarie, in cui le istituzioni non debbono essere amministrate ma create, la prassi democratica fallisce clamorosamente» dovrebbe studiare e recuperare evidenti lacune. La democrazia liberale con la sua crisi aveva spalancato le porte al fascismo e, dunque, nei progetti dei costituenti non poteva che essere immaginata una democrazia nuova e appunto «rivoluzionaria», fondata sul superamento di una «metodologia democratica» propria dello stato pre-fascista e centrata sull’uguaglianza di donne e uomini, sulla giustizia sociale ed il lavoro, sull’emancipazione delle classi popolari. Sarebbe stato sufficiente, per Meloni, leggere almeno gli articoli 1 e 3 della Costituzione su cui ha giurato. Soffermandosi sulla proprietà privata il testo specifica non solo una critica al sistema dell’Urss, dove la popolazione è stata «asservita» a una «ristretta classe di burocrati gestori dell’economia», ma delinea la cornice dell’articolo 42 della Carta del 1948. La proprietà privata che deve essere «abolita, limitata, corretta e estesa caso per caso» è la stessa che nel vissuto di Spinelli, Rossi, Colorni e di tutto il mondo antifascista determinò gli assetti storici su cui il regime di Mussolini nacque e si consolidò.

Infine, l’attacco alla «dittatura del partito rivoluzionario» attorno a cui «si forma il nuovo Stato e la nuova vera democrazia» sembra rappresentare ancora una volta l’insuperabile sindrome degli sconfitti della storia. Quel «partito», nel fuoco della guerra mondiale, non si identificò in un modello unico ma nella pluralità dell’antifascismo, dei Cln, del Corpo volontari della libertà. In quel soggetto diversificato e collettivo rappresentato dai dirigenti (comunisti, socialisti, cattolici, liberali) che sfilarono per le strade della Milano liberata ottanta anni fa.

Ascoltando Meloni torna alla mente l’epigrafe che nel 1953 Piero Calamandrei dedicò ai caduti della Resistenza dopo la formazione in Parlamento del gruppo del Msi: «Non rammaricatevi dai vostri cimiteri di montagna se giù al piano ove fu giurata la Costituzione murata col vostro sangue sono tornati da remote caligini i fantasmi della vergogna. Troppo presto li avevamo dimenticati. È bene che siano esposti perché tutto il popolo riconosca i loro volti e si ricordi».

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Guerre globali Mentre Trump riscrive alleanze e confini, l’illusione è di uscire dalla crisi e dalle divisioni dell’Unione europea con il «keynesismo militare»: invece ci indebiteremo per riempire gli arsenali di armi americane che sono oggi il 70% dell’import bellico europeo

Un murale a Sana'a «racconta» gli attacchi Houthi alle navi israeliane foto Ap Un murale a Sana'a «racconta» gli attacchi Houthi alle navi israeliane – Ap

«Vorrei poter scrivere soltanto un verso: che la paura è finita», diceva in questi giorni la poeta di un centro giovanile. E invece sembra che, ogni giorno, ci vogliano sempre più impauriti e sempre più poveri. Mentre siamo appesi alla telefonata Trump-Putin sull’Ucraina, allo stallo dei negoziati sulla tregua a Gaza e alla guerra del Mar Rosso contro gli Houthi yemeniti, i guerrafondai europei esaminavano ieri la proposta della estone Kallas, rappresentante della politica estera, di altri 40 miliardi di aiuti militari e civili a Kiev da aggiungere agli 800 del piano di riarmo della Von der Leyen.

La quale, giova ricordare, nel settembre 2022 proclamava davanti alla Commissione europea: «Putin deve perdere questa guerra». Oggi ci sembrano parole al vento ma lei, che in tre anni non ha mai nominato un inviato diplomatico per l’Ucraina (lo ha fatto persino il Vaticano), è stata la prima nella Ue a scegliere l’opzione militare senza neppure tentare quella politica. Altro che Europa di Ventotene: questa Ue vola ormai da anni, senza cercare alternative, sulle ali del bellicismo. Con il risultato che in Europa si è tornati a parlare di bombe atomiche e «ombrelli nucleari» con una spavalderia tragicomica.

