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CRISI UCRAINA. Il capo di stato maggiore dell’esercito statunitense, generale Mark Milley ha ribadito che, a un anno dall’invasione russa, non c’è soluzione militare al conflitto in Ucraina «Generale dietro la collina…»

 E tre. Nell’arco di poco più di tre mesi e per tre volte, il capo di stato maggiore dell’esercito statunitense, generale Mark Milley ha ribadito che, a un anno dall’invasione russa, non c’è soluzione militare al conflitto in Ucraina.

Aveva cominciato a novembre 2022, quando aveva per la prima volta dato i numeri attendibili dei morti «duecentomila, e in egual misura da una parte e dall’altra, russi e ucraini», poi a conclusione del primo vertice di Ramstein il 25 gennaio, e ora in questi giorni lo ha ripetuto in un’intervista al Financial Times. Pragmatico e prudente sull’andamento del conflitto e credibilmente più consapevole della reale situazione sul campo di tanti «esperti» che affollano gli scranni tv partecipando, da lontano, alle battaglie, Mark Milley insiste: «Né l’Ucraina né la Russia sono in grado di vincere la guerra che, invece, può solo concludersi ad un tavolo negoziale», perché «se è praticamente impossibile» che la Russia conquisti l’Ucraina, cosa che «non succederà», resta «pure estremamente difficile che le forze di Kiev riescano a cacciare quelle di Mosca dalle loro terre», e il crollo dell’esercito russo è improbabile, viste le massicce, nuove forze impegnate dal Cremlino per l’attesa offensiva. Della quale si avvertono: terrore dei civili, sferragliare di armi, sorvoli intercettati, sottomarini segnalati, ombre ai confini del «limite noto»: la minaccia nucleare avvertita dalle sconsolate parole del segretario Onu Guterres.

Mentre è arduo sospettare che il comandante in capo delle forze armate Usa sia un «putiniano», ci si chiede: ma chi glielo fa fare al generale Mark Milley di insistere? Credibilmente, almeno per due motivi. Il primo, non scontato, è di

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Il voto in Lazio e in Lombardia rappresenta l’ora zero della sinistra. Ha un senso politico generale, e non può essere derubricato a voto amministrativo. L’astensionismo massiccio, più acuto nell’elettorato di sinistra, e molto marcato nel mondo giovanile, consegna il bollettino di una malattia molto grave della democrazia italiana.

Dopo la sconfitta storica dello scorso 25 settembre, rimossa nelle sue dimensioni, il lunghissimo dibattito interno al Pd, il calcolo a breve di Giuseppe Conte e, d’altra parte, di Carlo Calenda nel pensare di fare razzia nell’elettorato del principale partito di centrosinistra, l’irrilevanza di tutti i piccoli soggetti alla sinistra del Pd, consegnano un quadro drammatico. D’altra parte, pur in un contesto di astensionismo che non risparmia nessuno, la vittoria di Fratelli d’Italia è chiara e netta, malgrado gli errori gravi fatti dal governo nelle settimane passate.

A questo dato elettorale, si accompagnano la passività e la sfiducia dei movimenti -compreso quello sindacale, impegnato in una sua parte, la Cgil, nella campagna congressuale- e delle reazioni della società civile a fronte dell’azione del governo, o dei rischi alle porte di bavagli all’informazione.
Occorre nominare questa situazione, analizzarla e capirne le cause, per riuscire a prendere un’iniziativa forte, persino radicale, che inverta questa tendenza.

A questi fatti generali, si aggiunge una considerazione ulteriore.
Stupisce la forte differenza di risultato tra Milano, e altre città lombarde, e Roma. A Milano la candidatura forte di Pierfrancesco Majorino porta a casa una vittoria significativa, testimonianza di un giudizio sulla qualità amministrativa nella città e sul profilo culturale che il candidato dem ha espresso. Maiorino vince in quasi tutti i capoluoghi lombardi.

A Roma città, invece, D’Amato perde con quasi cinquantamila voti di scarto, e per la prima volta anche nelle zone centrali (così come in tutte le altre città della Regione). E’ palese l’assenza di credibilità fra gli elettori e le elettrici dell’operato del governo regionale uscente, e una forte disaffezione rispetto all’andamento del governo della capitale. Roberto Gualtieri, che è un uomo intelligente, deve prenderne atto ora, prima che sia tardi.

