Terra rimossa Il ministro Katz spara a zero sul presidente francese. Cresce il timore di isolamento: la Germania frena sulle forniture di armi a Tel Aviv. Sul piano Witkoff Hamas si consulta con le altre fazioni. Trump: «Annuncerò l’accordo a breve»
I soldati israeliani arrestano un palestinese nel campo profughi di Tulkarem – Epa
È una guerra di parole quella in corso tra Emmanuel Macron e Israele, ma è sempre più aspra e priva di freni, soprattutto da parte di Tel Aviv. Dopo che il presidente francese ha dichiarato che i Paesi europei dovrebbero adottare una posizione più dura nei confronti di Israele se non permetterà l’ingresso massiccio di aiuti e il miglioramento della situazione umanitaria a Gaza, il governo Netanyahu ha reagito accusando Macron di aver intrapreso una «crociata contro lo Stato ebraico». Il ministero degli Esteri israeliano non vede «alcuna emergenza umanitaria a Gaza». Macron, è scritto nel comunicato israeliano, «invece di fare pressione sui terroristi jihadisti, vuole ricompensarli con uno Stato palestinese». Il riferimento è all’intervento fatto da Macron al forum dello Shangri-La Dialogue di Singapore, in cui il presidente francese ha spiegato che il riconoscimento dello Stato palestinese, a determinate condizioni, è «non solo un dovere morale, ma una necessità politica». Ha poi avvertito che, se le nazioni occidentali «abbandoneranno Gaza» e «lasceranno che Israele faccia ciò che vuole», rischieranno di perdere ogni credibilità sulla scena mondiale.
Il governo Netanyahu ha compreso che Macron ieri ha anticipato pubblicamente le sue prossime mosse all’Onu. Parigi sta valutando la possibilità di riconoscere lo Stato di Palestina alla conferenza delle Nazioni unite che Francia e Arabia saudita organizzeranno congiuntamente dal 17 al 20 giugno. In quella sede la Francia intende definire i parametri di una tabella di marcia verso lo Stato palestinese, garantendo al contempo la «sicurezza di Israele». Ad accrescere le preoccupazioni di Tel Aviv è anche l’annuncio fatto ieri dalla Germania, che si riserva di decidere se approvare o meno nuove forniture di armi a Israele in base a una valutazione della situazione umanitaria a Gaza.
La controffensiva diplomatica israeliana è già in corso da giorni. Il ministro degli Esteri Gideon Saar ha fatto sapere ai governi europei che qualsiasi passo a favore dell’indipendenza palestinese sarà seguito dall’annessione a Israele della Cisgiordania occupata. E ieri il ministro della Difesa Israel Katz ha aperto un fuoco di sbarramento dichiarando che il governo Netanyahu costruirà «lo Stato ebraico israeliano» in Cisgiordania. «Questo è un messaggio chiaro a Macron e ai suoi amici: loro possono anche riconoscere uno Stato palestinese sulla carta, ma noi costruiremo lo Stato ebraico israeliano qui sul territorio», ha dichiarato Katz in una nota dal suo ufficio. «Quella carta finirà nel dimenticatoio della storia e lo Stato di Israele prospererà», ha affermato perentorio. Parole che, non a caso, Katz ha pronunciato visitando Sanur, il sito dove sorgeva l’omonimo insediamento coloniale israeliano evacuato e distrutto nel 2005 dal premier Ariel Sharon, nel quadro del suo piano di ridispiegamento (ritiro) da Gaza e da quattro piccole colonie in Cisgiordania. Fu una ferita mai rimarginata nella destra israeliana, e due giorni fa il governo ha annunciato che Sanur sarà ricostruito nell’ambito di un progetto di creazione di 22 colonie.
In primo piano ieri c’era anche l’ultima proposta di cessate il fuoco a Gaza e di scambio tra ostaggi israeliani e prigionieri palestinesi, presentata dall’inviato americano Steve Witkoff. Benyamin Netanyahu ha fatto sapere ai media di averla accettata. Hamas, invece, ha preso tempo e annunciato di volersi consultare con le altre «fazioni palestinesi» prima di dare una risposta definitiva. L’orientamento prevalente è quello di respingere l’offerta di Witkoff, come ha detto alla BBC un dirigente del movimento islamico, perché – ha spiegato – non soddisfa le richieste palestinesi fondamentali, tra cui la fine della guerra. L’inviato USA, infatti, non ha previsto la cessazione permanente dell’offensiva israeliana in cambio della liberazione di tutti gli ostaggi a Gaza – sono 58 in totale, di cui 20 vivi –, come Hamas propone da tempo.
Piuttosto, promuove la liberazione di 10 ostaggi vivi e la restituzione dei corpi di altri 18 deceduti in cambio di 60 giorni di cessate il fuoco, senza il ritiro delle truppe di occupazione. La tregua, teoricamente, si prolungherebbe nel caso di un buon andamento delle trattative successive. Ma anche il più ingenuo degli osservatori sa che il governo Netanyahu, al termine della pausa di due mesi, riprenderà l’offensiva militare. Proprio come è accaduto al termine della prima fase della tregua scattata lo scorso 19 gennaio e interrotta da Israele il 18 marzo. Witkoff conferma anche il contestato nuovo meccanismo di distribuzione degli aiuti umanitari voluto dal governo Netanyahu.
Confezionata in modo da spingere Hamas a rifiutarla, non sorprende che Netanyahu si sia affrettato ad approvare la proposta. Intervistato dal quotidiano Maariv, il tenente colonnello della riserva Amit Yagur ha spiegato che il nuovo meccanismo di distribuzione alimentare «rappresenta una svolta strategica fondamentale». Priva Hamas «dei suoi principali elementi di sovranità, mentre sono in corso i preparativi per l’attuazione di un piano di emigrazione volontaria» della popolazione palestinese, ha aggiunto. Prevedendo il rifiuto di Hamas, il ministro ultranazionalista Itamar Ben Gvir ha esortato a usare «tutta la forza necessaria» contro Hamas, in realtà contro Gaza, allo scopo di cacciare via gli abitanti.