In realtà più armi avremo e più alta sarà la probabilità che le useremo (male). Altro che deterrenza: le armi nei magazzini non producono reddito o sicurezza, come viene contrabbandato, ma alimentano la tentazione di giustificare nuovi e costosi arsenali con minacce vere o inventate e soprattutto destabilizzano lo stato sociale.

L’ILLUSIONE è di uscire dalla crisi e dalle divisioni dell’Unione con il «keynesismo militare» come viene definito sull’ultimo numero di Le Monde diplomatique: invece ci indebiteremo per riempire gli arsenali di armi americane che sono oggi il 70% dell’import bellico europeo. Anzi già lo facciamo: secondo l’ultimo annuario del Sipri di Stoccolma gli stati europei della Nato hanno ordinato a Washington negli ultimi cinque anni 500 aerei da combattimento, oltre ad altri armamenti.

Stiamo già scodinzolando ai piedi del padrone Trump che ci chiede di aumentare l’impegno nell’Alleanza atlantica. In fondo eravamo già pronti ad accoglierlo e faremo lo stesso con il suo successore. Basta pensare al caccia F-35, a cui l’industria europea fornisce alcuni componenti: molti di questi aerei da combattimento verranno forniti agli europei (Germania in testa) quando già si comincerà a pensare al successore di Trump. Del resto come rinunciare a questo prodotto del complesso militare israelo-mericano? Con gli F-35 lo stato ebraico in un giorno ha fatto fuori l’80% delle difese anti-aeree iraniane.

La guerra in Medio Oriente ha visto usare più tecnologie belliche avanzate di quelle impiegate sul fronte ucraino. Pochi forse lo hanno notato ma Starlink di Elon Musk funziona, sia pure non ufficialmente, anche nei cieli della Siria del nuovo padrone, l’ex jihadista Al Jolani. Così Tel Aviv, grazie anche al suo apparato cibernetico (detiene quasi il 50% del mercato mondiale), ha eliminato quel che restava delle forze armate siriane. Oggi, oltre al Libano meridionale, da cui non accenna ad andarsene, occupa tutto il Golan ed è alla periferia di Damasco, mentre la Turchia sta ottenendo quel che si aspetta da anni, un’ampia conquista territoriale e di influenza. Poco importa che la popolazione alawita, i cristiani e i drusi temano nuovi pogrom.

La Siria è diventata il teatro di un nuovo braccio di ferro geopolitico tra Turchia e Israele. Ma è anche il terreno di una trattativa di Mosca per il mantenimento delle sue basi militari aeree e navali, aspetto che non infastidisce Erdogan che sta finendo di costruire con i russi la più grande centrale nucleare del Mediterraneo. E neppure Israele che all’Onu ha appoggiato le conquiste territoriali di Mosca in Ucraina mentre Putin e Netanyahu (il leader che è stato più volte di tutti al Cremlino) sono quasi sempre pronti a mettersi d’accordo.

Lo stesso ministro degli esteri turco Hakan Fidan ha ammesso che la Turchia ha convinto la Russia (e l’Iran) a non intervenire in Siria in aiuto ad Assad durante l’offensiva dei ribelli. Questo intervento di Ankara ha a che fare anche con la guerra ucraina: i turchi detengono sul Bosforo le chiavi del Mar Nero, Erdogan ha già dimostrato di negoziare con un successo con Putin e i turchi sanno perfettamente che Mosca considera vitale poter contare su una base navale nel Mediterraneo per la sua flotta nel Mar Nero.

PUTIN NON CHIEDE solo annessioni territoriali e tornare a vendere gas in Europa ma una profondità navale strategica per reclamare la sua zona di influenza. Agli europei, nutriti da anni di retorica bellicista e di fake news, può apparire come un notizia incredibile ma Mosca, almeno per il momento, ha vinto la guerra.

Anche la battaglia del Mar Rosso tra gli Houth filo-iraniani e gli americani ha il suo corollario strategico. Gli Houthi controllano dal 2014 la capitale Sanaa e gran parte del territorio a Nord, dicono che vogliono colpire le navi dirette in Israele finché durerà l’assedio di Gaza e in passato hanno anche lanciato attacchi missilisti contro il porto ebraico di Eilat, così come nel 2019 avevano bersagliato gli impianti petroliferi sauditi.