Il Pd romano, che era stato a lungo nel cuore del governo del Pd nazionale in questi anni, che aveva ispirato, con la lucidità di Goffredo Bettini, l’alleanza strategica con il M5S, salvo poi farsi dettare al momento delle scelte la linea da Calenda, ed esprimere un candidato tutto interno alla guida della Regione, esce con le ossa rotte.
La lontananza dal popolo, dai suoi sentimenti e dalle sue necessità materiali si è fatta, per la nomenclatura di tutto il centrosinistra frammentato e dell’opposizione, incolmabile.

Non voglio infierire sul rito congressuale del Pd -che rimane l’unica realtà strutturata in questo campo-. Sarebbero stati necessari un grande confronto di idee e di proposte nuove, e un progetto di rifondazione della politica nella società, e non la stanca riproposizione di primarie che corrispondono ad una fase diversa della società italiana e della politica.

Ma questo è il momento di un colpo d’ala. Chi vincerà le primarie del 26 febbraio dovrà, obtorto collo, aprire il cantiere per federare tutte le aree culturali e sociali che si riconoscono nei valori della Costituzione, a partire da un diffuso tessuto di associazionismo locale, in una nuova forza popolare, che riparta dalla vita e dai sentimenti delle persone, di ispirazione socialista e verde, casa plurale dei cristiani che seguono il messaggio di Francesco, di una cultura antifascista, della proposizione di un conflitto democratico capace di conquistare coloro che non votano, di capirne rabbia e risentimento per trasformarli in lotta e presa di coscienza. Di aprire nuove case del popolo, o della democrazia, di aderire, come si diceva un tempo, alle pieghe della società.

Capi-bastone, correnti, centri di potere, tutto il sistema che ha portato fin qui, devono essere con coraggio messi da parte, per restituire il diritto alla politica ai lavoratori, alle donne, ai giovani. Il lavoro nelle istituzioni è importante, ma quello nella società, totalmente trascurato in questi anni, lo è almeno altrettanto. Non si può dedicarsi alla costruzione di un partito sociale se si è impegnati nel governo di una città, o di una regione.

Il tempo è poco, e il momento per cambiare strada è questo.

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L'INTERVENTO. Parla Alessandro Genovesi, segretario generale di Fillea Cgil, il sindacato degli edili

Superbonus, Ciafani: «Stroncata l’unica politica di intervento sul patrimonio da riqualificare»

Compito del governo dovrebbe essere quello di creare lavoro, non di distruggerlo. Compito del governo dovrebbe essere quello di raggiungere gli obiettivi Onu e Ue per una maggiore sostenibilità ambientale.

Compito del governo dovrebbe essere quello di sostenere la rigenerazione, l’efficienza energetica e la messa in sicurezza contro terremoti e disastri naturali. Compito del governo dovrebbe essere quello di aiutare la crescita qualitativa delle imprese, favorendo investimenti in innovazione, nuovi materiali, nuove professionalità. Compito del governo dovrebbe essere quello di garantire a chi ha di meno lo stesso diritto a vivere in una casa sicura, salubre, con meno sprechi energetici di chi invece ha redditi alti. Compito del governo dovrebbe essere quello di realizzare tutto ciò tutelando salute, sicurezza e diritti di chi lavora.

Il governo Meloni, in un colpo solo (o meglio in due: decreto sulla cessione dei crediti per i bonus edili e nuovo Codice degli appalti) riesce a fare l’opposto di tutto questo. Innanzitutto il blocco della cessione dei crediti e dello sconto in fattura metterà a rischio decine di migliaia di posti di lavoro in essere -si stimano in circa 100 mila i posti di lavoro che verranno distrutti nei prossimi mesi -, rendendo per di più i vari bonus (indipendentemente dalla percentuale, sia il 50% o il 90%) «roba solo per ricchi».

Cioè per chi ha già i soldi da poter anticipare e redditi alti da poter poi prendere le detrazioni. Peccato che sono almeno 43 milioni i cittadini che vivono in case con classe energetica inferiore alla C e 50 in zone ad alto rischio sismico, che vivono in condomini o edifici costruiti prima degli anni 90 e che sono 23 milioni gli italiani con i redditi più bassi (di cui 7,3 milioni sono anche “incapienti” cioè non dichiarano reddito sufficiente per prendere le detrazioni).