La mancata reazione americana a protezione del regno wahabita allora fu uno dei grandi motivi di dissenso tra Washington e Riad che pure dalla guerra aperta agli Houthi, lanciata nel 2015, è uscita pesantemente sconfitta. Oggi gli americani intendono vendicare i sauditi, ospiti delle trattative con Mosca e Kiev, e convincerli a entrate nel Patto di Abramo con Israele.

 

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Riarmo Leader in gravi ambasce ripiegano su se stessi. In piena involuzione culturale, hanno riscoperto lo spirito del branco, col suo contorno di razzismo più o meno esplicito

Nazionalismo e armamenti: la congiura dei falliti Illustrazione di Ikon

Il 5 marzo scorso Emmanuel Macron ha indirizzato un solenne discorso alla nazione. La Francia, ha detto, deve difendersi, il pericolo russo è grave, è l’ora di riarmare la Francia e tutta l’Europa.

Il più impopolare presidente della quinta Repubblica, devastato da un doppio fallimento elettorale, incapace di contrastare l’avanzata dell’ultradestra, dante causa di quel che in Italia si chiamava un governicchio, tenta il rilancio indossando i panni del chef de guerre continentale, forte di qualche dozzina di bombe atomiche. Il riarmo sarebbe pure un buon affare, dato il florido stato dell’industria francese degli armamenti.

Non è diversa la condizione di Starmer. Vinte le elezioni per il collasso conservatore più che per meriti propri, sondaggi a lungo in caduta, stritolato dai danni provocati dai governi precedenti, condizioni economiche infauste, servizi pubblici disastrati, prigioniero dell’ortodossia dell’austerity, Starmer si è un po’ rilanciato col suo attivismo pro-Ucraina. Anche la Gran Bretagna è una potenza nucleare. Che diamine!

Non sta bene neanche Merz, prossimo cancelliere federale. La Germania è sofferente. I servizi pubblici sono malmessi, ma è soprattutto in crisi l’ultima trincea della manifattura europea, difesa a spese delle manifatture degli altri paesi, dove rimane qualche regione vitale, come il Nord Est italiano, ma che è l’ombra di ciò che era. Le democrazie non si fanno la guerra, ma si fanno la forca. Tra libera concorrenza, divieto d’aiuti di Stato, vincoli di bilancio, moneta unica, la Germania si è salvata, ma ha fatto molte vittime: la più tragica è la Grecia. Alla lunga, la trincea sta cedendo. Tra incremento dei costi energetici, ritardi di innovazione, concorrenza cinese, Merz punta sul riarmo.

Non stanno bene tanti leader d’Europa e le loro cerchie. Non sta bene von der Leyden, che ha una maggioranza risicata, non stanno bene lungo la frontiera orientale, non sta bene Meloni. Pur applicando con zelo le prescrizioni del patto di stabilità, la produzione industriale è in calo da 24 mesi. Per ragioni ideologiche flirta con Trump, immagina affari con Musk, ma non può dissociarsi da von der Leyden. Secondo una consolidata divisione del lavoro, lascia fare a Salvini, che prova a lucrare sul pacifismo. Anche a lei il riarmo appare un toccasana.

Ci sono ragioni di sostanza, dietro il riarmo, Putin non è un agnellino. Ma ce ne sono pure di politiche. Dopo un quarto di secolo di martellamento anti-immigrati da parte delle destre estreme, l’aggressione all’Ucraina ha offerto ai partiti mainstream un surrogato per attrarre gli elettori. Le democrazie occidentali sarebbero sotto attacco dell’autocrazia russa e dei suoi altrettanto autocratici alleati: Cina e Iran in testa. Val la pena leggere quel documento paranoico che è la risoluzione votata l’11 marzo dall’Europarlamento.

Putin, è chiaro, cova un disegno neozarista. Anche lui si trova ad affrontare terribili difficoltà interne. La Russia è un paese sterminato, ospita popolazioni eterogenee, possiede enormi risorse naturali, ma la transizione al mercato ha beneficato solo un pugno di oligarchi, arricchitisi usando mezzi legali e illegali, circondati da un ristretto strato di servizio. Sottoposta a duri metodi polizieschi e a un’intensa propaganda, la popolazione non ha migliorato granché la propria condizione. Ha aggredito l’Ucraina e prova a inquinare, non sappiamo fino a che punto, le contese elettorali in occidente. Il bellicismo sta bene pure a lui e il neozarismo è un buon narcotico per mascherare i problemi reali.

Trump a sua volta, tra brutalità e arroganza, fa appello al suprematismo bianco, fino a sostenere i neonazisti d’Europa, anche lui per affrontare una situazione scomoda. Biden aveva provato a rilanciare l’economia impostando politiche di lungo periodo. Che però hanno ben poco alleviato le condizioni di larghe fasce di popolazione. Il peso del debito pubblico è enorme e allora, tra sanzioni e ritiro della protezione militare, Trump vuole scaricare sull’Europa, il Canada e altri, le sue difficoltà. Nel mentre in quel brandello d’occidente che è Israele, Netanyahu ha fatto a pezzi quanto restava del diritto internazionale per prendersi una sproporzionata e sanguinaria vendetta sulla popolazione palestinese e rinsaldare la sua barcollante posizione politica.

La Cina osserva sorniona gli eventi. Non è sola. Osserva la congiura, non concordata, dei falliti. Leaders in gravi ambasce, e le loro cerchie, ripiegano su se stessi. In piena involuzione culturale, hanno riscoperto lo spirito del branco, col suo contorno di razzismo più o meno esplicito. Incapaci d’immaginare qualche forma di cooperazione internazionale che promuova la pace, sui temi dello sviluppo e del riscaldamento globale – del resto anche la cooperazione intraeuropea è prigioniera del principio di concorrenza – puntano su nazionalismo e armamenti.

Fa da mediocre contorno la congiura, questa sì concertata, dei falliti della sinistra italiana. Che i tempi consiglino una più intensa cooperazione europea anche militare è ovvio. Per corroborare l’ovvietà Michele Serra ha proposto la grande manifestazione popolare. Ma lui stesso si è accorto che di Europe ce ne sono parecchie. Non c’è solo la «fortezza Europa». Cui aderisce un pezzo di dirigenza Pd, mentre un’altra concorda con la segretaria sulla sua drammatica inadeguatezza e sui suoi costi enormi. È l’occasione per i falliti del Pd e dintorni, sconfitti dagli elettori e delle primarie, per liberarsi, col sostegno di stampa e tv padronali, di una segretaria non deferente, rea a quanto pare di lesa fede europeista e democratica, di stolido pacifismo. Con tripudio dell’ultradestra. Falliti sì, ma pericolosi.

 

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Il segretario Cgil dalla manifestazione di Roma: “Diamo continuità alla discussione con una grande assemblea il 29 marzo”

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“Siamo qui perché bisogna affermare la cultura della pace e non quella della guerra. Come abbiamo detto in modo molto chiaro, noi pensiamo che sia un errore grave quello di investire oggi sul riarmo e pensiamo che sia importante discutere insieme per costruire quell’Europa che ancora non c’è, un’Europa fondata sul lavoro”. Lo ha detto Maurizio Landini, segretario generale della Cgil, da piazza del Popolo, a margine dell’affollata manifestazione apartitica, promossa da numerosi sindaci su appello del giornalista Michele Serra, per riaffermare i valori fondanti dell’Unione Europea.

“C’è bisogno di dare anche continuità a questa piazza – ha continuato Landini – per mettere assieme i valori fondamentali della pace, della democrazia e della libertà. E del lavoro, che è l’elemento che oggi manca. Gli investimenti bisogna farli per creare quell’Europa che ancora non c’è, non per il riarmo e gli eserciti di ogni singola nazione”.