LA REDAZIONE CONSIGLIA:

Ex Gkn, anche le istituzioni toscane stufe di Borgomeo

Parliamo della stragrande maggioranza dei pensionati, lavoratori dipendenti e autonomi, precari, disoccupati che vivono nelle case più vetuste ed energivore, cioè le case che sprecano di più (il 35% di tutta la C02 è prodotta da edifici vecchi), vengono giù alle prime scosse di terremoto, hanno le bollette più care.

E poi vi sono anche le imprese serie, che si sono andate specializzando sulla rigenerazione e ristrutturazione, che hanno investito in macchinari e personale che vengono “mandate in buca”. Imprese che anche grazie alle leggi passate ora denunciano il numero reale dei lavoratori impiegati – Durc di Congruità- e applicano i Contratti nazionali (Ccnl) dell’Edilizia, con tutto ciò che questo comporta in termini di maggiore sicurezza, formazione, salari. Alcune di queste imprese sono le stesse che, se dovessero chiudere, non potranno neanche realizzare il Pnrr, che non è fatto solo di grandi opere ma anche di tanti interventi di riqualificazione.

Se a questo scenario aggiungiamo i tentativi di ridurre le tutele negli appalti pubblici, tra liberalizzazione dei livelli di sub appalto e minori obblighi ad applicare lo stesso Contratto nazionale edile, o gli altri contratti nazionali. siamo proprio al classico “dalla padella alla brace”. O rischi di perdere il posto di lavoro (effetto blocco della cessione crediti) nell’edilizia privata o rischi di lavorare negli appalti pubblici con meno tutele, meno imprese strutturare e di qualità, minore sicurezza e maggiori infortuni.

Insomma il governo Meloni sembra accanirsi contro il settore che, direttamente ed indirettamente, sta dando il maggior contributo al Pil e all’occupazione da due anni a questa parte, e che è e sarà sempre più strategico per rigenerare città e aree interne. Un governo contro il lavoro e l’ambiente.

Per queste ragioni se non vi saranno cambi di direzione, tavoli di confronto con i sindacati, interventi a difesa dell’occupazione e per un suo miglioramento, come Fillea Cgil siamo pronti alla mobilitazione sin dalle prossime settimane, chiedendo anche alle altre organizzazioni – Feneal Uil e Filca Cisl – di scendere in piazza e di proclamare, come nel 2019, lo sciopero generale di tutti i comparti della filiera delle costruzioni.

*Segretario generale Fillea Cgil

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LIBERTÀ D’INFORMAZIONE. Una domanda al presidente del Consiglio e al ministero degli esteri Tajani: parleranno della vicenda dei giornalisti italiani Andrea Sceresini, Alfredo Bosco e diversi altri, cui è stato ritirato l’accredito dai servizi segreti ucraini e che rischiano un processo senza colpe?

Giornalisti italiani bloccati e «censurati» dalle autorità ucraine Andrea Sceresini e Alfredo Bosco

Lunedì sarà a Kiev Giorgia Meloni, come annunciato. Una domanda al presidente del Consiglio e al ministero degli esteri Tajani: parleranno della vicenda dei giornalisti italiani Andrea Sceresini, Alfredo Bosco e diversi altri, cui è stato ritirato l’accredito dai servizi segreti ucraini e che rischiano un processo senza colpe? L’Italia è un paese sovrano o un punto geografico alla mercè dei desideri altrui? Vale la Costituzione antifascista o sottotraccia imperano i riti della Nato?
Siamo al cospetto di un clamoroso sintomo della crisi in corso, nella quale la sorveglianza cibernetica e l’utilizzo strumentale dei vecchi e nuovi media svolgono una funzione cruciale.

La guerra ha tra i suoi bersagli, infatti, la libertà di informazione e -anzi- una delle novità orrende di un conflitto orrendo è proprio la caccia al cronista che cerca di raccontare la verità senza veli o bavagli. Non dimentichiamolo: la prima vittima di ogni guerra è proprio la verità. Nell’età dell’infosfera, poi, il giornalismo viene considerato parte integrante di tattiche e strategie dei comandi con le stellette, e non un’attività necessaria per conoscere e diffondere le notizie sotto l’egida dell’autonomia professionale.

I misfatti non vanno raccontati. La narrazione deve fermarsi ai confini decisi dalle autorità. Oltre, c’è la scossa elettrica e incombe la repressione autoritaria. Ecco il sottotesto.
Certamente, questo vale per L’Ucraina come per la Russia. Si tratta di una triste fenomenologia, tipica dell’involuzione autoritaria in atto. Tuttavia, ora si coglie un salto di qualità: il segreto è essenziale per coprire i traffici occulti delle armi e abbassare il sipario sulle verità scomode.
In fondo, WikiLeaks e Julian Assange hanno pagato per qualcosa di simile, in proporzioni maggiori, ma dentro il medesimo filo nero. Non si deve sapere, il re non è nudo.

Il sospetto, legittimo e non infondato, è che vi sia, tra l’altro, pure voglia di vendetta da parte dell’esercito di Kiev dopo la doverosa polemica che l’ha investito per l’uccisione nel 2014 -nel corso della guerra nel Donbass- del fotoreporter Andrea Rocchelli. Il caso, raccontato solo da alcuni giornalisti free lance allora presenti in Donbass, scotta ancora, eccome.

E, poi, è evidente l’avvertimento generale: chi esce dalla logica embedded rischia. Insomma, colpirne qualcuno, per educarne molti.
Che dice, dunque, il governo italiano? Per l’intanto, deve almeno rispondere alla tempestiva interrogazione parlamentare depositata dal segretario di Sinistra italiana, Nicola Fratoianni. Altre e altri parlamentari faranno lo stesso? Al momento, colpisce l’assenza di una reazione adeguata alla virulenza dell’attacco. L’associazione Articolo21 ha battuto un colpo, un po’ troppo sola. Come se la faccenda non riguardasse tipologie e modelli della comunicazione, toccando l’essenza di un diritto fondativo della democrazia, a prescindere dai diversi orientamenti politici e culturali. Tacere oggi ha un sapore corrivo e persino omertoso.

Che dicono le testate, Rai compresa, con cui i professionisti nel mirino collaborano costantemente? Senza i loro servizi, infatti, sapremmo ancora di meno. I telegiornali sembrano muti. Dimenticanza o soggezione?
Si è appena concluso il congresso nazionale della Federazione della stampa: ecco un compito immediato per il nuovo gruppo dirigente.
Serve, infatti, una mobilitazione forte e consapevole: ne va del diritto all’informazione.
Guai a sottovalutare i pericoli, quando si manifestano e assumono sembianze chiare. O aspettiamo che arrivino proprio i mostri?

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TRANSIZIONE ECOLOGICA. L’Europa è da tempo a pezzi, ora la questione climatica rischia di frantumarla definitivamente e fra i picconatori più solerti c’è il governo Meloni. L’altro ieri si è opposto insieme […]

Dalle auto alle città l’Europa fossile a pezziDalle auto alle città l’Europa fossile a pezzi

L’Europa è da tempo a pezzi, ora la questione climatica rischia di frantumarla definitivamente e fra i picconatori più solerti c’è il governo Meloni. L’altro ieri si è opposto insieme al Pp europeo alla messa al bando delle auto diesel e benzina entro il 2035.

Solo qualche settimana fa ha chiamato tassa patrimoniale una timida direttiva che chiedeva entro il 2033 di portare nella modestissima “classe E” il patrimonio abitativo.

La crisi climatica? Le miglia di morti per i veleni sparsi dalle loro adorate auto? Fandonie dei comunisti, titolano i principali giornali della destra.

Eppure solo una settimana fa la Protezione Civile ha temuto che si abbattesse sulla Sicilia un “Medicane”, termine ai più incomprensibile, ma che internet ci spiega essere un evento simile ad un ciclone tropicale, che però potrebbe prodursi nel mediterraneo. Fortunatamente si è risolto solo in grandi piogge e non si è dovuto aggiungere un’altra tragedia a quelle della Marmolada, delle Marche e di Ischia.