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L’Unione (europea) fa la forza

L’Unione (europea) fa la forza

Per Landini, “la cultura della pace ha come condizione quella di confrontarsi, di dialogare, di ragionare. Anche quando ci sono idee diverse. La cultura della guerra è invece quella che impedisce il confronto e la libertà delle persone. Quindi è necessario che si continui una discussione tra tutti i soggetti in campo per costruire l’Europa. Noi lanciamo la proposta di convocare per il 29 marzo una grande assemblea per discutere di pace, di disarmo, ma anche di lavoro, di politiche industriali, di investimenti. È un modo per cogliere il senso della giornata di oggi”.

“La pace – ha detto ancora Landini – non è un pranzo di gala. La pace la si costruisce confrontandosi, discutendo, avendo anche idee diverse. Si parla di pace perché oggi siamo nel pieno di una guerra e si decide l’aumento delle spese militari. Siamo di fronte a uno scontro senza precedenti. Quando dico che sono contro le spese per il riarmo, non sto dicendo che sono contro l’esercito europeo. Questa discussione va fatta in un modo totalmente diverso. Perché i soldi per il riarmo non servono a costruire né un’Europa comune, né un sistema di difesa comune. L’Europa non si costruisce così”.

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“In Europa c’è un problema enorme che si chiama lavoro – ha concluso –. Perché senza il lavoro, e senza i diritti nel lavoro la democrazia non regge. Per questo oggi è il momento di confrontarsi, di discutere. Nessuno deve rinunciare alle proprie idee, ma si deve avere la consapevolezza che solo insieme si può costruire quell’Europa che oggi non c’è. E l’Europa o è fondata sul lavoro e sulle persone, o altrimenti non esiste”.

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Governanti e piazze Grande manifestazione ieri a Roma in Piazza del popolo, ma di quale popolo? Qual è il suo valore politico se inequivocabilmente si poteva partecipare sia con le bandiere della Nato, come sollecitava qualcuno, sia con quelle della pace (ma non con la bandiera del popolo palestinese)?

I pacificatori disinteressati alla pace

Grande manifestazione ieri a Roma in Piazza del popolo, ma di quale popolo? Qual è il suo valore politico se inequivocabilmente si poteva partecipare sia con le bandiere della Nato, come sollecitava qualcuno, sia con quelle della pace (ma non con la bandiera del popolo palestinese)? Possibile che non venga il sospetto che una così indistinta convocazione sull’argomento Ucraina possa essere piegata nella direzione cogente e attuale della leadership dell’Unione europea?

Lì dove garrisce al vento la bandiera blu con stelle del ReArm Ue? La sintonia temporale con la decisione di von der Leyen e dei 27 Paesi Ue di avviare un mega-programma di riarmo di 800 miliardi di euro per ognuno degli Stati membri – altro che «difesa comune» – è allarmante. Stracciati Patto di stabilità e fondi di coesione, si può fare per la preparazione alla guerra quello che per sanità e welfare era tassativamente proibito. Addio alla frugalità, riempiamo gli arsenali.

E così, tanto per contraddire la volontà ondivaga di Trump che scarica gli alleati occidentali sui costi della Nato, ecco che decidiamo un fondo mostruoso per acquistare le armi Usa, le uniche sul campo, nascondendo che entriamo in uno scenario appena malcelato di doppia spesa, più soldi per le armi a ogni Stato e più soldi all’Alleanza atlantica; verso una prospettiva ancora più devastante per il patto sociale europeo – e la sua tenuta democratica – , dell’avvio di una economia di guerra che trasformi ogni produzione materiale e immateriale in nuova arma: meno automobili più carri armati, altro che green deal.

Il made in Italy concorrerà all’autoproduzione di nuovi cacciabombardieri fiammanti, magari con l’improbabile e rischioso auspicio che tutto questo farà crescere Pil e occupazione, e non invece più propensione ai conflitti amati e alla violenza, insieme a una trasformazione delle basi valoriali della nostra democrazia costituzionale e non solo per l’articolo 11 che ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle crisi internazionali, ma per l’evidente trasformazione dei contenuti della convivenza civile. Perché l’obiettivo di un’Europa come fortezza armata, alternativo alla sua fondazione come baluardo di pace per l’esperienza recente della Seconda guerra mondiale, aiuta solo la crescita della destra e dei nuovi fascismi in tutto il Continente. Una grande manifestazione ieri in piazza del Popolo dunque, che, però, a questi interrogativi non risponde.

Arriva invece solamente la risposta, sbagliata, del premier britannico Starmer che ha convocato – dopo quella di Macron – una riunione di circa 25 Paesi alleati dell’Ucraina, per costituire una «coalizione dei volenterosi» (Co.Vo. sarebbe l’acronimo), ripescando dalle acque limacciose della storia una terminologia a dir poco infausta – andate a vedere le distruzioni e massacri che abbiamo commesso con i «volenterosi» per invadere l’Iraq nel 2003, allora tra i volenterosi come terzo contingente c’era pure l’Ucraina. Tralasciando un giudizio su tutte le guerre «volenterose» e «umanitarie» che abbiamo promosso negli ultimi trent’anni, dalla Somalia all’ex Jugoslavia, dall’Iraq all’Afghanistan, dalla Libia alla Siria. Stavolta «volenterosi» a fare che, quando non c’è ancora non solo una pace duratura, ma nemmeno la tregua o un timido cessate il fuoco?

Starmer, Macron e Zelensky si avviano a definire l’elenco, l’area dei partecipanti a un’eventuale operazione di peacekeeping. Per questo il premier britannico convoca per giovedì a Londra una «riunione operativa» a livello di vertici militari con i Paesi alleati disposti a discutere di un futuro schieramento di «sul terreno» e di «aerei nei cieli», a garanzia della sicurezza dell’Ucraina, dopo il raggiungimento di accordi di pace. Ecco il punto: ma a garantire un eventuale cessate il fuoco è possibile che siano schierate forze militari di Paesi Nato che, per interposto ruolo, hanno sostenuto in armi l’Ucraina dal 2014, ricordava l’ex segretario Nato Stoltenberg? Accetteremmo forse per questa funzione di mediazione armata la Bielorussia o la Corea del Nord che hanno sostenuto in armi Putin?

L’idea di vere forze armate da terra, dal mare e dal cielo pronte ad intervenire per salvare il cessate il fuoco altro non è che la continuazione della guerra con i nostri eserciti; è una scelta “irachena”: è la famigerata No-fly zone dei vincitori per colpire i vinti. Qui la situazione sul campo è ben diversa. Oltre allo stallo c’è la drammatica difficoltà dell’esercito ucraino, non solo per mancanza di armi ma anche per le diserzioni.
Qui una forza di interposizione o è davvero neutrale e per questo capace di fermare ogni provocazione e ogni mira espansionista di zar Putin, oppure come i «volenterosi» iracheni è benzina sul fuoco di un nuovo conflitto mondiale. Solo le Nazioni unite, ancorché vilipese e bombardate anche da Trump – ma sarà costretto a farci i conti con l’Onu e il Sud del Mondo -, hanno ancora questo potere e diritto internazionale di intervento di mediazione, anche con la forza e i caschi blu, al di sopra delle parti in guerra. L’unico augurio è che la piazza romana sia sì di volenterosi, ma contro i giochi di guerra.

Concludendo. Ma, noi europeisti e anti-nazionalisti convinti, siamo davvero sicuri che la bandiera di questa Ue ridotta in armi e nuovi muri sia la giusta difesa della democrazia? A Belgrado, nel sud-est europeo, ieri da tutta la Serbia è sceso in piazza un vero oceano di manifestanti, una nuova generazione insieme a quella più anziana, tutti contro la corruzione. Dopo la tragedia della tettoia crollata a Novi Sad nel novembre 2024, protestano da quattro mesi contro il malaffare di un governo del privilegio e del favoritismo, alimentato da investimenti predatori cinesi con subappalto francese, da quelli degli Emirati per stravolgere il centro della capitale, dai contratti della Germania e dell’Ue per accaparrarsi il litio della regione di Jadar, dalla vendita di decine di caccia Rafale gestita direttamente da Macron, e dalla famiglia Trump, sodale del potere serbo, che si compra i resti dei ministeri bombardati dalla Nato nel 1999. Ebbene in piazza ieri, come in questi quattro mesi, non c’era una sola bandiera dell’Unione europea.

 

 

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