Per l’appunto ci si affida alla buona sorte, elettoralmente meno costosa di un piano di adattamento al clima che cambia, il cui primo capitolo non può che essere lo stop al consumo di suolo.

«Che la sorte ci assista» come è noto non è una politica, ma è ciò che sta facendo il governo sul clima.

Oltre ad affondare i provvedimenti su casa ed auto, il 6 febbraio scorso sono stati convocati a Palazzo Chigi i massimi dirigenti di Eni, Enel, Snam e Terna per affidargli l’attuazione del piano Mattei.

Già la composizione degli invitati la dice lunga sulla direzione di marcia che il governo intende dare alle politiche energetiche.

Si punta a far diventare il nostro paese l’Hub europeo del gas. La parola magica per procedere occultando la sostanza fossile del progetto è «diversificazione».

Ciò che si capisce di questo ipotetico mix è inquietante: costruire nuovi gasdotti, con la tentazione di rilanciare il vecchio progetto Galsi, cioè metanizzare la Sardegna, il più grande giacimento di sole e vento di questo paese; raddoppiare quello già esistente che risale l’Adriatico; comprare nuove navi rigassificatrici: riprendere a trivellare l’Adriatico per estrarre le ultime gocce di metano rimaste ed infine sostenere il progetto Eni di «cattura e sequestro della CO2».

In questo minestrone tutto fossile ovviamente c’è spazio per qualche campo eolico e un po’ di fotovoltaico. Il desiderio un po’ irrealistico è fare tutto questo entro il 2026. Stanno mettendo una pesante palla al piede al paese, ulteriormente appesantita dalla scelta di ieri sulle auto e da quella di qualche tempo fa sulla casa.

A questo punto si impongono due considerazioni. La prima è che l’avvento di un governo politico non ha cambiato la sostanza e cioè che a decidere le politiche energetiche e climatiche del paese sono le imprese, l’Eni, Fiat o i grandi costruttori. La seconda è che questo blocco di potere non ha opposizione. che scelga di porre al centro della propria iniziativa la crisi climatica, chiamando il paese a mobilitarsi per costruire l’alternativa 100% rinnovabile. L’isolamento politico non significa però che siano condivise le loro scelte.

Il paese è percorso da tante mobilitazioni che potrebbero metterle in difficoltà. C’è bisogno però di un salto di qualità. Per dare espressione a questo potenziale dissenso non bastano cortei e gesti esemplari, ma sono necessarie proposte che parlino ai disagi diffusi delle persone, a cominciare dal caro bollette. Insomma disturbiamo il loro fare, ma costruiamo con pazienza anche il nostro, ad esempio dando vita ovunque a comunità energetiche solidali. Serve un grande lavoro di informazione per convincere milioni di persone a praticare l’autoconsumo, a procurarsi i servizi energetici dal sole e dal vento, a diffondere una cultura della sobrietà e del consumo intelligente. Darebbe una bella spinta alla loro diffusione se dal movimento del Fridays partissero vertenze per trasformare i tetti delle loro scuole in centrali fotovoltaiche, costruendo con le persone che abitano il quartiere comunità solidali per sfruttare l’energia che l’impianto produce

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LA «POTENZA MONDIALE». In ogni parte del pianeta. Roma, fu la piazza più grande, con tre milioni di persone. Un movimento globale che era riuscito a comunicare con le persone, oltre le ideologie […]

Venti anni fa la pace in piazza. Da Lula a Lula

In ogni parte del pianeta. Roma, fu la piazza più grande, con tre milioni di persone. Un movimento globale che era riuscito a comunicare con le persone, oltre le ideologie e le strutture organizzate, trasmettendo nelle popolazioni una speranza di cambiamento che aveva visto nelle politiche neoliberiste la minaccia al pianeta ed all’umanità. Un movimento forgiato dalle campagne contro il debito, dalle sollevazioni indigene del Chiapas, dai movimenti delle donne in India, dei sem terra in Brasile, e tanto altro che si mescolava nelle dinamiche e nell’esperienza dei Social Forum verso la costruzione di quello che veniva definito «un altro mondo è possibile».

Un movimento che lottava per i diritti, la giustizia, l’ambiente, il lavoro e che di fronte alla minaccia di una guerra, di una invasione militare seppe subito mobilitarsi e cogliere il nesso tra sistema neoliberista e guerre. Un sistema ed un modello di società che ha il mercato come elemento regolatore delle relazioni economiche e sociali, il profitto ed il PIL come indicatori di successo, a cui serve garantirsi l’accesso alle materie prime ed alla mano d’opera al minor costo possibile, che non vuole barriere ed ostacoli per poter agire, è naturale che abbia nella guerra e nelle armi, la sua testa di ponte, il suo braccio operativo per procedere spedito al controllo delle risorse naturali imponendosi e controllando ogni angolo del pianeta. Da quel giorno ad oggi, non possiamo neppure più ripetere la frase «quanta acqua è passata sotto ponti» perché i fiumi sono in secca ed i ponti crollano. Passiamo da una crisi all’altra, senza soluzione di continuità, avvicinandoci sempre più alla tempesta perfetta, scivolando verso la distruzione del pianeta e con il rischio di un incidente o di una guerra nucleare. La guerra in Iraq si fece, come si sono fatte le guerre in tutto il Medio Oriente, in Afghanistan, in Africa ed ora in Europa. Se ne contano oggi più di 50 e per nessuna di queste è prevista la fine.

La guerra è parte del sistema, ha una sua industria e servizi di supporto che necessitano di investimenti, ricerca, spesa pubblica, produce ricchezza e garantisce sicurezza al sistema. Poco importa se in ogni paese dove la guerra è stata dichiarata come necessaria, come unica opzione possibile, sono rimasti solo cimiteri, macerie e ferite che non si chiudono tra le diverse comunità, con milioni di sfollati e profughi. Poco importa, questi sono considerati effetti collaterali, perdite fisiologiche, previste, non più discutibili in quanto necessarie per la nostra sicurezza ed il nostro futuro.

Il paradosso da cui dobbiamo uscire è che, se le mobilitazioni di vent’anni fa non riuscirono a fermare la guerra in Iraq, la corsa alle guerre ed al riarmo, quei valori e quelle richieste , come democrazia, diritti umani, libertà, sostenibilità ambientale, giustizia sociale, lavoro con diritti, autodeterminazione dei popoli, riforma delle Nazioni unite, disarmo sono oggi più attuali che mai, ma non hanno un movimento popolare internazionale pronto a mobilitarsi come allora.

Perché nonostante la maggioranza delle popolazioni non voglia andare in guerra e nonostante la presenza di tantissime realtà che operano nella cooperazione, nell’accoglienza, nella promozione dei diritti umani e della nonviolenza, nell’educazione alla pace, nella difesa dei diritti, i nostri parlamenti e governi esprimono posizioni contrarie, come stiamo assistendo da un anno a questa parte nel caso della guerra in Ucraina ? Come non vedere che, dopo un anno di guerra, la posta in palio non è solo l’Ucraina ma che in gioco è il sistema ed il futuro dell’umanità e del pianeta?

La posizione di fermare la guerra con un immediato cessate il fuoco, spesso derisa come proposta illusoria (o posizione filo-putiniana), è innanzitutto indispensabile per non far pagare all’Ucraina ed alla sua popolazione il costo del fallimento della politica, ed in secondo luogo è il richiamo al rispetto dei principi fondamentali che sostengono la carta della Nazioni unite e le costituzioni democratiche.
È il ripudio della guerra che significa non considerarla come una opzione per la risoluzione delle crisi internazionali tra Stati e che l’unica vittoria di cui abbiamo bisogno è la pace ed un sistema di sicurezza condivisa.

E ci voleva il ritorno di Lula alla presidenza del Brasile, per ridare speranza allo spirito di Porto Alegre che dall’America, rilanciando i messaggi di un altro capo di stato latinoamericano, Bergoglio, ha dichiarato di non volersi «unire alla guerra» ma di voler porre fine alla guerra e di impegnarsi subito in un «fronte della pace» affinché ci sia una forte azione diplomatica internazionale, perché la guerra si può e si deve fermarla. Un’altra politica è possibile.

* Cgil- Ufficio internazionale,
responsabile Pace
Coordinatore Esecutivo
Rete italiana Pace e Disarmo
Europe for Peace

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